lunedì 7 settembre 2020

Il trionfo della morte (1894)

«...Quella catena di promontori e di golfi lunati dava l'immagine d'un proseguimento di offerte, poiché ciascun seno recava un tesoro cereale. Le ginestre spandevano per tutta la costa un manto aureo. Da ogni cespo saliva una nube densa di effluvio, come da un turibolo. L'aria respirata deliziava come un sorso d'elisir.»

(Gabriele d'Annunzio, da Il trionfo della morte, descrizione della Costa dei Trabocchi)


Il terzo libro della trilogia è di grande importanza, in quanto mostra l'avvicinamento dannunziano al filosofo Friedrich Nietzsche, e al tema del "superomismo", di cui d'Annunzio creerà una creatura "superomista" del tutto legata al carattere letterario e al decadentismo, ovviamente. Fu avviato nel 1889 dopo "Il piacere", col titolo provvisorio "L'invincibile", e pubblicato a parti sul giornale, poi interrotto. D'Annunzio dovette rielaborare le sue esperienze passate a San Vito Chietino (Abruzzo) sulla costa dei Trabocchi con l'amante Barbara Leoni, e soprattutto dovette leggere lo Zarathustra di Nietzsche per poter tornare a riprendere l'opera con più ardore, sino al completamento.

La vicenda è ambientata brevemente a Roma, durante una scena di suicidio, poi definitivamente in Abruzzo, inizialmente presso Guardiagrele (CH). Nel borgo montano giunge il nobile Giorgio Aurispa, qui lui ha le sue origini nobili, come dichiara descrivendo la lapide monumentale del duomo di Santa Maria Maggiore con gli altri stemmi nobiliari (anche se in realtà è una invenzione dannunziana). Aurispa è messo in crisi dalla visione della morte. La sua ricca famiglia è in decadenza, perché suo padre sta sperperando gli ultimi averi con prostitute, e il resto della famiglia vive in miseria. L'unica persona a cui Giorgio è affezionato è lo zio Demetrio, che però muore suicida, altro segnale cupo dell'incombenza della morte sul destino di Giorgio.


Giorgio, esasperato dalla dura vita di paese, e dalla orripilante presenza di superstizione di streghe e di malocchi, fugge a San Vito Chietino, al mare, affittando una villetta sul litorale dei cosiddetti "trabocchi", ossia macchine da pesca in legno assai popolari. Giorgio contatta anche la sua amata Ippolita Sanzio, pregandola di consolarlo venendo da Roma. Mentre Giorgio si tuffa nella lettura dello Zarathustra di Nietzsche, scoprendo un mondo nuovo, l'estetismo che in un certo senso aveva fallito nel tentativo di affermazione dei personaggi dannunziani sino ad allora, adesso con la filosofia del superomismo ha una uova forza vitale per affermarsi nella società dei miseri borghesi. Ippolita lo raggiunge si affascina alle superstizioni abruzzesi riguardo alla stregoneria e al malocchio, vedendo la morte di un bambino per affogamento e quella di un infante, che si dice essere stato risucchiato nell'anima da una maga.
Giorgio è disgustato, e sente la morte sempre più vicina,spera di redimersi dalla "maledizione della morte" andando in pellegrinaggio nella vicina Casalbordino, al santuario della Madonna dei Miracoli, ma vede soltanto uno spettacolo raccapricciante di infermi e moribondi che chiedono invano grazia alla Vergine. Altro riferimento a un'esperienza realmente vissuta dal D'Annunzio andando a Casalbordino.
Sconsolato, dato che la sua compagna di viaggio e di esperienze ora, con il fascino per la rozzezza delle superstizioni e dunque per il "tradimento" contro i suoi ideali da parte dell'amante Ippolita, Giorgio decide il suicidio con la fidanzata.

I temi del romanzo, oltre a confermare l'autorità del superuomo dannunziano esteta e poeta, mostrano anche l'aspetto debole di questa figura: un uomo acculturato che però vive in una società corrotta e dissoluta, ossia la borghesia italiana emergente, e la massificazione sociale con la costruzione delle fabbriche. La cosiddetta "fiumana del progresso" verghiana. L'esteta non può far altro che reagire con l'isolamento in un luogo sicuro, stando a contatto con la natura. Nel caso però del Trionfo della morte, Giorgio incontra la plebe orrorifica e gli aspetti "soprannaturali" delle leggende abruzzesi, che lo sconfiggono. Complice della sconfitta è la stessa amante del protagonista, che rimane attratta da tali pratiche superstiziose. Il libro è tratto da un fatto veramente vissuto dallo stesso d'Annunzio nel 1899 a San Vito, in presenza della sua amata Barbara Leoni. Oggi esiste ancora la villetta affittata dal poeta sul cosiddetto "eremo dannunziano" nel cuore della costa dei Trabocchi. Anche l'episodio macabro del pellegrinaggio a Casalbordino è minuziosamente documentato dal poeta nelle lettere inviate nell'estate dell'89 a Barbara a Roma.



L'innocente (1892)

 Il secondo romanzo della trilogia, mescola in un certo senso l'estetismo romano e il tema dell'evangelismo russo di Tolstoj e Dostoevskji.

D'Annunzio nel 1900 ca.

Tullio Hermil, ex diplomatico e ricco proprietario terriero, è da sette anni marito di Giuliana, dalla quale ha avuto due figlie. Uomo dai gusti raffinati e privo di moralità, ha un temperamento inquieto e sensuale e tradisce la moglie continuamente. Una grave malattia di Giuliana sembra riavvicinarlo a lei, ma è un'illusione. Quando poi, veramente pentito, Tullio torna da lei, deve apprendere che la donna lo ha tradito a sua volta e aspetta un figlio dallo scrittore Filippo Arborio; il protagonista comincia a nutrire odio verso "quel figlio non suo", sin da quando il bambino è ancora in grembo alla madre. Il nascituro viene visto dai due come un elemento di disturbo del loro improbabile amore. Ma la gravidanza è difficile e i coniugi sperano che il bimbo muoia prima di venire alla luce, oppure lo uccideranno loro stessi, sollevandosi da un grave problema. Venuto al mondo l'innocente, Giuliana si fa silenziosa complice del piano disumano del marito. Tullio, approfittando della breve assenza della governante, espone il bambino al gelo di una notte natalizia. Questo ovviamente si ammala e muore poco dopo, fra la disperazione dei parenti e dei servitori.


«Io credevo che per me potesse tradursi in realtà il sogno di tutti gli uomini intellettuali: - essere costantemente infedele a una donna costantemente fedele.»

(Gabriele D'AnnunzioL'innocente)




Il piacere (1889)

 Il primo romanzo dannunziano fu avviato nel 1886, inizialmente senza un progetto ben preciso; nelle lettere a Treves editore d'Annunzio parla di un primo titolo "I Pantaleonidi", e si proponeva di descrivere uno spaccato di vita sociale di Pescara; successivamente il progetto si incentrò sulle esperienze mondane del poeta nella capitale Umbertina, e per la prima parte, D'Annunzio rielaborò una novella scritta per la raccolta San Pantaleone, ossia il capitolo del "Distacco" tra Andrea e l'amante Elena, da cui sarebbe partito il lungo flashback della storia d'amore, sino a tornare al presente, nel capitolo conclusivo. Nelle lettere a Treves questa porzione del bozzetto è definita il "Frammento".

Infatti il racconto è ambientato tra Roma e Rovigliano (NA), dove il nobile dandy Andrea Sperelli, simbolo del poeta decadente per eccellenza, vive la forte passione per Elena Muti. Costei è ritenuta la fèmme fatale di tutta la storia, perché Elena non si farà mai conquistare, benché Andrea faccia di tutto per lei. Dopo essere stato abbandonato da Elena, che doveva risolvere il problema dei suoi debiti mediante un matrimonio con un ricchissimo nobiluomo inglese, dopo un conflitto a duello con Giannetto Rutolo, amante di una nobildonna di cui si è invaghito, Ippolita Albonico, Andrea viene ferito, è in convalescenza a Rovigliano, nella bellissima villa Schifanoia di proprietà di una sua cugina, dove conosce una carissima amica di lei, Maria Ferres, di cui si appassiona nella speranza di dimenticare Elena Muti. Tuttavia questo ignobile tentativo egoista, incurante dell'amore di Maria, pieno dei rimorsi di una donna sposata e madre di una bambina, non andrà a buon fine, giungendo alla tragedia della memorabile e significativa scena in cui Andrea, durante un abbraccio ardente con Maria, grida il nome di Elena.

Nel Piacere è ravvisabile una fitta rete di rimandi a vari modelli letterari e artistici, legati sia all'ambiente romano in cui il poeta era inserito, sia alla lettura di autori a lui contemporanei, per lo più francesi. Parigi fu, negli anni della Terza Repubblica e fino allo scoppio della prima guerra mondiale, la capitale culturale d'Europa, la città in cui vennero elaborati i modelli, gli atteggiamenti, i programmi dei principali movimenti culturali, il luogo di attrazione di tutti gli artisti e scrittori europei.D'Annunzio utilizzò il suo impiego giornalistico alla "Tribuna" di Roma per esplorare e assimilare i nuovi modelli letterari francesi ed europei in generale, attraverso il continuo rapporto con altri intellettuali e scrittori. Alle sue influenze precedenti, che comprendevano Charles BaudelaireThéophile Gautier, l'estetica preraffaellita elaborata dai critici del giornale Cronaca bizantina, e Goethe, si aggiunsero dunque quelle provenienti dalla nuova fonte di ispirazione francese, come Gustave FlaubertGuy de MaupassantÉmile Zola, ma anche Percy Bysshe ShelleyOscar Wilde e forse la lettura di À rebours di Joris Karl Huysmans.


Di grande importanza sono poi gli influssi dell'ambiente romano. D'Annunzio giunse nella capitale nel 1881, e i dieci anni che vi trascorse furono decisivi per la formazione del suo stile: nel rapporto con l'ambiente culturale e mondano della città si formò il nucleo della sua visione del mondo. Centrale fu in particolare la sua collaborazione alla rivista Cronaca Bizantina, di proprietà dello spregiudicato editore Angelo Sommaruga, il primo a pubblicare libri del giovane poeta. La rivista, che aveva una linea editoriale orientata alle concezioni letterarie moderne in voga allora (tanto da parlare di una «Roma bizantina») e di cui lo stesso D'Annunzio fu direttore per breve tempo nel 1885, ospitava rubriche di letteratura firmate da importanti artisti e scrittori inseriti nell'ambiente giornalistico, tra cui spiccano Edoardo ScarfoglioUgo FleresGiulio Salvadori e altri. Sempre a questi anni risale l'amicizia con il musicista Francesco Paolo Tosti e il pittore Francesco Paolo Michetti. Inoltre, D'Annunzio fu collaboratore di molte altre testate romane, e dal 1884 al 1888 scrisse di arte e di cronaca mondana per il quotidiano La Tribuna, firmando con vari pseudonimi e occupandosi di mostre d‘arte, ricevimenti aristocratici e aste d'antiquariato. Attraverso questa intensissima attività D'Annunzio si costruì un personale e inesauribile archivio di stili e registri di scrittura, da cui attinse poi per le sue opere di narrativa. In questo rito di iniziazione letteraria egli mise rapidamente "a fuoco" il proprio mondo di riferimento culturale, nel quale si immedesimò fino a trasfondervi tutte le sue energie creative ed emotive, condannandosi così per molti anni ad accumulare debiti e a fuggire dai creditori. Si può quindi parlare, tanto nelle opere quanto nella vita di D'Annunzio, di una idealizzazione del mondo, che viene ad essere circoscritto nella dimensione del mito. La sua fantasia lottò prepotentemente per imporre sulla realtà del presente, vissuto con disprezzo, i valori alti ed eterni di un passato visto come modello di vita e di bellezza.



Valore assoluto del Piacere è l'arte, la quale rappresenta per Andrea Sperelli un programma estetico e un modello di vita, a cui subordina tutto il resto, giungendo alla corruzione fisica e morale (è il tipico dandy, formatosi nell'alta cultura e votato all'edonismo). È, insomma, la realizzazione di un'elevazione sociale e di quel processo psicologico che affina i sensi e le sensazioni:

«bisogna fare la propria vita come si fa un'opera d'arte. La superiorità vera è tutta qui. . La volontà aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Codesto senso estetico  gli manteneva nello spirito un certo equilibrio.  Gli uomini che vivono nella Bellezza,  che conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezione della Bellezza è l'asse del loro essere interiore, intorno a cui tutte le loro passioni ruotano.»

(G. D'Annunzio, Il piacere, libro II, cap. II)

Dopo la convalescenza, successiva alla ferita procuratasi a causa del duello con Giannetto Rutolo, Andrea scopre che l'unico amore possibile è quello dell'arte,

«l'Amante fedele, sempre giovine mortale; eccola Fonte della gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa agli eletti; ecco il prezioso Alimento che fa l'uomo simile a un dio.»

(G. D'Annunzio, Il piacere, libro II, cap. I)

Questa attrazione per l'arte viene rappresentata dall'inclinazione di Andrea verso la poesia, che

«può rendere i minimi moti del sentimento  può definire l'indefinibile e dire l'ineffabile; può abbracciare l'illimitato e penetrare l'abisso; può inebriare come un vino, rapire come un'estasi; può raggiungere infine l'Assoluto.»

(G. D'Annunzio, Il piacere, libro II, cap. I)

Il culto «profondo e appassionato dell'arte» diventa per Andrea l'unica ragione di vita, tirato in gioco anche nei rapporti con Elena Muti e Donna Maria Ferres, perché egli è convinto che la sensibilità artistica illumini i sensi e colga nelle apparenze le linee invisibili, percepisca l'impercettibile, indovini i pensieri nascosti della natura. Senza dubbio, «i miraggi erotici, tutte le insane orge dei sensi si fondano su una profonda corruzione del sentimento.  L'arte si dissolve nella minuziosità di un estetismo individualmente raffinato, si limita alla forma e non penetra la sostanza» (appunto di lettura del Michelstaedter sul Piacere). Tuttavia, messe da parte l'autosuggestione decadente e la tendenza alla spettacolarizzazione di D'Annunzio, l'accostamento tra arte e bellezza, arte e vita è una risposta, energica ed eloquente, verso la massificazione dell'arte e la mercificazione del letterato e della letteratura. Il Piacere è l'agonia dell'ideale aristocratico di bellezza. Racconta la vacuità e la decadenza della società aristocratica, infettata dall'edonismo, vicina al proprio annichilimento morale, poiché il valore del profitto ha sostituito quella della bellezza. Emblematica è la fine del romanzo: Andrea, vinto, disfatte le proprie avventure amorose, vaga per le antiche stanze del palazzo del ministro del Guatemala, disabitato, in rovina, il cui arredamento è stato venduto all'asta.



Le novelle della Pescara (1902)

 L'antologia è una rielaborazione definitiva delle precedenti raccolte de Terra vergine - Il libro delle vergini - San Pantaleone, in gran parte quest'ultima compone le novelle. Fu pubblicato da Treves editore nel 1902, successivamente il copyright passò a Mondadori editore. Come nelle precedenti, d'Annunzio rielabora stilisticamente le novelle, creando un Abruzzo naturalistico e selvaggio, composto da istinti primordiali per quanto concerne la caratterizzazione della massa, ed estrema decadenza morale per la descrizione delle classi medie e nobili. Il progetto come gli altri si ispira alla Vita dei campi di Giovanni Verga e al naturalismo; anche se d'Annunzio prende delle distanze per inserimento dei dialoghi in dialetto e usa una descrizione composta da stile elevato, anziché usare la tecnica della "forma inerente al soggetto".

Le storie narrano scene di vita della popolazione di una Pescara ancora provinciale, ridotta a semplice villaggio di mare, in rivalità con il comune vicino di Castellammare Adriatico, come dimostra la novella La guerra del ponte; i personaggi principali sono i cafoni abruzzesi in lotta con il destino e con il loro istinto primordiale quasi animalesco di rapportarsi con la realtà e con il prossimo, spesso accecato e deviato da superstizioni e interpretazioni religiose troppo estremiste, come i casi de La vergine Orsola, la novella aprente, ripresa dalla novella iniziale de "Il libro delle vergini", e Gli idolatri, il tema centrale della raccolta San Pantaleone, con la descrizione della scena di estremismo religioso al limite del fanatismo per la venerazione del busto di San Pantaleone nella chiesa di Miglianico.


San Pantaleone (1886)

 Nel San Pantaleone, d'Annunzio tratteggia bozzetti di società più variegati, infatti quasi tutti verranno ripresi, con poche correzioni stilistiche, nel volume finale delle Novelle della Pescara; il panorama rimane sempre l'entroterra abruzzese attorno a Pescara. Si narra di nobili decaduti e di mezzadri che vedono la loro proprietà andare in fumo a causa delle rivolte contadine. Tra le novelle più note, c'è quella ambientata nel santuario di Miglianico, vicino Pescara, dove un fanatico credente si taglia la mano in onore di San Pantaleone.

Nonostante il prodotto dannunziano, se si considerano le Novelle come rielaborazione di opere originali già scritte, sia il meglio riuscito della stagione di prose letterarie che reinterpretano il tema verghiano del naturalismo; D'Annunzio non riesce completamente a raggiungere gli obiettivi di Verga, giacché la sua prosa, anziché ripercorrere le tematiche dell'artificio di regressione e dell'eclissi del narratore nella vicenda trattata, usa pur sempre artifici retorici e sufficientemente ricchi di vocaboli complessi e nobili, arrivando addirittura a commentare la vicenda con i condizionali "direi"; tuttavia egli a differenza di Verga riesce a far calare il lettore nella narrazione e nel contesto storico e ambientale, facendo parlare i personaggi rudi nel dialetto tipico abruzzese. Ciò nei romanzi verghiani non era assolutamente possibile, per via di una scelta poetica di Verga stesso.


La raccolta del San Pantaleone è un'innovazione del naturalismo di Verga da parte di D'Annunzio, sul piano elaborativo delle novelle, composte in maniera più originale e ricercata, alcune sono molto più che semplici bozzetti, e sono dotati di più capitoli. C'è una salto di qualità decisivo per lo stile, la descrizione ora appassionata, ora ricca di particolari anatomici, trasudanti ribrezzo e distacco, quando il poeta deve parlare di personaggi ammalati, o d'estrazione bassa di Pescara, o di antichi riti cattolici che sfociano spesso e volentieri nella superstizione e nel fanatismo, come il rito di San Pantaleone a Miglianico.

D'Annunzio si distacca dai bozzetti in stile squisitamente carducciano di Terra vergine (1882) e della prosa aulica e parnassiana del Libro delle vergini (1884) per creare una raccolta non prettamente organica, ma le cui novelle intendono rappresentare saldamente il nuovo programma dannunziano che seguiva all'epoca la scia del verismo. Interessante notare un "frammento", come D'Annunzio lo definiva nelle lettere all'editore Treves, nel momento della realizzazione del primo romanzo: Il piacere (1889); tale frammento vede i protagonisti Andrea ed Elena, successivi protagonisti del romanzo, e ripercorre la prima parte del volume, del commiato lungo la passeggiata al Pincio, prima del lungo flashback di Andrea Sperelli che interesserà tutta la narrazione del romanzo.




Il libro delle vergini' (1884)

 Pubblicato dall'editore Sommaruga, si tratta di quattro novelle che risentono più del sensualismo parnassiano che del verismo verghiano. Il tema trattato è l'amore nelle sue diverse sfumature, spesso tragico e adulterino. Un accenno di verismo lo si potrebbe individuare nel fatto che queste donne protagonisti, nel tentativo di voler cambiare il loro equilibrio sociale e coniugale, falliscano sempre, e nella maniera più triste, oppure si macchino di empietà; è il caso della prima novella "Le vergini", rielaborata come "La vergine Orsola" nelle Novelle della Pescara, che essendo consacrata a Dio da un voto, guarendo il giorno di Natale da un terribile male, si innamori di un ladrone, viene messa incinta, decise di abortire con un filtro magico, e alla fine proprio all'estremo si ravvede dei suoi errori, morendo però tra gli spasmi e le contrazioni. Anche la terza novella "In assenza di Lanciotto", in parte ripresa nelle Novelle del 1902, è evidente il naturalismo, nella descrizione anatomica dei particolari della carne e dei gemiti durante l'amplesso adulterino della protagonista con il padre di suo marito, che è al letto gravemente ammalato.




Terra vergine (1882)

 La raccolta Terra vergine, assieme al Libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886) risulta essere uno dei primi esperimenti letterari in prosa di d'Annunzio, che si ispira alla raccolta siciliana Vita dei campi di Giovanni Verga. Tutte e tre queste raccolta verranno rimaneggiate dal d'Annunzio nel 1902 per la versione definitiva del volume Le novelle della Pescara. In realtà tuttavia, di questo primo volumetto, nessuna novella verrà rielaborata da D'Annunzio per il prodotto finale delle "Novelle della Pescara".

Si tratta di piccoli e brevi bozzetti intrisi di artificiosità descrittiva che risente molto della lezione parnassiana e carducciana, mentre il tema trattato è quello bestiale e selvaggio della natura abruzzese, e delle vicende che riguardano i personaggi del substrato della piccola Pescara.
Il verismo dannunziano è molto sentito nella sua terra natale abruzzese, ancora legata prevalentemente alla transumanza, all'agricoltura e alle superstizioni. Terra vergine è il primo esempio: le storie riguardano amori fugaci campagnoli, tragedie di poveri nullatenenti (spesso ragazzi) che periscono per cause naturali durante inverni gelidi o per incidenti sul lavoro. Compaiono anche episodi raccapriccianti di sordomuti e malati mentali che per la loro natura, sono ritenuti dalla comunità "posseduti" dal demonio, e quindi ostracizzati, o peggio uccisi come "eretici". Sostanzialmente in quest'opera, le cui novelle dapprima furono pubblicate separatamente nei quotidiani gestiti da D'Annunzio a Roma, e poi riuniti in volumetto, sono molto lontane da quella patina di verismo che D'Annunzio seppe conferire alle novelle realizzate più tardi nel San Pantaleone (1886) e poi nel volume finale del 1902.