domenica 29 maggio 2022

curiosità : i segreti piccanti dell’harem del Vate

 Il Vate, definendosi lebbroso, rilanciava la credenza medievale secondo cui il lebbroso è signatus, toccato da Dio, e quindi sacro, se non addirittura il Cristo stesso. Si proponeva come un oggetto di adorazione. E riscrisse i sette peccati capitali, per adattarli a sé stesso: divennero cinque perché omise la lussuria e l’avidità considerandole autentiche virtù. Esteta raffinato e di animo nobile, di illimitato egotismo, un grande amatore, un poeta incorruttibile. Un dandy che considerava la sua vita come la più grande opera d’arte. Ne Il Piacere esaltò il suo vivere inimitabile alla costante ricerca di ogni possibile godimento. D’Annunzio aveva l’abitudine di avvolgere il corpo delle sue amanti con il profumo Chanel n.5 e calze di seta purissima: «Tanto sottili che rivelano anche la lanugine più lieve… come nell’orlo di certi vasi di Murano, il filetto azzurro o violetto o di rosso corallo…». Solo una donna non si sottomise mai a questo rito seduttivo: l’attrice Eleonora Duse, la donna più importante nella vita del poeta. Gli studenti liceali di tante generazioni sono stati attratti, forse anche più che dalle sue opere letterarie, dalle sue imprese, dai comportamenti, dalle dicerie (con molte fandonie).

La sua biografia più interessante è stata scritta da Giordano Bruno Guerri (La mia vita carnale, amori e passioni di Gabriele D’Annunzio). Indubbiamente, come confermano centinaia di testimonianze, D’Annunzio era un grande amatore. E una delle sue cameriere – la francese Amélie Mazoyer – aveva un unico compito in casa (oltre a quello di procurargli le donne): usare la sua «bocca meravigliosa» e la sua «mano donatrice d’oblio»… Al Vittoriale visse a lungo, per anni, come la regina di casa la pianista Luisa Baccara, innamoratissima del Vate. Una donna che però in un momento di ira e di folle gelosia aveva quasi tentato di ucciderlo. Nel 1922, infatti, si dice che la Baccara avesse spinto D’Annunzio giù da una finestra (a pochi metri d’altezza). L’ipotesi è che l’avesse sorpreso a tentare di sedurre la sua sorellina Jolanda, appena sedicenne. Ma le cose andarono veramente così? Per molti anni Luisa fu conosciuta come «la Signora del Vittoriale», e oltre a essere una delle muse di Gabriele D’Annunzio ne fu una delle amanti più fedeli e discrete, che nascose una forza imprevedibile sotto l’apparente remissività. Era nata a Venezia il 14 gennaio 1892, alla vigilia degli anni Venti fu la rivelazione del Conservatorio Benedetto Marcello: i giornali parlavano di lei come di una pianista eccezionale, destinata a una grande carriera. Quando conobbe il poeta aveva 26 anni, era alta e snella, aveva capelli neri con una lunga ciocca d’argento. Lui aveva quasi 30 anni più di lei; era già l’eroe di Buccari e del volo su Vienna, e si apprestava alla conquista di Fiume, dove poi lei lo seguì per realizzarvi una serie di concerti. L’aveva ascoltata suonare nell’agosto del 1919 a casa di una amica comune, e poche settimane dopo le aveva scritto una lettera per invitarla alla Casetta Rossa lungo il Canal Grande, indicandole anche gli abiti che avrebbe dovuto indossare. Mi riferisco alla puntigliosa ricostruzione del Gazzettino di Venezia. «Smikrà», «piccola» in lingua greca, la chiamò sempre Gabriele, ricevendo in cambio il suo antico soprannome di Ariel. Luisa Baccara fu una persona sfuggente a qualsiasi etichettatura: dolce e aggressiva allo stesso tempo, apparentemente fredda al punto da risultare antipatica, possessiva eppure capace di sopportare qualsiasi libertà (non furono poche) D’Annunzio ritenesse di prendersi, anche sotto lo stesso tetto del Vittoriale. Eppure fu dotata di una passione e di una forza che traspare dalle lettere di lui e che si sostanzia da un lato nel tentativo di rapimento che nel 1920 alcuni fedelissimi del Vate programmarono per allontanarla da lui (ritenuto troppo «distratto» dalle attenzioni che le riservava) e dall’altro nella vicenda del cosiddetto «Volo dell’Arcangelo».


La sera del 13 agosto 1922 (peraltro a due giorni dal previsto storico incontro di «avvicinamento» di Mussolini al poeta) Gabriele D’Annunzio cadde dal balcone di una stanza del Vittoriale e rimase fra la vita e la morte per molti giorni. La versione ufficiale parlò di caduta accidentale dovuta a un capogiro mentre D’Annunzio (che era in pigiama e pantofole) cercava un po’ di fresco nella serata afosa; ma le illazioni non mancarono: tentativo di suicidio, fatto doloso, addirittura che fosse stato tutto inventato e la caduta non ci fosse mai stata. Di sicuro il poeta, appoggiato alla finestra, stava ascoltando della musica suonata per lui da Luisa. Aveva accanto la sorella della pianista, Jolanda. La caduta, che comunque fu accidentale, fu probabilmente causata da una spinta datagli da una delle Baccara: da Jolanda, forse per opporsi a un approccio indesiderato, oppure dalla stessa Luisa, intervenuta per proteggere la sorella. Otto giorni più tardi, ancora in stato di semi-incoscienza, il poeta mormorò una frase che fu diligentemente appuntata dal medico curante: «E Joio? Jolanda si sarà spaventata e sarà scappata a Venezia». Un indizio significativo di quanto era avvenuto davanti a quella finestra. Ma nessuno, tra i presenti di quella sera, parlò. E la «Signora del Vittoriale» resistette per decenni a ogni tentazione giornalistica e anche quando a 92 anni, nel 1984, fu intervistata in televisione, mantenne su quei fatti il riserbo più assoluto. Un’altra «bufala», più credibile e forse con qualche spunto di verità, è che l’autore invecchiando aveva cominciato a detestare il suo corpo. In gioventù ne era stato orgogliosamente molto fiero. Ma dopo i 60 anni se ne vergognava un po’: era bassino (alto 1.64) e gracile. Non voleva mostrarsi nudo alle innumerevoli amanti. Perciò aveva ordinato alla sarta di fargli un buco nel pigiama, all’altezza del membro, in modo da essere pronto al coito, senza spogliarsi. A proposito della sua camera da letto, si dice che amasse circondarsi di oggetti che gli ricordassero le sue imprese. Sia che militari, sia erotiche. Pare che il suo cuscino fosse riempito non di piume, ma di capelli delle sue amanti. Si divertiva a dare nuovi nomi al suo organo sessuale: «il Perno del mondo», «il Gonfalon selvaggio», «la Catapulta perpetua». Nomi che citava nei biglietti alle amanti reclamandone le attenzioni: anche all’organo sessuale femminile trovò nuovi nomi; il più bello e misterioso fu «la filigrana vivente».

Al Vittoriale tutto è rimasto pietrificato, alla sera del primo marzo 1938 quando il Comandante si spense, per una emorragia cerebrale. Tutto fermo alle otto e cinque di quella sera, perfino il barattolo aperto di cipria poggiato sul comò di Amélie, perfino il rotolo di carta igienica incignato che pende tuttora nel bagno delle ospiti. Racconta Giordano Bruno Guerri: «La stessa notte in cui morì l’architetto del Vittoriale, Gian Carlo Maroni, sloggiò per sempre la Baccara e la Mazoyer dai loro appartamenti. L’harem chiudeva i battenti». La Prima guerra mondiale era scoppiata da un anno e lui rivolse la sua voce magnetica alle folle che si erano riunite per salutarlo: 100.000 persone secondo un articolo del tempo del Corriere della Sera. Chiedeva all’Italia di entrare in guerra e portare a termine l’unificazione del Paese annettendo grandi aree dell’impero austro-ungarico. Il suo discorso interventista accese gli animi. Il 23 maggio l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. Nonostante avesse già 52 anni, il Vate ottenne di potersi arruolare come Ufficiale nei Lancieri di Novara, un reggimento che in quel periodo accoglieva i primi piloti. Ottenne il brevetto di aviatore e partecipò ad azioni dimostrative, non tutte di successo. Nel gennaio del 1916, durante un atterraggio di emergenza, sbatté violentemente la tempia contro il calcio della mitragliatrice di bordo. La ferita, non curata, gli fece perdere l’occhio destro. La convalescenza non smorzò l’entusiasmo bellico: il 9 agosto del 1918 volò su Vienna per u’azione dimostrativa, incruenta e mediaticamente molto potente. Per indurre i viennesi a insorgere gettò dal suo aereo più di 400. 000 volantini sulla città. I Futuristi applaudirono. Tre mesi dopo l’Italia firmò l’armistizio. Ma D’Annunzio preferiva il conflitto: «Sento odore di puzza di pace» scrisse. E portò avanti una sua personalissima battaglia. Nel settembre del 1919, l’Impresa: guidò un esercito di irregolari e ammutinati nella città di Fiume (ora Rijeka, in Croazia), contesa da Italia e Jugoslavia, e si costituì dittatore. Per 15 mesi regnò come Duce, finché la marina italiana non intervenne a cannonate per mettere fine all’impresa, su ordine dell’allora governo Giolitti. Si ritirò al Vittoriale e visse tra cocaina, belle donne e umore sempre più nero. Il suo pensionamento fu in gran parte finanziato dal governo fascista, che era desideroso di tenerlo alla larga. Nel 1938 D’Annunzio si oppose all’avvicinamento dell’Italia fascista al regime nazista di Adolf Hitler, che definiva «pagliaccio feroce», «ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot» o «attila imbianchino».




lunedì 10 gennaio 2022

Gabriele portò in Abruzzo le rappresentazioni delle sue opere perché la madre potesse vederle.

 Nel 1903 il poeta rappresentò Francesca da Rimini a Teramo. Donna Luisa  accolse l’invito dell’amato figlio. Grande fu la curiosità e la venerazione del pubblico e tanti fiori furono lanciati nel suo palco e donati a lei, tanto che ne rimase tanto commossa e confusa da non voler più in seguito intervenire alle rappresentazioni della Figlia di Iorio per paura di non soccombere alla sua stessa gioia.

L’anno dopo infatti, 1l 23 giugno 1904, D’Annunzio fece ritorno in Abruzzo per rivedere la madre , e con la recondita  speranza che recedesse dalla sua decisione e che si lasciasse condurre   a Chieti per la prima rappresentazione de “La figlia di Iorio”. L’opera, come testimonia anche Enrico Di Carlo nel suo libro “Gabriele D’Annunzio negli Abruzzi”, venne rappresentata al Teatro Marrucino con grandissimo successo di pubblico e di critica.

Tantissimi furono gli  grandi applausi , ma non quelli della genitrice. Il poeta ricevette anche la cittadinanza onoraria della città di Chieti. Le manifestazioni in suo  onore durarono tre giorni e  si conclusero con un memorabile banchetto che si tenne alla Pineta  di Pescara la sera del 26 giugno 1904.

A proposito di questo ritorno a casa di Gabriele D’Annunzio il prof. Garibaldo Bucco, qualche mese dopo scrisse “Io ricordo la signora Luisa nei giorni indimenticabili della festa popolare con cui gli Abruzzi allestirono la rappresentazione de “La figlia di Iorio” a Chieti, alla vigilia dell’arrivo di Gabriele a Pescara, la casa paterna era insolitamente animata: operai chiamati per restauri ed addobbi domestici carichi di canestri misteriosi  e per tutto quel giorno nessuno scorse tra le persiane socchiuse, la figura di donna Luisa.

Nella notte giunse Gabriele e quando apparve sulla soglia e corse incontro alla madre, lei facendo molta forza a se stessa, negò di baciarlo se prima non prometteva di trattenersi con lei almeno tre giorni. E il mattino seguente il poeta vedendola tra la folla dei curiosi e degli amici, che invasero le sale della casa per riverire il poeta, ognuno leggeva negli occhi animati  d’un lume giovanile , la gioia del piccolo trionfo. Ella appariva trasfigurata : era più diritta nella persona, le rughe parevano cancellate dal viso, i capelli  ancora neri pettinati con cura, la curva malinconica che sempre piegava la sua bocca, era distrutta da un sorriso continuo, come se tutti i sorrisi compressi nella sua vita dolorosa, risgorgassero ora senza più freno. La mattina dopo venerdì 24 giugno, il poeta si recò al Teatro Marrucino.  Secondo i giornali dell’epoca la cerimonia ebbe inizio con la consegna di alcuni doni all’illustre ospite tra cui la cittadinanza e un dono fattogli dagli studenti  un mirabile ritratto della madre fatto da Basilio Cascella.

A questo proposito il poeta disse: “Ma se il cuore troppo non mi tremasse davanti all’immagine di quella immacolata che ritrovo su le soglie della mia casa ad ogni mio ritorno, di quella che sembra tener viva nel cavo della mano , la più fresca vena dell’anima mia infantile  perché ogni volta io la ribeva e mi purifichi se troppo non mi tremasse il cuore , io vorrei dire ai giovani come dentro mi tocchi la divina lor gentilezza”.



Donna Luisetta De Benedictis: la madre tanto amata dal poeta Gabriele D'Annunzio

 Luisa De Benedictis, nata il 17 dicembre del 1839 a Ortona a Mare, da Filippo e Teresa Pozzi, trascorse ad Ortona la sua fanciullezza che fu purtroppo funestata da un grave lutto: le morì la madre in giovane età e questo dolore le fece conservare per tutta la vita una certa severità nel volto. Crebbe in un’atmosfera di pace e di amore educata alle virtù casalinghe  che era il miglior vanto delle fanciulle delle buone famiglie abruzzesi.

Erede di casato signorile, a soli 18 anni, il 3 maggio 1858, sposò nel 1858 Francesco Paolo Rapagnetta che, dopo esser stato adottato da Anna Lolli, sorella della madre Rita, aveva preso il cognome dal secondo, ricco marito della zia Anna, Antonio D’Annunzio. Venne ad abitare a Pescara nella casa di Corso Manthonè e acquistò ben presto le simpatie della suocera e fu amata da quanti avevano vincoli di amicizia e parentela con casa D’Annunzio poiché  era affabile con tutti. Francesco Paolo e Luisa  ebbero cinque figli: Anna, Gabriele, Elvira, Ernesta e Antonio. Madre tenerissima, vigile custode delle ragazze, alla cui educazione si dedicò col costante esempio, soleva manifestare la sua soddisfazione di madre quando nelle serate di festa, circondata dalle figlie giovinette, passeggiava per la città.

Fu confortatrice nei momenti difficili dei figli maschi. Tra questi Gabriele certamente fu il figlio che le dette maggior orgoglio, gioia e conforto di cui soffrì in modo particolare la lontananza. Vennero poi i giorni delle ristrettezze finanziarie e della tristezza, della vergogna e di fronte a questi tristi eventi lottò con animo forte.

Ma il più amaro calice le si presentò quando il fedifrago marito Francesco Paolo si trasferì nella casa di Madonna del Fuoco con un’amante a cui succedettero tante altre. Colpito da una malattia cardiaca che si manifestò in diversi episodi Francesco morì il 5 giugno 1893.

Donna Luisa Trascorse gli ultimi anni della sua esistenza, stanca e malata nella casa con Marietta Camerlengo, la sua fedele custode, rallegrata dalle nipotine Emilia e Nadina che le vivevano accanto. Ma il suo pensiero andava soprattutto al figlio lontano per questo ella leggeva ogni giorno la “Tribuna” e “ Il giornale d’Italia” ma solo con la speranza di trovarvi notizie del suo amatissimo Gabriele. Usciva raramente e solo d’estate su una vecchia carrozza che la portava fino alla riviera di Castellammare.

Ennio Flaiano così la descriveva: “Sul balcone esterno di destra, ho vista talvolta seduta, nei tardi pomeriggi, la madre del Poeta. Io ero un bambino, mia madre me la indicava. Guarda, Donna Luisa, dal volto nobile bianca e infelice per la lontananza del figlio”.

Le sue condizioni fisiche e psichiche peggiorarono nonostante l’assistenza del suo medico curante Luigi Luise e le attenzioni amorevoli della fedele Marietta. Dopo un penoso declino dovuto a un’arteriosclerosi acuita da ripetute ischemie cerebrali, si spense il 27 gennaio 1917. Il decesso fu comunicato al figlio da un messo del generale Cadorna e Gabriele, febbricitante partì immediatamente alla volta di Pescara e partecipò ai solenni funerali in divisa da capitano. La salma fu prima sepolta nel Cimitero di San Silvestro e poi nell’agosto del 1949 venne traslata nella Cattedrale di San Cetteo in un’Arca scolpita da Arrigo Minerbi.

Gabriele fu attaccatissimo alla madre verso la quale per tutta la vita ebbe una specie di culto. Meglio di qualsiasi descrizione  sono le pagine che Gabriele le dedicò. “Consolazione” nel 1891 contenuta nel Poema paradisiaco e nel 1903 “L’inno alla madre mortale” nella Laus vitae.

Gabriele fu attaccatissimo alla madre verso la quale per tutta la vita ebbe una specie di culto. Meglio di qualsiasi descrizione  sono le pagine che Gabriele le dedicò. “Consolazione” nel 1891 contenuta nel Poema paradisiaco e nel 1903 “L’inno alla madre mortale” nella Laus vitae.

La sua figura inoltre aleggia nelle pagine del Notturno e nel Libro segreto.  Ma anche dal frequentissimo carteggio  si evince  che  se Donna Luisa fu per il figlio la creatura che più colpiva la bontà del suo animo, ella fu anche la silenziosa ispiratrice della sua opera.



4 curiosità che non conosciamo su Gabriele d’Annunzio

 

1-L’espediente per incrementare le vendite

Nel suo primo componimento, Primo Vere, per incrementare le vendite si inventò un particolare espediente. Diede la notizia della sua morte a seguito di una caduta da cavallo. Solo in un secondo momento smentì la notizia. Un vero e proprio stratega!

2-Il lancio dei volantini

D’Annunzio, nonostante fu ferito gravemente all’occhio destro, nel 1918 compì uno dei suoi più iconici gesti. Lo scrittore attraversò Vienna con un aereo e lanciò più di 400.000 volantini per invitare i viennesi a placare le controversie e indurli alla resa. Il testo recitava così:

VIENNESI!

Imparate a conoscere gli italiani.
Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà.
Noi italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne.
Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico delle libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d’odio e d’illusioni.

VIENNESI!

 Voi avete fama di essere intelligenti. Ma perché vi siete messi l’uniforme prussiana? Ormai, lo vedete, tutto il mondo s’è volto contro di voi.

Volete continuare la guerra? Continuatela, è il vostro suicidio. Che sperate? La vittoria decisiva promessavi dai generali prussiani? La loro vittoria decisiva è come il pane dell’Ucraina: si muore aspettandola.

POPOLO DI VIENNA, pensa ai tuoi casi. Svegliati!

VIVA LA LIBERTÀ!

VIVA L’ITALIA!

                                                 VIVA L’INTESA!

 

3-L’invenzione delle parole

Fu anche coniatore di lemmi. Un aspetto da ricordare perchè le usiamo ancora oggi nel linguaggio comune. A lui si attribuisce l’invenzione delle parole: scudetto, tramezzino, velivolo, automobile (al femminile), Vigili del Fuoco, fusoliera e probabilmente anche il termine Milite ignoto. A lui si devono anche il nome laRinascente, il primo negozio in Italia dove si vendono abiti preconfezionati, e SAIWA l’azienda produttrice di prodotti da forno a livello industriale; D’Annunzio era un assiduo consumatore di questi biscottini e suggerì di chiamare l’azienda Società Accomandita Industria Wafer e Affini, ovvero: SAIWA.


4-D’Annunzio testimonial pubblicitario

Essendo un personaggio famoso e data la sua popolarità, fu anche tra i primi “testimonial” pubblicitari e creatore di slogan o marchi, per lo più di prodotti gastronomici,soprattutto abruzzesi. Fu scelto da aziende come l’amaretto di Saronno e l’amaro Montenegro per promuovere i loro prodotti. Addirittura, il drammaturgo creò una linea di profumi, l’Acqua Nunzia. Nel 1920 l’industriale abruzzese Luigi D’Amico fece assaggiare per primo il “suo” parozzo, dolce tradizionale della regione da lui prodotto a livello industriale, al poeta pescarese che, estasiato, scrisse un madrigale in dialetto, “La Canzone del parrozzo”, il cui testo è tuttora presente nelle confezioni in vendita del dolce. Ai primi del Novecento il poeta suggerì il nome del liquore “Aurum”, a base di brandy e infuso di arance, tipico di Pescara, al fondatore della fabbrica Amedeo Pomilio.

La sua arte fu così determinante per la cultura di massa, che influenzò usi e costumi nell’Italia, e non solo, del suo tempo: un periodo che più tardi sarebbe stato definito, appunto, dannunzianesimo.