mercoledì 30 giugno 2021

Il Piacere. Libro Primo [3]

 Così ebbe principio l’avventura di Andrea Sperelli con Donna Elena Muti.

Il giorno dopo, le sale delle vendite publiche, in via Sistina, erano piene di gente elegante, venuta per assistere all’annunziata contesa.
Pioveva forte. In quelle stanze umide e basse entrava una luce grigia; lungo le pareti erano disposti in ordine alcuni mobili di legno scolpito e alcuni grandi trittici e dittici della scuola toscana del XIV secolo; quattro arazzi fiamminghi, rappresentanti la Storia di Narcisso, pendevano fino a terra; le maioliche metaurensi occupavano due lunghi scaffali; le stoffe, per lo più ecclesiastiche, stavano o spiegate su le sedie o ammucchiate su i tavoli; i cimeli più rari, gli avorii, gli smalti, i vetri, le gemme incise, le medaglie, le monete, i libri di preghiere, i codici miniati, gli argenti lavorati erano raccolti entro un’alta vetrina, dietro il banco dei periti; un odor singolare, prodotto dall’umidità del luogo e da quelle cose antiche, empiva l’aria.
Quando Andrea Sperelli entrò, accompagnando la principessa di Ferentino, ebbe un segreto tremito. Pensò: « Sarà già venuta? » E i suoi occhi rapidamente la cercarono.
Ella era già venuta, infatti. Sedeva innanzi al banco, tra il cavaliere Dàvila e Don Filippo del Monte. Aveva posato su l’orlo del banco i guanti e il manicotto di lontra da cui usciva fuori un mazzo di violette. Teneva tra le dita un quadretto d’argento, attribuito a Caradosso Foppa; e l’osservava con molta attenzione. Gli oggetti passavano di mano in mano, lungo il banco; il perito ne faceva le lodi ad alta voce; le persone in piedi, dietro la fila delle sedie, si chinavano per guardare; quindi incominciava l’incanto. Le cifre si seguivano rapidamente. Ad ogni tratto, il perito gridava:

  • Si delibera! Si delibera!
    Qualche amatore, incitato dal grido, gittava una più alta cifra, guardando gli avversarii. Il perito gridava, con alzato il martello:
  • Uno! Due! Tre!
    E percoteva il banco. L’oggetto apparteneva all’ultimo offerente. Un mormorio si propagava intorno; poi di nuovo accendevasi la gara. Il cavaliere Dàvila, un gentiluomo napoletano che aveva le forme gigantesche e maniere quasi feminee, celebre raccoglitore e conoscitor di maioliche, dava il suo giudizio su ciascun pezzo importante. Tre, veramente, in quella vendita cardinalizia, eran le cose « superiori »: la Storia di Narcisso, la tazza di cristallo di ròcca, e un elmo d’argento cesellato da Antonio del Pollajuolo, che la Signoria di Firenze donò al conte d’Urbino nel 1472, in ricompensa de’ servigi da lui resi nel tempo della presa di Volterra.
  • Ecco la principessa – disse Don Filippo del Monte alla Muti.
    La Muti si levò per salutare l’amica.
  • Di già sul campo! – esclamò la Ferentino.
  • Di già.
  • E Francesca?
  • Non è ancor giunta.
    Quattro o cinque eleganti signori, il duca di Grimiti, Roberto Casteldieri, Ludovico Barbarisi, Giannetto Rùtolo, si appressarono. Altri sopravvenivano. Lo scroscio della pioggia copriva le parole.
    Donna Elena porse la mano allo Sperelli, francamente, come ad ognuno. Egli si sentì, da quella stretta di mano, allontanare. Elena gli parve fredda e grave. Tutti i suoi sogni s’agghiacciarono e precipitarono, in un attimo; i ricordi della sera innanzi si confusero; le speranze si estinsero. Che aveva ella? Non era più la donna medesima. Vestiva una specie di lunga tunica di lontra e portava sul capo una specie di tòcco, anche di lontra. Aveva nell’espressione del volto qualche cosa di aspro e quasi di sprezzante.
  • C’è ancóra tempo, alla tazza – ella disse alla principessa; e si rimise a sedere.
    Ogni oggetto passava per le sue mani. Un Centauro intagliato in un sardonio, opera assai fina, forse proveniente dal disperso museo di Lorenzo il Magnifico, la tentò. Ed ella prese parte alla gara. Comunicava la sua offerta al perito, a voce bassa, senza levare gli occhi su di lui. A un certo punto, i competitori si arrestarono; ella ottenne la pietra, a buon prezzo.
  • Acquisto eccellente – disse Andrea Sperelli, che stava in piedi, dietro la sedia di lei.
    Elena non poté trattenere un lieve sussulto. Prese il sardonio e lo diede a vedere, levando la mano all’altezza della spalla, senza voltarsi. Era veramente un’assai bella cosa.
  • Potrebbe essere il Centauro che Donatello copiò – soggiunse Andrea.
    E nell’animo di lui, insieme con l’ammirazione per la cosa bella, sorse l’ammirazione per il nobile gusto della dama che ora la possedeva. « Ella è dunque, in tutto, una eletta » pensò. « Quali piaceri può dare ella a un amante raffinato! » Colei s’ingrandiva, nella sua imaginazione; ma, ingrandendosi, sfuggivagli. La gran sicurezza della sera innanzi mutavasi in una specie di scoraggiamento; e i dubbii primitivi risorgevano. Egli aveva troppo sognato, nella notte, a occhi aperti, nuotando in una felicità senza fine, mentre il ricordo d’un gesto, d’un sorriso, d’un’aria della testa, d’una piega del vestito lo prendeva e l’allacciava, come una rete. Ora, tutto quel mondo imaginario crollava miseramente al contatto della realtà. Egli non aveva visto negli occhi di Elena il singolar saluto a cui aveva tanto pensato; egli non era stato distinto da lei, in mezzo agli altri, con nessun segno. « Perché? » Si sentiva umiliato. Tutta quella gente fatua, d’intorno, gli faceva ira; gli facevano ira quelle cose che attraevan l’attenzione di lei; gli faceva ira Don Filippo del Monte che di tratto in tratto chinavasi verso di lei per mormorarle forse qualche malignità. Sopravvenne l’Ateleta. La quale era, come sempre, allegra. Il suo riso, tra i signori che già l’attorniavano, fece volgere vivamente Don Filippo.
  • La Trinità è perfetta – egli disse, e si levò.
    Andrea occupò sùbito la sedia, accanto alla Muti. Come gli giunse alle nari il profumo sottile delle viole, mormorò:
  • Non sono quelle di ieri sera.
  • No – fece Elena, freddamente.
    Nella sua mobilità, ondeggiante e carezzante come l’onda, c’era sempre la minaccia del gelo inaspettato. Ella era soggetta a rigidità subitanee. Andrea tacque, non comprendendo.
  • Si delibera! Si delibera! gridava il perito.
    Le cifre salivano. La gara era ardente intorno l’elmo d’Antonio del Pollajuolo. Anche il cavalier Dàvila entrava in lizza. Pareva che a poco a poco l’aria si riscaldasse e che il desiderio di quelle cose belle e rare prendesse tutti gli spiriti. La mania si propagava, come un contagio. In quell’anno, a Roma, l’amore del bibelot e del bric-à-brac era giunto all’eccesso; tutti i saloni della nobiltà e dell’alta borghesia erano ingombri di « curiosità »; ciascuna dama tagliava i cuscini del suo divano in una pianeta o in un piviale e metteva le sue rose in un vaso di farmacia umbro o in una coppa di calcedonio. I luoghi delle vendite publiche erano un ritrovo preferito; e le vendite erano frequentissime. Nelle ore pomeridiane del tè le signore, per eleganza, giungevano dicendo: « Vengo dalla vendita del pittore Campos. Molta animazione. Magnifici i piatti arabo-ispani! Ho preso un gioiello di Maria Leczinska. Eccolo. »
  • Si delibera!
    Le cifre salivano. Intorno al banco si accalcavano gli amatori. La gente elegante si dava ai bei parlari, fra le Natività e le Annunciazioni giottesche. Le signore, fra quell’odore di muffa e di anticaglie, portavano il profumo delle loro pellicce e segnatamente quello delle violette, poiché tutti i manicotti contenevano un mazzolino secondo la moda leggiadra. Per la presenza di tante persone, un tepore dilettoso diffondevasi nell’aria, come in una umida cappella dove fossero molti fedeli. La pioggia seguitava a crosciar di fuori e la luce a diminuire. Furono accese le fiammelle del gas; e i due diversi chiarori lottavano.
  • Uno! Due! Tre!
    Il colpo di martello diede il possesso dell’elmo fiorentino a Lord Humphrey Heathfield. L’incanto ricominciò di nuovo su piccoli oggetti, che passavano lungo il banco, di mano in mano. Elena li prendeva delicatamente, li osservava e li posava quindi innanzi ad Andrea, senza dir nulla. Erano smalti, avorii, orologi del XVIII secolo, gioielli d’oreficeria milanese del tempo di Ludovico il Moro, libri di preghiere scritti a lettere d’oro su pergamena colorita d’azzurro. Tra le dita ducali quelle preziose materie parevano acquistar pregio. Le piccole mani avevano talvolta un leggero tremito al contatto delle cose più desiderabili. Andrea guardava intensamente; e nella sua imaginazione egli trasmutava in una carezza ciascun moto di quelle mani. « Ma perché Elena posava ogni oggetto sul banco, invece di porgerlo a lui? »
    Egli prevenne il gesto di Elena, tendendo la mano. E da allora in poi gli avorii, gli smalti, i gioielli passarono dalle dita dell’amata in quelle dell’amante, comunicando un indefinibile diletto. Pareva ch’entrasse in loro una particella dell’amoroso fascino di quella donna, come entra nel ferro un poco della virtù d’una calamita. Era veramente una sensazione magnetica di diletto, una di quelle sensazioni acute e profonde che si provan quasi soltanto negli inizii di un amore e che non paiono avere né una sede fisica né una sede spirituale, a simiglianza di tutte le altre, ma sì bene una sede in un elemento neutro del nostro essere, in un elemento quasi direi intermedio, di natura ignota, men semplice d’uno spirito, più sottile d’una forma, ove la passione si raccoglie come in un ricettacolo, onde la passione s’irradia come da un focolare.
    « E’ un piacere non mai provato » pensò Andrea Sperelli anche una volta.
    L’invadeva un leggero torpore e a poco a poco lo abbandonava la conscienza del luogo e del tempo.
  • Vi consiglio questo orologio – gli disse Elena, con uno sguardo di cui egli da prima non comprese la significazione.
    Era una piccola testa di morto scolpita nell’avorio con una straordinaria potenza d’imitazione anatomica. Ciascuna mascella portava una fila di diamanti, e due rubini scintillavano in fondo alle occhiaie. Su la fronte era inciso un motto: RUIT HORA; su l’occipite un altro motto: TIBI, HIPPOLYTA. Il cranio si apriva, come una scatola, sebbene la commessura fosse quasi invisibile. L’interior battito del congegno dava a quel teschietto una inesprimibile apparenza di vita. Quel gioiello mortuario, offerta d’un artefice misterioso alla sua donna, aveva dovuto segnar le ore dell’ebrezza e col suo simbolo ammonire gli spiriti amanti.
    In verità, non poteva il Piacere desiderare un più squisito e più incitante misurator del tempo. Andrea pensò: « Me lo consiglia ella per noi? » E a quel pensiero tutte le speranze rinacquero e risorsero di tra l’incertezza, confusamente. Egli si gittò nella gara, con una specie d’entusiasmo. Gli rispondevano due o tre competitori accaniti, tra cui Giannetto Rùtolo che, avendo per amante Donna Ippolita Albónico, era attratto dall’iscrizione: TIBI, HIPPOLYTA.
    Dopo poco, rimasero soli a contendere, il Rùtolo e lo Sperelli. Le cifre salivano oltre il prezzo reale dell’oggetto, mentre i periti sorridevano. A un certo punto, Giannetto Rùtolo non rispose più, vinto dalla ostinazione dell’avversario.
  • Si delibera! Si delibera!
    L’amante di Donna Ippolita, un poco pallido, gridò un’ultima cifra. Lo Sperelli aumentò. Ci fu un momento di silenzio. Il perito guardava i due competitori; quindi levò il martello, con lentezza, sempre guardando.
  • Uno! Due! Tre!
    La testa di morto rimase al conte d’Ugenta. Un mormorio si diffuse per la sala. Uno sprazzo di luce entrò per la vetrata e fece splendere i fondi aurei dei trittici, avvivò la fronte dolente d’una madonna senese e il cappellino grigio della principessa di Ferentino, coperto di scaglie d’acciaio.
  • Quando la tazza? – chiese la principessa con impazienza.
    Gli amici guardarono i cataloghi. Non c’era più speranza che la tazza del bizzarro umanista fiorentino andasse all’incanto in quel giorno. Per la molta concorrenza, la vendita procedeva lentamente. Rimaneva ancóra un lungo elenco d’oggetti minuti, come cammei, monete, medaglie. Alcuni antiquarii e il principe Stroganow si disputavano ogni pezzo. Tutti gli aspettanti ebbero una disillusione. La duchessa di Scerni si levò per andarsene.
  • Addio, Sperelli – disse. – A questa sera, forse.
  • Perché dite « forse »?
  • Mi sento tanto male.
  • Che avete mai?
    Ella, senza rispondere, si volse agli altri salutando. Ma gli altri seguivano il suo esempio; escivano insieme. I giovini signori motteggiavano intorno il mancato spettacolo. La marchesa d’Ateleta rideva, ma la Ferentino pareva di pessimo umore. I servi che aspettavano nel corridoio, facevano avanzar le carrozze, come alla porta d’un teatro o d’una sala di concerti.
  • Non vieni dalla Miano? – domandò l’Ateleta ad Elena.
  • No; torno a casa.
    Ella aspettò, su l’orlo del marciapiede, che il suo coupé s’avanzasse. La pioggia si disperdeva; tra larghe nuvole bianche scorgevasi qualche intervallo d’azzurro; una zona di raggi faceva luccicare il lastrico. E la signora, investita da quel chiaror tra biondo e roseo, nel mantello magnifico che scendeva con poche pieghe diritte e quasi simmetriche, era bellissima. Il sogno medesimo della sera innanzi sorse nello spirito d’Andrea, quando egli intravide l’interno del coupé tappezzato di raso come un boudoir, dove luccicavano il cilindro d’argento pieno d’acqua calda destinato a tenere tiepidi i piccoli piedi ducali. « Essere là, con lei, in quella intimità così raccolta, in quel tepore fatto dal suo alito, nel profumo delle violette appassite, intravedendo appena da’ cristalli appannati le vie coperte di fango, le case grige, la gente oscura! »
    Ma ella inchinò lievemente il capo allo sportello, senza sorridere; e la carrozza partì, verso il palazzo Barberini, lasciandogli nell’anima una vaga tristezza, uno scoramento indefinito. – Ella aveva detto « forse ». Poteva dunque non venire al palazzo Farnese. E allora?
    Questo dubbio l’affliggeva. Il pensiero di non rivederla gli era insopportabile: tutte le ore passate lontano da lei già gli pesavano. Egli chiedeva a sé stesso: « L’amo io dunque già tanto? » Il suo spirito pareva chiuso in un cerchio, entro cui turbinavano confusamente tutti i fantasmi delle sensazioni avute nella presenza di quella donna. D’un tratto, emergevano dalla sua memoria, con una singolare esattezza, una frase di lei, una intonazione di voce, un’attitudine, un movimento degli occhi, la forma d’un divano sul quale ella sedeva, il Finale della Sonata del Beethoven, una nota di Mary Dyce, la figura del servo che stava allo sportello, una qualunque particolarità, un qualunque frammento, ed oscuravano con la vivezza della loro imagine le cose della esistenza in corso, si sovrapponevano alle cose presenti. Egli le parlava, mentalmente; le diceva, mentalmente, tutto quello che poi le avrebbe detto in realtà, ne’ futuri colloqui. Prevedeva le scene, i casi, le vicende, tutto lo svolgimento dell’amore, secondo le suggestioni del suo desiderio. – In che modo si sarebbe ella data a lui, la prima volta?
    Mentre saliva le scale del palazzo Zuccari, per rientrare nel suo appartamento, gli balenava questo pensiero. – Ella, certo, sarebbe venuta là. La via Sistina, la via Gregoriana, la piazza della Trinità de’ Monti, specialmente in certe ore, erano quasi deserte. La casa non era abitata che da stranieri. Ella avrebbe dunque potuto avventurarsi senza timori. Ma come attirarla? – La sua impazienza era tanta ch’egli avrebbe voluto poter dire: « Verrà domani! »
    « Ella è libera » pensò. « Non la tiene la vigilanza d’un marito. Nessuno può chiederle conto delle assenze anche lunghe, anche insolite. Ella è padrona d’ogni suo atto, sempre. » Gli si presentarono allo spirito, subitamente, interi giorni e intere notti di voluttà, Si guardò intorno, nella stanza calda, profonda, segreta; e quel lusso intenso e raffinato, tutto fatto di arte, gli piacque, per lei. Quell’aria aspettava il suo respiro; quei tappeti chiedevano d’essere premuti dal suo piede; quei cuscini volevano l’impronta del suo corpo.
    « Ella amerà la mia casa » pensò. « Amerà le cose ch’io amo. » Il pensiero gli dava una indicibile dolcezza; e gli pareva che già un’anima nuova, consapevole della imminente gioia, palpitasse sotto gli alti soffitti.
    Chiese il tè al servo; e s’adagiò d’innanzi al caminetto, per meglio godere le finzioni della sua speranza. Trasse dall’astuccio il piccolo teschio gemmato e si mise ad esaminarlo attentamente. Al chiaror del fuoco l’esile dentatura adamantina brillava su l’avorio giallastro e i due rubini illuminavano l’ombra delle occhiaie. Sotto il cranio polito risonava il battito incessante del tempo. – RUIT HORA. – Quale artefice mai poteva avere avuta per una sua Ippolita quella superba e libera fantasia di morte, nel secolo in cui i maestri smaltisti ornavan di teneri idillii pastorali gli orioletti destinati a segnar pe’ cicisbei l’ora de’ ritrovi ne’ parchi del Watteau? La scoltura rivelava una mano dotta, vigorosa, padrona d’uno stile proprio: era in tutto degna d’un quattrocentista penetrante come il Verrocchio.
    « Vi consiglio questo orologio. » Andrea sorrideva un poco, ricordando le parole di Elena pronunziate in un modo così strano, dopo un così freddo silenzio. – Senza dubbio, dicendomi quella frase, ella pensava all’amore: ella pensava ai prossimi convegni d’amore, senza dubbio. Ma perché poi, di nuovo, era diventata impenetrabile? Perché non s’era curata più di lui? Che aveva ella? – Andrea si smarrì nell’indagine. Però l’aria calda, la mollezza della poltrona, la luce discreta, le variazioni del fuoco, l’aroma del tè, tutte quelle sensazioni grate ricondussero il suo spirito agli errori dilettosi. Egli andava errando senza mèta, come in un fantastico labirinto. In lui il pensiero assumeva talvolta la virtù dell’oppio: poteva inebriarlo.
  • Mi permetto di ricordare al signor conte che per le sette è atteso in casa Doria – disse a voce bassa il servo, che aveva anche l’ufficio di rammentatore. – Tutto è preparato.
    Egli andò a vestirsi, nella camera ottagonale ch’era, in verità, il più elegante e comodo spogliatoio desiderabile per un giovine signore moderno. Vestendosi, aveva una infinità di minute cure della sua persona. Sopra un gran sarcofago romano, trasformato con molto gusto in una tavola per abbigliamento, erano disposti in ordine i fazzoletti di batista, i guanti da ballo, i portafogli, gli astucci delle sigarette, le fiale delle essenze, e cinque o sei gardenie fresche in piccoli vasi di porcellana azzurra. Egli scelse un fazzoletto con le cifre bianche e ci versò due o tre gocce di pao rosa; non prese alcuna gardenia perché l’avrebbe trovata alla mensa di casa Doria; empì di sigarette russe un astuccio d’oro martellato, sottilissimo, ornato d’uno zaffiro su la sporgenza della molla, un po’ curvo per aderire alla coscia nella tasca de’ calzoni. Quindi uscì.
    In casa Doria, tra un discorso e l’altro, la duchessa Angelieri, a proposito del recente parto della Miano, disse:
  • Pare che Laura Miano e la Muti sieno in rotta.
  • Forse per Giorgio? – chiese un’altra dama, ridendo.
  • Si dice. E’ una storia incominciata a Lucerna, quest’estate…
  • Ma Laura non era a Lucerna.
  • Appunto. C’era suo marito…
  • Credo che sia una malignità; null’altro – interruppe la contessa fiorentina, Donna Bianca Dolcebuono. – Giorgio è ora a Parigi.
    Andrea aveva udito, sebbene al suo lato destro la loquace contessa Starnina l’occupasse di continuo. Le parole della Dolcebuono non bastavano a lenirgli la puntura acutissima. Egli avrebbe voluto, almeno, sapere fino in fondo. Ma l’Angelieri rinunziava a seguitare; e altre conversazioni si mescolavano fra i trionfi delle magne rose di Villa Pamphily.
    « Chi era questo Giorgio? Forse l’ultimo amante di Elena? Ella aveva passata una parte dell’estate a Lucerna. Ella veniva di Parigi. Ella, nell’uscire dalla vendita, erasi rifiutata di andare in casa Miano. » Nell’animo di Andrea le apparenze erano contro di lei tutte. Un desiderio atroce l’invase, di rivederla, di parlarle. L’invito al palazzo Farnese era per le dieci; alle dieci e mezzo egli si trovava già là, aspettando.
    Aspettò molto. Le sale si empivano rapidamente; le danze incominciavano: nella galleria d’Annibale Caracci le semiddie quiriti lottavan di formosità con le Ariadne, con le Galatee, con le Aurore, con le Diane degli affreschi; le coppie turbinando esalavano profumi: le mani inguantate delle dame premevano la spalla dei cavalieri; le teste ingemmate si curvavano o si ergevano; certe bocche semiaperte brillavano come la porpora; certe spalle nude luccicavano sparse d’un velo d’umidore; certi seni parevano irrompere dal busto, sotto la veemenza dell’ansia.
  • Non ballate, Sperelli? – chiese Gabriella Barbarisi, una fanciulla bruna come l’oliva speciosa, mentre passava a braccio d’un danzatore, agitando con la mano il ventaglio e col sorriso un neo ch’ella aveva in una fossetta presso la bocca.
  • Sì, più tardi – rispose Andrea. – Più tardi.
    Incurante delle presentazioni e dei saluti, egli sentiva crescere il suo tormento nell’attesa inutile; e girava di sala in sala alla ventura. Il « forse » gli faceva temere ch’Elena non venisse. – E s’ella proprio non veniva? Quando l’avrebbe egli riveduta? – Passò Donna Bianca Dolcebuono; e, senza sapere perché, egli le si mise al fianco dicendole molte frasi cortesi, provando quasi un poco di sollievo in compagnia di lei. Avrebbe voluto parlarle di Elena, interrogarla, rassicurarsi. L’orchestra diè principio a una Mazurka assai molle; e la contessa fiorentina col suo cavaliere entrò nella danza.
    Allora Andrea si volse a un gruppo di giovini signori, che stava presso una porta. Eravi Ludovico Barbarisi, eravi il duca di Beffi, con Filippo del Gallo, con Gino Bommìnaco. Guardavano le coppie girare e malignavano un po’ grossolanamente. Il Barberisi raccontava d’aver vedute le rotondità del petto alla contessa Lùcoli, ballando il Walzer. Il Bommìnaco domandò:
  • Ma come?
  • Provaci. Basta chinare gli occhi nel corsage. Ti assicuro che vale la pena…
  • Avete badato alle ascelle di Madame Chrysoloras? Guardate!
    Il duca di Beffi mostrava una danzatrice che aveva in su la fronte bianca come il marmo di Luni un’accensione di chiome rosse, a similitudine d’una sacerdotessa d’Alma Tadema. Il suo busto era congiunto agli omeri da un semplice nastro, e si scorgevano sotto le ascelle due ciuffi rossastri troppo abondanti.
    Il Bommìnaco si mise a ragionare dell’odor singolare che hanno le donne rosse.
  • Tu lo conosci bene, quell’odore – disse con malizia il Barbarisi.
  • Perché?
  • La Micigliano…
    Il giovine si compiacque manifestamente di sentir nominare una delle sue amanti. Non protestò, ma rise; poi volgendosi allo Sperelli:
  • Che hai stasera? Ti cercava tua cugina, un momento fa. Ora balla con mio fratello. Eccola.
  • Guarda! – esclamò Filippo del Gallo. – E’ tornata l’Albónico. Balla con Giannetto.
  • E’ tornata anche la Muti, da una settimana – fece Ludovico. – Che bella creatura!
  • E’ qui?
  • Non l’ho veduta ancóra.
    Andrea ebbe al cuore un sussulto, temendo che da qualcuna di quelle bocche fosse per uscire una malignità anche contro di lei. Ma il passaggio della principessa Issé, a braccio del ministro di Danimarca, divagò gli amici. Egli nondimeno sentivasi spingere da una temeraria curiosità a riallacciare il discorso sul nome dell’amata, per sapere, per iscoprire; ma non osò. La Mazurka finiva; il gruppo disperdevasi. « Ella non viene! Ella non viene! » L’inquietudine interiore gli cresceva così fieramente che egli pensò d’abbandonare le sale, poiché il contatto di quella folla eragli insoffribile.
    Volgendosi, vide apparire su l’ingresso della galleria la duchessa di Scerni a braccio dell’ambasciatore di Francia. In un attimo, egli incontrò lo sguardo di lei; e gli occhi d’ambedue in quell’attimo, parvero mescolarsi, penetrarsi, beversi. Ambedue sentirono che l’uno cercava l’altra e l’altra l’uno; ambedue sentirono, ad un punto, scendere su l’anima un silenzio, in mezzo a quel rumore, e quasi direi aprirsi un abisso in cui tutto il mondo circostante scomparve sotto la forza d’un pensiero unico.
    Ella s’avanzava nell’istoriata galleria del Caracci, dov’era minore la calca, portando un lungo strascico di broccato bianco che la seguiva come un’onda grave sul pavimento. Così bianca e semplice, nel passare volgeva il capo ai molti saluti, mostrando un’aria di stanchezza, sorridendo con un piccolo sforzo visibile che le increspava gli angoli della bocca, mentre gli occhi sembravan più larghi sotto la fronte esangue. Non la fronte sola ma tutte le linee del volto assumevano dall’estremo pallore una tenuità quasi direi psichica. Ella non era più né la donna seduta alla mensa degli Ateleta, né quella al banco delle vendite, né quella diritta un’istante sul marciapiede della via Sistina. La sua bellezza aveva ora un’espressione di sovrana idealità, che meglio splendeva in mezzo alle altre dame accese in volto dalla danza, eccitate, troppo mobili, un po’ convulse. Alcuni uomini, guardandola, rimanevan pensosi. Ella metteva anche negli animi più ottusi o fatui un turbamento, una inquietudine, un’aspirazione indefinibile. Chi aveva il cuor libero imaginava con un fremito profondo l’amore di lei; chi aveva un’amante provava un oscuro rammarico sognando un’ebrezza sconosciuta, nel cuore non pago; chi recava entro di sé la piaga d’una gelosia o d’un inganno aperta da un’altra donna, sentiva ben che avrebbe potuto guarire.
    Ella s’avanzava così, tra gli omaggi, avvolta dallo sguardo degli uomini. All’estremità della galleria, si unì ad un gruppo di dame che parlavano vivamente agitando i ventagli, sotto la pittura di Perseo e di Fineo impietrato. Eranvi la Ferentino, la Massa d’Albe, la marchesa Daddi-Tosinghi, la Dolcebuono.
  • Perché così tardi? – le chiese quest’ultima.
  • Ho esitato molto, prima di venire, perché non mi sento bene.
  • Infatti, sei pallida.
  • Credo che riavrò le nevralgie alla faccia, come l’anno scorso.
  • Non sia mai!
  • Guarda, Elena, Madame de la Boissière – disse Giovanella Daddi, con quella sua strana voce rauca. – Non sembra un cammello vestito da cardinale, con un parrucchino giallo?
  • Madamoiselle Vanloo stasera perde la testa per tuo cugino – disse la Massa d’Albe alla principessa, vedendo passare Sofia Vanloo a braccio di Ludovico Barbarisi. – L’ho sentita dianzi che supplicava, dopo un giro di Polka accanto a me: « Ludovic, ne faites plus ça en dansant; je frissonne toute… »
    Le dame si misero a ridere in coro, tra l’agitazion de’ ventagli. Giungevano dalle sale contigue le prime note d’un Walzer ungherese. I cavalieri si presentarono. Andrea poté finalmente offrire il braccio a Elena e trarla seco.
  • Aspettandovi, ho creduto di morire! Se voi non foste venuta, Elena, io vi avrei cercata ovunque. Quando vi ho vista entrare, ho trattenuto a stento un grido. Questa è la seconda sera ch’io vi vedo, ma mi par già di amarvi non so da che tempo. Il pensiero di voi, unico, incessante, è ora la vita della mia vita…
    Egli proferiva le parole d’amore sommessamente, senza guardarla, tenendo gli occhi fissi d’innanzi a sé; ed ella le ascoltava nella stessa attitudine, impassibile in vista, quasi marmorea. Nella galleria rimanevano poche persone. Lungo le pareti, tra i busti dei Cesari, i cristalli opachi de’ lumi, in forma di gigli, versavano un chiarore eguale, non troppo forte. La profusione delle piante verdi e fiorite dava imagine di una serra suntuosa. Le onde della musica si propagavano nell’aria calda, sotto le volte concave e sonore, passando su tutta quella mitologia come un vento su un giardino opulento.
  • Mi amerete voi? – chiese il giovine. – Ditemi che mi amerete!
    Ella rispose, con lentezza:
  • Son venuta qui per voi soltanto.
  • Ditemi che mi amerete! – ripeté il giovine, sentendo tutto il sangue delle sue vene affluire al cuore come un torrente di gioia.
    Ella rispose:
  • Forse.
    E lo guardò con lo sguardo medesimo che la sera innanzi era a lui parso una divina promessa, con quell’indefinibile sguardo che quasi dava alla carne la sensazione del tócco amoroso d’una mano. Poi ambedue tacquero; ed ascoltarono l’avviluppante musica della danza, che a tratti a tratti facevasi piana come un sussurro o levavasi come un turbine improvviso.
  • Volete che balliamo? – domandò Andrea, che dentro tremava al pensiero di tenerla fra le braccia.
    Ella esitò un poco. Quindi rispose:
  • No; non voglio.
    Vedendo entrare nella galleria la duchessa di Bugnara, sua zia materna, e la principessa Alberoni con l’ambasciatrice di Francia, soggiunse:
  • Ora, siate prudente; lasciatemi.
    Ella gli tese la mano inguantata; e andò incontro alle tre dame, sola, con un passo ritmico e leggero. Dava una sovrana grazia alla sua persona e al suo passo il lungo strascico bianco, poiché l’ampiezza e la pesantezza del broccato contrastavano con l’esilità della cintura. Andrea, seguendola con gli occhi, ripeteva mentalmente la frase di lei: « Son venuta per voi soltanto. » – Ella era pur così bella, per lui, per lui solo! – Subitamente, dal fondo del cuore gli si levò un resto dell’amarezza che vi avevano messa le parole dell’Angelieri. L’orchestra lanciavasi con impeto in una ripresa. Ed egli non dimenticò mai né quelle note, né lo splendor della stoffa trascinata, né una minima piega, né una minima ombra, né alcuna particolarità di quel momento supremo.

Il Piacere. Libro Primo [2]

 Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte.

A questa classe, ch’io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto splendore nell’amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. L’urbanità, l’atticismo, l’amore delle delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie. Un Alessandro Sperelli, nel 1466, portò a Federico d’Aragona, figliuolo di Ferdinando re di Napoli e fratello d’Alfonso duca di Calabria, il codice in foglio contenente alcune poesie « men rozze » de’ vecchi scrittori toscani, che Lorenzo de’ Medici aveva promesso in Pisa nel ’65; e quello stesso Alessandro scrisse per la morte della divina Simonetta, in coro con i dotti del suo tempo, una elegìa latina, malinconica ed abbandonata a imitazion di Tibullo. Un altro Sperelli, Stefano, nel secolo medesimo, fu in Fiandra, in mezzo alla vita pomposa, alla preziosa eleganza, all’inaudito fasto borgognone; ed ivi rimase alla corte di Carlo il Temerario, imparentandosi con una famiglia fiamminga. Un figliuol suo, Giusto, praticò la pittura sotto gli insegnamenti di Giovanni Gossaert; e insieme col maestro venne in Italia, al seguito di Filippo di Borgogna ambasciator dell’imperator Massimiliano presso il papa Giulio II, nel 1508. Dimorò a Firenze, dove il principal ramo della sua stirpe continuava a fiorire; ed ebbe a secondo maestro Piero di Cosimo, quel giocondo e facile pittore, forte ed armonioso colorista, che risuscitava liberamente col suo pennello le favole pagane. Questo Giusto fu non volgare artista; ma consumò tutto il suo vigore in vani sforzi per conciliare la primitiva educazione gotica con il recente spirito del Rinascimento. Verso la seconda metà del secolo XVII la casata degli Sperelli si trasportò a Napoli. Ivi nel 1679 un Bartolomeo Sperelli pubblicò un trattato astrologico De Nativitatibus; nel 1720 un Giovanni Sperelli diede al teatro un’opera buffa intitolata La Faustina e poi una tragedia lirica intitolata Progne; nel 1756 un Carlo Sperelli stampò un libro di versi amatorii in cui molte classiche lascivie erano rimate con l’eleganza oraziana allora di moda. Miglior poeta fu Luigi, ed uomo di squisita galanteria, alla corte del re lazzarone e della regina Carolina. Verseggiò con un certo malinconico e gentile epicureismo, assai nitidamente; ed amò da fino amatore, ed ebbe avventure in copia, talune celebri, come quella con la marchesa di Bugnano che per gelosia s’avvelenò, e come quella con la contessa di Chesterfield che morta etica egli pianse in canzoni, odi, sonetti ed elegìe soavissime sebbene un poco frondose.
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intelettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a vent’anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l’Europa.
L’educazione d’Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un’altra forza, della forza morale che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: « Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui. »
Anche, il padre ammoniva: « Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: – Habere, non haberi. »
Anche, diceva: « Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni. »
Ma queste massime volontarie, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.
Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma. « Il sofisma » diceva quell’incauto educatore « è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofismi fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso. »
Un tal seme trovò nell’ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch’egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio.
Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d’una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de’ suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d’Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d’Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda « Che vorreste voi essere? » egli aveva scritto « Principe romano ».
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il suo home nel palazzo Zuccari alla Trinità de’ Monti, su quel dilettoso tepidario cattolico dove l’ombra dell’obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d’invincibile tristezza. Era una estate di San Martino, una primavera de’ morti, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d’oro come una città dell’Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne’ mari australi.
Quel languore dell’aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere la loro realità e divenire immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione infinita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità, di nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla mutazione del clima, delle abitudini, degli usi. L’anima converte in fenomeni psichici le impressioni dell’organismo mal definite, a quella guisa che il sogno trasforma secondo la sua natura gli incidenti del sonno.
Certo egli ora entrava in un novello stadio. – Avrebbe alfin trovato la donna e l’opera capaci d’impadronirsi del suo cuore e di divenire il suo scopo? – Non aveva dentro di sé la sicurezza della forza né il presentimento della gloria o della felicità. Tutto penetrato e imbevuto di arte, non aveva ancóra prodotto nessuna opera notevole. Avido d’amore e di piacere, non aveva ancóra interamente amato né aveva ancor mai goduto ingenuamente. Torturato da un Ideale, non ne portava ancóra ben distinta in cima de’ pensieri l’imagine. Aborrendo dal dolore per natura e per educazione, era vulnerabile in ogni parte, accessibile al dolore in ogni parte.
Nel tumulto delle inclinazioni contraddittorie egli aveva smarrito ogni volontà ed ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio; così che si poteva dire che la sua vita fosse una continua lotta di forze contrarie chiusa ne’ limiti d’un certo equilibrio. Gli uomini d’intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezion della Bellezza è, dirò così, l’asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano.
Fluttuava ancóra su quella tristezza il ricordo di Costantia Landbrooke, vagamente, come un profumo svanito. L’amore di Conny era stato un assai fino amore; ed ella era una molto piacevole donna. Pareva una creatura di Thomas Lawrence; aveva in sé tutte le minute grazie feminine che son care a quel pittore dei falpalà, dei merletti, dei velluti, degli occhi luccicanti, delle bocche semiaperte; era una seconda incarnazione della piccola contessa di Shaftesbury. Vivace, loquace, mobilissima, prodiga di diminutivi infantili e di risa scampanellanti, facile alle tenerezze improvvise, alle malinconie subitanee, alle rapide ire, ella portava nell’amore molto movimento, molta varietà, molti capricci. La sua qualità più amabile era la freschezza, una freschezza tenace, continua, di tutte le ore. Quando si svegliava, dopo una notte di piacere, ella era tutta fragrante e monda come se uscisse allora dal bagno. La figura di lei, infatti, tornava nella memoria di Andrea specialmente con un’attitudine; con i capelli in parte sciolti sul collo e raccolti in parte al sommo del capo da un pettine fatto di greche d’oro; con l’iride degli occhi natante nel bianco, come una viola pallida nel latte; con la bocca aperta, rorida, tutta illuminata da’ denti ridenti nel sangue roseo delle gengive; all’ombra delle cortine che diffondevano sul letto un albore tra glauco ed argenteo, simile alla luce d’un antro marittimo.
Ma il cinguettio melodioso di Conny Landbrooke era passato su l’animo di Andrea come una di quelle musiche leggere che lascian per qualche tempo nella mente un ritornello. Più d’una volta ella gli aveva detto, in qualche sua malinconia vespertina, con gli occhi velati di lacrime: « I know you love me not… » Egli, infatti, non l’amava, non n’era pago. Il suo ideale muliebre era men nordico. Idealmente, egli si sentiva attratto da una di quelle cortigiane del secolo XVI che sembrano portar sul volto non so qual velo magico, non so qual transparente maschera incantata, direi quasi un oscuro fascino notturno, il divino orrore della Notte.
Incontrando la duchessa di Scerni, Donna Elena Muti, egli pensò: « Ecco la mia donna. » Tutto il suo essere ebbe una sollevazione di gioia, nel presentimento del possesso.
Fu il primo incontro in casa della marchesa d’Ateleta. Questa cugina d’Andrea nel palazzo Roccagiovine aveva saloni molto frequentati. Ella attraeva specialmente per la sua arguta giocondità, per la libertà de’ suoi motti, per il suo infaticabile sorriso. I lineamenti gai del volto rammentavano certi profili feminini ne’ disegni del Moreau giovine, nelle vignette del Gravelot. Ne’ modi, ne’ gusti, nelle fogge del vestire ella aveva qualche cosa di pompadouresco, non senza una lieve affettazione, poiché era legata da una singolar somiglianza alla favorita di Luigi XV.
Il mercoledì d’ogni settimana Andrea Sperelli aveva un posto alla mensa della marchesa. Un martedì a sera, in un palco del Teatro Valle, la marchesa gli aveva detto, ridendo:

  • Bada di non mancare, Andrea, domani. Abbiamo tra gli invitati una persona interessante, anzi fatale. Premunisciti però contro la malia… Tu sei in un momento di debolezza.
    Egli le aveva risposto, ridendo:
  • Verrò inerme, se non ti dispiace, cugina; anzi in abito di vittima. E’ un abito di richiamo, che porto da molte sere; inutilmente, ahimè!
  • Il sacrificio è prossimo, cugino mio.
  • La vittima è pronta.
    La sera seguente, egli venne al palazzo Roccagiovine alcuni minuti prima dell’ora consueta, avendo una mirabile gardenia all’occhiello e una inquietudine vaga in fondo all’anima. Il suo coupé si fermò innanzi alla porta, perché l’androne era già occupato da un’altra carrozza. Le livree, i cavalli, tutta la cerimonia che accompagnava la discesa della signora, avevano l’impronta della grande casata. Il conte intravide una figura alta e svelta, un’acconciatura tempestata di diamanti, un piccolo piede che si posò sul gradino. Poi, come anch’egli saliva la scala, vide la dama alle spalle.
    Ella saliva d’innanzi a lui, lentamente, mollemente, con una specie di misura. Il mantello foderato d’una pelliccia nivea come la piuma de’ cigni, non più retto dal fermaglio, le si abbandonava intorno al busto lasciando scoperte le spalle. Le spalle emergevano pallide come l’avorio polito, divise da un solco morbido, con le scapule che nel perdersi dentro i merletti del busto avevano non so qual curva fuggevole, quale dolce declinazione di ali; e su dalle spalle svolgevasi agile e tondo il collo; e dalla nuca i capelli, come ravvolti in una spira, piegavano al sommo della testa e vi formavano un nodo, sotto il morso delle forcine gemmate.
    Quell’armoniosa ascensione della dama sconosciuta dava agli occhi d’Andrea un diletto così vivo ch’egli si fermò un istante, sul primo pianerottolo, ad ammirare. Lo strascico faceva su i gradini un fruscìo forte. Il servo caminava indietro, non su i passi della sua signora lungo la guida di tappeto rosso, ma da un lato, lungo la parete, con una irreprensibile compostezza. Il contrasto tra quella magnifica creatura e quel rigido automa era assai bizzarro. Andrea sorrise.
    Nell’anticamera, mentre il servo prendeva il mantello, la dama gittò uno sguardo rapidissimo al giovine ch’entrava. Questi udì annunziare:
  • Sua Eccellenza la duchessa di Scerni!
    Sùbito dopo:
  • Il signor conte Sperelli-Fieschi d’Ugenta!
    E gli piacque che il suo nome fosse pronunziato accanto al nome di quella donna.
    Nel salone erano già il marchese e la marchesa d’Ateleta, il barone e la baronessa d’Isola, Don Filippo del Monte. Il fuoco ardeva nel caminetto; alcuni divani erano disposti nel raggio del calore; quattro musae dalle larghe foglie venate di sanguigno si protendevano su le spalliere basse.
    La marchesa, facendosi incontro ai due sopraggiunti, disse con quel suo bel riso inestinguibile:
  • Per l’amabilità del caso, non c’è più bisogno di presentazione tra voi due. Cugino Sperelli, inchinatevi alla divina Elena.
    Andrea s’inchinò profondamente. La duchessa gli offrì la mano, con un gesto di grazia, guardandolo negli occhi.
  • Son molto lieta di vedervi, conte. Mi parlò tanto di voi, a Lucerna, l’estate scorsa, un vostro amico: Giulio Musèllaro. Ero, confesso, un po’ curiosa… Musèllaro anche mi diede a leggere la rarissima vostra Favola d’Ermafrodito e mi regalò la vostra acquaforte del Sonno, una prova avanti lettera, un tesoro. Voi avete in me un’ammiratrice cordiale. Ricordatevi.
    Ella parlava con qualche pausa. Aveva la voce così insinuante che quasi dava la sensazione d’una carezza carnale; e aveva quello sguardo involontariamente amoroso e voluttuoso che turba tutti gli uomini e ne accende d’improvviso la brama.
    Un servo annunziò:
  • Il cavalier Sakumi!
    Ed apparve l’ottavo ed ultimo commensale.
    Era il segretario della Legazione giapponese, piccolo di statura, giallognolo, con i pomelli sporgenti, con gli occhi lunghi ed obliqui, venati di sangue, su cui le palpebre battevano di continuo. Aveva il corpo troppo grosso in paragon delle gambe troppo sottili; e camminava con le punte de’ piedi in dentro, come se una cintura gli stringesse forte le anche. Le falde della sua giubba erano troppo abondanti; i calzoni facevano una quantità di pieghe; la cravatta portava assai visibili i segni della mano inesperta. Egli pareva un daimio cavato fuori da una di quelle armature di ferro e di lacca che somiglian gusci di crostacei mostruosi e poi ficcato ne’ panni d’un tavoleggiante occidentale. Ma, pur nella sua goffagine, aveva un’espressione arguta, una specie di finezza ironica agli angoli della bocca.
    A mezzo del salone, s’inchinò. Il gibus gli cadde di mano.
    La baronessa d’Isola, una bionda piccoletta, dalla fronte tutta coperta di riccioli, graziosa e smorfiosa come una giovine bertuccia, disse con la sua voce acuta:
  • Venite qua, Sakumi, qua, accanto a me!
    Il cavaliere giapponese s’inoltrava reiterando i sorrisi e gli inchini.
  • Vedremo stasera la principessa Issé? – gli domandò Donna Francesca d’Ateleta, che piacevasi di raccogliere ne’ suoi saloni i più bizzarri esemplari delle colonie esotiche in Roma per amor della varietà pittoresca.
    L’Asiatico parlava una lingua barbarica, appena intelligibile, mista d’inglese, di francese e d’italiano.
    Tutti, a un punto, parlavano. Era quasi un coro, di mezzo a cui si levavano di tratto in tratto, come zampilli d’argento, le fresche risa della marchesa.
  • Io vi ho certo veduta un’altra volta; non so più dove, non so più quando, ma vi ho certo veduta – diceva Andrea Sperelli alla duchessa, ritto in piedi d’innanzi a lei. – Su per le scale, mentre vi guardavo salire, nel fondo della mia memoria si risvegliava un ricordo indistinto, qualche cosa che prendeva forma seguendo il ritmo di quel vostro salire, come un’imagine nascente da un’aria di musica… Non son giunto ad aver limpido il ricordo; ma, quando vi siete voltata, ho sentito che il vostro profilo aveva una non dubbia rispondenza con quella imagine. Non poteva essere una divinazione; era dunque un oscuro fenomeno della memoria. Io vi ho certo veduta, un’altra volta. Chi sa! Forse in un sogno, forse in una creazione d’arte, forse anche in un diverso mondo, in una esistenza anteriore…
    Pronunziando queste ultime frasi troppo sentimentali e chimeriche, egli rise apertamente come per prevenire un sorriso o incredulo o ironico della dama. Elena invece rimase grave.
    « Ascoltava ella o pensava ad altro? Accettava ella quella specie di discorsi o voleva con quella serietà prendersi gioco di lui? Intendeva ella di secondare l’opera di seduzione iniziata da lui così sollecitamente o si chiudeva nell’indifferenza e nel silenzio incurante? Era ella, insomma, una donna per lui espugnabile o no? » Andrea, perplesso, interrogava il mistero. A quanti hanno l’abitudine della seduzione, specialmente ai temerarii, è nota questa perplessità che certe donne sollevano tacendo.
    Un servo aprì la grande porta che dava nella sala da pranzo.
    La marchesa mise il suo braccio sotto quello di Don Filippo del Monte e diede l’esempio. Gli altri seguirono.
  • Andiamo – disse Elena.
    Parve ad Andrea che ella gli si appoggiasse con un po’ di abbandono. « Non era un’illusione del suo desiderio? Forse. » Egli pendeva nel dubbio; ma, ad ogni attimo che passava, si sentiva più a dentro conquistare dalla malia dolcissima; ad ogni attimo gli cresceva l’ansietà di penetrare l’animo della donna.
  • Cugino, qui – disse Donna Francesca assegnandogli il posto.
    Nella tavola ovale, egli stava tra il barone d’Isola e la duchessa di Scerni, avendo di fronte il cavaliere Sakumi. Il quale stava tra la baronessa d’Isola e Don Filippo del Monte. Il marchese e la marchesa occupavano i capi. Su la mensa le porcellane, le argenterie, i cristalli, i fiori scintillavano.
    Assai poche dame potevan gareggiare con la marchesa d’Ateleta nell’arte di dar pranzi. Ella metteva più cura nella preparazione di una mensa che in un abbigliamento. La squisitezza del suo gusto appariva in ogni cosa; ed ella era, in verità, l’arbitra delle eleganze conviviali. Le sue fantasie e le sue raffinatezze si propagavano per tutte le tavole della nobiltà quirite. Ella, appunto, in quell’inverno aveva introdotta la moda delle catene di fiori sospese dall’un capo all’altro, fra i grandi candelabri; ed anche la moda dell’esilissimo vaso di Murano, latteo e cangiante come l’opale, con entro una sola orchidea, messo tra i varii bicchieri innanzi a ciascun convitato.
  • Fior diabolico – disse Donna Elena Muti, prendendo il vaso di vetro e osservando da vicino l’orchidea sanguigna e difforme.
    Ella aveva la voce così ricca di suono che anche le parole più volgari e le frasi più comuni parevano prendere su la sua bocca non so qual significato occulto, non so qual misterioso accento e qual grazia nuova. Alla guisa medesima il re frigio faceva d’oro quantunque cose ei toccasse con la mano.
  • Fiore simbolico, tra le vostre dita – mormorò Andrea, guardando la dama che in quell’attitudine era sovrammirabile.
    La dama vestiva un tessuto d’un color ceruleo assai pallido, sparso di punti d’argento, che brillava di sotto ai merletti antichi di Burano bianchi d’un bianco indefinibile, pendente un poco nel fulvo ma tanto poco che appena pareva. Il fiore, quasi innaturale, come generato da un malefizio, ondeggiava in sul gambo, fuor di quel fragile tubo che certo l’artefice avea foggiato con un soffio in una gemma liquefatta.
  • Ma io preferisco le rose – disse Elena, posando l’orchidea, con un atto di repulsione che faceva contrasto al suo precedente moto di curiosità.
    Poi si gettò nella conversazione generale. Donna Francesca parlava dell’ultimo ricevimento all’Ambasciata d’Austria.
  • Vedesti Madame de Cahen? – le chiese Elena. – Aveva un abito di tulle giallo tempestato di non so quanti colibrì con gli occhi di rubino. Una magnifica uccelliera danzante… E Lady Ouless, la vedesti? Aveva una vesta di tarlatane bianca, tutta sparsa di alghe marine e di non so che pesci rossi, e su l’alghe e su i pesci una seconda vesta di tarlatane verdemare. Non la vedesti? Un acquario di bellissimo effetto…
    Ed ella, dopo le piccole maldicenze, rideva d’un riso cordiale che le dava un tremolio alla parte inferiore del mento e alle narici.
    D’innanzi a quella volubilità incomprensibile, Andrea rimaneva ancor titubante. Quelle cose frivole o maligne uscivano dalle stesse labbra che allora allora, pronunziando una frase semplicissima, l’avevan turbato fin nel profondo; uscivano dalle stesse labbra che allora allora, tacendo, eragli parsa la bocca della Medusa di Leonardo, umano fiore dell’anima divinizzato dalla fiamma della passione e dall’angoscia della morte. « Qual era dunque la vera essenza di quella creatura? Aveva ella percezione e conscienza della sua metamorfosi costante o era ella impenetrabile anche a sé stessa, rimanendo fuori dal proprio mistero? Quanto nelle sue espressioni e manifestazioni entrava d’artificio e quanto di spontaneità? » Il bisogno di conoscere lo pungeva anche fra la delizia in lui effusa dalla vicinanza della donna ch’egli incominciava ad amare. La trista consuetudine dell’analisi l’incitava pur sempre, gli impediva pur sempre di obliarsi; ma ogni tentativo era punito, come la curiosità di Psiche, dall’allontanamento dell’amore, dall’offuscamento dell’oggetto vagheggiato, dalla cessazion del piacere. « Non era meglio, invece, abbandonarsi ingenuamente alla prima ineffabile dolcezza dell’amor che nasceva? » Egli vide Elena nell’atto di bagnare le labbra in un vino biondo come un miele liquido. Scelse tra i bicchieri quello ove il servo aveva versato un egual vino; e bevve con Elena. Ambedue, nel tempo medesimo, posarono su la tovaglia il cristallo. La comunità dell’atto fece volgere l’una verso l’altro. E lo sguardo li accese ambedue, più assai del sorso.
  • Non parlate? – chiesegli Elena, con un’affettazione di leggerezza, che le alterava un poco la voce. – Corre fama voi siate uno squisitissimo parlatore… Scuotetevi, dunque!
  • Ah, cugino, cugino! – esclamò Donna Francesca, con un’aria di commiserazione, mentre Don Filippo del Monte le mormorava qualche cosa nell’orecchio.
    Andrea si mise a ridere.
  • Cavaliere Sakumi, noi siamo i taciturni. Scuotiamoci!
    All’Asiatico scintillarono di malizia i lunghi occhi, ancor più rosseggianti sul rossor fosco che i vini gli accendevano ai pomelli. Fino a quel momento, egli aveva guardato la duchessa di Scerni, con l’espressione estatica d’un bonzo che sia nel conspetto della divinità. La sua larga faccia, che pareva uscita fuori da una pagina classica del gran figuratore umorista O-kou-sai, rosseggiava come una luna d’agosto, tra le catene de’ fiori.
  • Sakumi – soggiunse a bassa voce Andrea, chinandosi verso Elena – è innamorato.
  • Di chi?
  • Di voi. Non ve ne siete accorta?
  • No.
  • Guardatelo.
    Elena si volse. E l’amorosa contemplazione del daimio travestito le chiamò alle labbra un riso così aperto che quegli si sentì ferire e restò visibilmente umiliato.
  • Tenete – ella disse per compensarlo; e, spiccando dal festone una camelia bianca, la gittò all’inviato del Sol Levante. – Trovate una similitudine, in mia lode.
    L’Asiatico portò la camelia alle labbra, con un gesto comico di divozione.
  • Ah, Ah, Sakumi, – fece la piccola baronessa d’Isola – voi mi siete infedele!
    Egli balbettò qualche parola, accendendosi anche più nel volto. Tutti ridevano, liberamente, come se quello straniero fosse stato invitato appunto per dare agli altri argomento di gioco. E Andrea, ridendo, si volse alla Muti.
    Ella tenendo il capo sollevato, anzi piegato indietro un poco, guardava il giovine furtivamente, di fra le palpebre socchiuse, con uno di quegli indescrivibili sguardi della donna, che paiono assorbire e quasi direi bevere dall’uom preferito tutto ciò che in lui è più amabile, più desiderabile, più godibile, tutto ciò che in lei ha destata quella istintiva esaltazion sessuale da cui ha principio la passione. I lunghissimi cigli velavano l’iride inclinata all’angolo dell’orbita; e il bianco nuotava come in una luce liquida, un po’ azzurra; e un tremolio quasi impercettibile moveva la palpebra inferiore. Pareva che il raggio dello sguardo andasse alla bocca di Andrea, come alla cosa più dolce.
    Elena era presa, infatti, da quella bocca. Pura di forma, accesa di colore, gonfia di sensualità, con un’espressione un po’ crudele quando rimaneva serrata, quella bocca giovenile ricordava per una singolar somiglianza il ritratto del gentiluomo incognito ch’è nella Galleria Borghese, la profonda e misteriosa opera d’arte in cui le imaginazioni affascinate credetter ravvisare la figura del divino Cesare Borgia dipinta dal divino Sanzio. Quando le labbra si aprivano al riso, quell’espressione fuggiva; e i denti bianchi quadri, eguali, d’una straordinaria lucentezza, illuminavano una bocca tutta fresca e gioconda come quella d’un fanciullo.
    Appena Andrea si volse, Elena ritrasse lo sguardo; ma non così presto che il giovine non ne cogliesse il baleno. N’ebbe egli una gioia così forte che sentì salire alle gote una fiamma. « Ella mi vuole! Ella mi vuole! » pensò, esultando, nella certezza d’aver già conquistata la rarissima creatura. Ed anche pensò: « E’ un piacere non mai provato. »
    Ci sono certi sguardi di donna che l’uomo amante non iscambierebbe con l’intero possesso del corpo di lei. Chi non ha veduto accendersi in un occhio limpido il fulgore della prima tenerezza non sa la più alta delle felicità umane. Dopo, nessun altro attimo di gioia eguaglierà quell’attimo.
    Elena domandò, mentre intorno la conversazione facevasi più viva:
  • Resterete a Roma tutto l’inverno?
  • Tutto l’inverno, e oltre – rispose Andrea, a cui quella semplice domanda parve chiudere una promessa d’amore.
  • Avete dunque una casa?
  • Casa Zuccari: domus aurea.
  • Alla Trinità de’ Monti? Voi felice!
  • Perché felice?
  • Perché voi abitate in un luogo ch’io prediligo.
  • V’è raccolta, è vero? come un’essenza in un vaso, tutta la sovrana dolcezza di Roma.
  • E’ vero! Tra l’obelisco della Trinità e la colonna della Concezione è sospeso ex-voto il mio cuore cattolico e pagano.
    Ella rise di quella frase. Egli aveva pronto un madrigale intorno il cuor sospeso, ma non lo profferì; perché gli spiaceva di prolungare il dialogo su quel tono falso e leggero e di disperdere così l’intimo suo godimento. Tacque.
    Ella rimase un poco pensosa. Poi, di nuovo, si gittò nella conversazione generale, con una vivacità anche maggiore, profondendo i motti e le risa, facendo scintillare i suoi denti e le sue parole. Donna Francesca mordeva un poco la principessa di Ferentino, non senza finezza, accennando all’avventura lesbica di lei con Giovanella Daddi.
  • A proposito, la Ferentino annunzia per l’Epifania un’altra fiera di beneficenza – disse il barone d’Isola. – Non ne sapete ancóra nulla?
  • Io sono patronessa – rispose Elena Muti.
  • Voi siete una patronessa preziosa – fece Don Filippo del Monte, un uomo quarantenne, quasi tutto calvo, sottile aguzzatore di epigrammi, che portava sul volto una specie di maschera socratica in cui l’occhio destro scintillava mobilissimo per mille diverse espressioni e il sinistro rimaneva sempre immobile e quasi vetrificato sotto la lenta rotonda, come se l’uno servisse per esprimere e l’altro per vedere. – Nella Fiera di maggio, riceveste una nuvola d’oro.
  • Ah, la Fiera di maggio! Una follia – esclamò la marchesa d’Ateleta.
    Come i servi venivan mescendo vin ghiacciato di Sciampagna, ella soggiunse:
  • Ti ricordi, Elena? I nostri banchi erano vicini.
  • Cinque luigi per sorso! Cinque luigi per morso! – si mise a gridare Don Filippo del Monte, imitando per gioco la voce di un banditore.
    La Muti e l’Ateleta ridevano.
  • Già, già è vero. Voi gittavate il bando, Filippo – disse Donna Francesca. – Peccato che tu non ci fossi, cugino mio! Per cinque luigi avresti mangiato un frutto segnato prima da’ miei denti e per altri cinque luigi avresti bevuto Champagne nel concavo delle mani d’Elena.
  • Che scandalo! – interruppe la baronessa d’Isola, con una smorfietta d’orrore.
  • Ah, Mary! E tu non vendevi le sigarette accese prima da te, e molto inumidate, per un luigi? – fece Donna Francesca, sempre ridendo.
    E Don Filippo:
  • Io vidi qualche cosa di meglio. Leonetto Lanza ottenne dalla contessa di Lùcoli, per non so quanto, un sigaro d’avana ch’ella aveva tenuto sotto l’ascella…
  • Ohibò! – interruppe di nuovo la piccola baronessa, comicamente.
  • Ogni opera di carità è santa – sentenziò la marchesa. – Io, a furia di morsi nelle frutta, misi insieme circa dugento luigi.
  • E voi? – chiese Andrea Sperelli alla Muti, sorridendo a mala pena. – E voi, con la vostra coppa carnale?
  • Io, dugento settanta.
    Così motteggiavano tutti, tranne il marchese. Questo Ateleta era un uomo già vecchio, afflitto da una sordità incurabile, bene incerettato, dipinto d’un color biondastro, artefatto dal capo a’ piedi. Pareva uno di quei personaggi finti che si vedono ne’ gabinetti di figure in cera. Ogni tanto, quasi sempre male a proposito, metteva fuori una specie di risolino secco che pareva lo stridore d’una macchinetta arruginita ch’egli avesse dentro il corpo.
  • Ma, a un certo punto, il prezzo del sorso arrivò a dieci luigi. Capite? – soggiunse Elena. – E all’ultimo quel matto di Galeazzo Secìnaro venne ad offrirmi un biglietto da cinquecento lire chiedendo in cambio ch’io m’asciugassi le mani alla sua barba bionda…
    Il finale del pranzo era, come sempre in casa d’Ateleta, splendidissimo; poiché il vero lusso d’una mensa sta nel dessert. Tutte quelle squisite e rare cose dilettavano la vista, oltre il palato, disposte con arte in piatti di cristallo guarniti d’argento. I festoni intrecciati di camelie e di violette s’incurvavano tra i pampinosi candelabri del XVIII secolo animati dai fauni e dalle ninfe. E i fauni e le ninfe e le altre leggiadre forme di quella mitologia arcadica, e i Silvandri e le Filli e le Rosalinde animavan della lor tenerezza, su le tappezzerie delle pareti, un di que’ chiari paesi citerèi ch’esciron dalla fantasia d’Antonio Watteau.
    La leggera eccitazione erotica, che prende gli spiriti al termine d’un pranzo ornato di donne e di fiori, rivelavasi nelle parole, rivelavasi ne’ ricordi di quella Fiera di maggio ove le dame spinte da una emulazione ardente a raccogliere la maggior possibile somma nel loro ufficio di venditrici, avevano attirato i compratori con inaudite temerità.
  • Accettaste? – chiese Andrea Sperelli alla duchessa.
  • Sacrificai le mie mani alla Beneficenza – ella rispose. – Venticinque luigi di più!
  • All the perfumes of Arabia will not sweeten this little hand…
    Egli rideva, ripetendo le parole di Lady Macbeth, ma in fondo a lui era una sofferenza confusa, un tormento non bene definito, che somigliava la gelosia. Gli appariva ora, all’improvviso, quel non so che di eccessivo e quasi direi di cortigianesco onde in qualche momento offuscavasi la gran maniera della gentildonna. Da certi suoni della voce e del riso, da certi gesti, da certe attitudini, da certi sguardi ella esalava, forse involontariamente, un fascino troppo afrodisiaco. Ella dispensava con troppa facilità il godimento visuale delle sue grazie. Di tratto in tratto, alla vista di tutti, forse involontariamente, ella aveva una movenza o una posa o una espressione che nell’alcova avrebbe fatto fremere un amante. Ciascuno, guardandola, poteva rapirle una scintilla di piacere, poteva involgerla d’imaginazioni impure, poteva indovinarne le segrete carezze. Ella pareva creata, in verità, soltanto ad esercitare l’amore; – e l’aria ch’ella respirava era sempre accesa dai desiderii sollevati intorno.
    « Quanti l’han posseduta? » pensò Andrea. « Quanti ricordi ella serba, della carne e dell’anima? »
    Il cuore gli si gonfiava come d’un’onda amara, in fondo a cui per sempre bolliva quella sua tirannica intolleranza d’ogni possesso imperfetto. E non sapeva distogliere gli occhi dalle mani d’Elena.
    In quella mani incomparabili, morbide e bianche, d’una transparenza ideale, segnata d’una trama di vene glauche appena visibile; in quelle palme un poco incavate e ombreggiate di rose, ove un chiromante avrebbe trovato oscuri intrichi, avevano bevuto, dieci, quindici, venti uomini, l’un dopo l’altro, a prezzo. Egli vedeva le teste di quegli uomini sconosciuti chinarsi e suggere il vino. Ma Galeazzo Secìnaro era uno de’ suoi amici: bello e gagliardo signore, imperialmente barbato come un Lucio Vero, rivale temibile.
    Allora, sotto l’incitazione di quelle imagini, la cupidigia gli crebbe così fiera e l’invase una impazienza così tormentosa che il termine del pranzo gli pareva non giungesse più mai. « Io avrò da lei, in questa sera medesima, la promessa » pensò. Dentro, lo pungeva un’ansietà come di chi tema vedersi fuggire un bene a cui molti emuli mirano. E l’incurabile e insaziabile vanità gli rappresentava l’ebrezza della vittoria. Certo, quanto più la cosa da un uom posseduta suscita negli altri l’invidia e la brama, tanto più l’uomo ne gode e n’è superbo. In questo appunto è l’attrattivo delle donne di palco scenico. Quando tutto il teatro risona di applausi e fiammeggia di desiderii, quegli che solo riceve lo sguardo e il sorriso della diva si sente inebriare dall’orgoglio come da una tazza di vin troppo forte e smarrisce la ragione.
  • Tu che sei una innovatrice – diceva la Muti rivolgendosi a Donna Francesca, mentre bagnava le dita nell’acqua tiepida d’un vaso di cristallo azzurro orlato d’argento – dovresti rimmeter l’uso del dare acqua alle mani col mesciroba e col bacino antico, fuor di tavola. Questa modernità è brutta. Non vi pare, Sperelli?
    Donna Francesca si levò. Tutti la imitarono. Andrea offerse il braccio a Elena, inchinandosi, ed ella lo guardò, senza sorridere, mentre posava il braccio nudo su quello di lui lentamente. Le sue ultime parole erano state gaie e leggere; quello sguardo invece era così grave e profondo che il giovine si sentì prendere l’anima.
  • Andate – ella chiese – andate domani sera al ballo dell’Ambasciata di Francia?
  • E voi? – chiese a sua volta Andrea.
  • Io, sì.
  • Io, sì.
    Sorrisero, come due amanti. Ed ella soggiunse, mentre sedeva:
  • Sedete.
    Il divano era discosto dal caminetto, lungo la coda del pianoforte che le pieghe ricche d’una stoffa celavano in parte. Una gru di bronzo, a una estremità, reggeva nel becco levato un piatto sospeso a tre catenelle, come quel d’una bilancia; e il piatto conteneva un libro nuovo e una piccola sciabola giapponese, un waki-zashi, ornato di crisantemi d’argento nella guaina, nella guardia, nell’elsa.
    Elena prese il libro ch’era a metà intonso; lesse il titolo; poi lo ripose nel piatto che ondeggiò. La sciabola cadde. Come ella ed Andrea si chinavano nel tempo medesimo per raccoglierla, le loro mani s’incontrarono. Ella, rialzatasi, esaminò la bell’arma curiosamente; e la tenne, mentre Andrea le parlava di quel nuovo libro di romanzo e s’insinuava in argomenti generali d’amore.
  • Perché mai rimanete così lontano dal « gran pubblico »? – gli domandò ella. – Avete giurato fedeltà ai « Venticinque Esemplari »?
  • Sì, per sempre. Anzi il mio sogno è l’« Esemplare Unico » da offerire alla « Donna Unica ». In una società democratica com’è la nostra, l’artefice di prosa o di verso deve rinunziare ad ogni benefizio che non sia di amore. Il lettor vero non è già chi mi compra ma chi mi ama. Il lettor vero è dunque la dama benevolente. Il lauro non ad altro serve che ad attirare il mirto…
  • Ma la gloria?
  • La vera gloria è postuma, e quindi non godibile. Che importa a me d’avere, per esempio, cento lettori nell’isola dei Sardi ed anche dieci ad Empoli e cinque, mettiamo, ad Orvieto? E qual voluttà mi viene dall’essere conosciuto quanto il confettiere Tizio od il profumiere Caio? Io, autore, andrò nel conspetto dei posteri armato come potrò meglio; ma io, uomo, non desidero altra corona di trionfo che una… di belle braccia ignude.
    Egli guardò le braccia di Elena, scoperte insino alla spalla. Erano così perfette nell’appiccatura e nella forma che richiamavano la similitudine firenzuolesca del vaso antico « di mano di buon maestro » e tali dovevano essere « quelle di Pallade quando era innanzi al pastore ». Le dita vagavano su le cesellature dell’arma; e l’unghie lucenti parevan continuare la finezza delle gemme che distinguevano le dita.
  • Voi, se non erro, – disse Andrea, involgendo lei del suo sguardo come d’una fiamma – dovete avere il corpo della Danae del Correggio. Lo sento, anzi, lo veggo, dalla forma delle vostre mani.
  • Oh, Sperelli!
  • Non imaginate voi dal fiore la intera figura della pianta? Voi siete, certo, come la figlia d’Acrisio, che riceve la nuvola d’oro, non quella della Fiera di maggio, ohibò! Conoscete il quadro della Galleria Borghese?
  • Lo conosco.
  • Mi sono ingannato?
  • Basta, Sperelli: vi prego.
  • Perché?
    Ella tacque. Ormai ambedue sentivano avvicinarsi il cerchio che doveva chiuderli e stringerli insieme rapidamente. Né l’una né l’altro aveva conscienza di quella rapidità. Dopo due o tre ore dal primo vedersi, già l’una si dava all’altro, in ispirito; e la scambievole dedizione pareva naturale.
    Ella disse, dopo un intervallo, senza guardarlo:
  • Siete molto giovine. Avete già molto amato?
    Egli rispose con un’altra domanda.
  • Credete voi che ci sia più nobiltà di animo e di arte ad imaginare in una sola unica donna tutto l’Eterno feminino, oppure che un uomo di spiriti sottili ed intensi debba percorrere tutte le labbra che passano, come le note d’un clavicembalo ideale, finché trovi l’Ut gaudioso?
  • Io non so. E voi?
  • Neanche io so risolvere il gran dubbio sentimentale. Ma, per istinto, ho percorso il clavicembalo; e temo d’aver trovato l’Ut, a giudicare almeno dall’avvertimento interiore.
  • Temete?
  • Je crains ce que j’espère.
    Egli parlava con naturalezza quel linguaggio manierato, quasi estenuando nell’artifizio delle parole la forza del suo sentimento. Ed Elena si sentiva dalla voce di lui prendere come in una rete e trarre fuor della vita che movevasi a torno.
  • Sua Eccellenza la principessa di Micigliano! – annunziava il servo.
  • Il signor conte di Gissi!
  • Madame Chrysoloras!
  • Il signor marchese e la signora marchesa Massa d’Albe!
    I saloni si popolavano. Lunghi strascichi lucenti passavano sul tappeto purpureo; fuor de’ busti constellati di diamanti, ricamati di perle, avvivati di fiori, emergevano le spalle nude; le capigliature scintillavano quasi tutte di que’ meravigliosi gioielli ereditarii che fanno invidiata la nobiltà di Roma.
  • Sua Eccellenza la principessa di Ferentino!
  • Sua Eccellenza il duca di Grimiti!
    Già si formavano i diversi gruppi, i diversi focolari della malignità e della galanteria. Il gruppo maggiore, tutto composto di uomini, stava presso il pianoforte, intorno la duchessa di Scerni ch’erasi levata in piedi per tener testa a quella specie d’assedio. La Ferentino si avvicinò a salutare l’amica con un rimprovero.
  • Perché non sei venuta oggi da Ninì Santamarta? Ti aspettavamo.
    Ella era alta e magra, con due strani occhi verdi che parevan lontani in fondo alle occhiaie oscure. Vestiva di nero, con una scollatura a punta sul petto e sulle spalle; portava tra i capelli, d’un biondo cinereo, una gran mezzaluna di brillanti, a simiglianza di Diana, e agitava un gran ventaglio di piume rosse, con gesti repentini.
  • Ninì va stasera da Madame Van Huffel.
  • Anch’io andrò, più tardi, per un poco – disse la Muti. – La vedrò.
  • Oh, Ugenta, – fece la principessa, volgendosi ad Andrea – vi cercavo per rammentarvi il nostro appuntamento. Domani è giovedì. La vendita del cardinale Immenraet comincia domani, a mezzogiorno. Venite a prendermi all’una.
  • Non mancherò, principessa.
  • Bisogna ch’io porti via quel cristallo di ròcca ad ogni costo.
  • Avrete però qualche competitrice.
  • Chi?
  • Mia cugina.
  • E poi?
  • Me – disse la Muti.
  • Te? Vedremo.
    I cavalieri intorno chiedevano schiarimenti.
  • Una contesa di dame del XIX secolo, per un vaso di cristallo di ròcca già appartenuto a Niccolò Niccoli; su quel vaso è intagliato il troiano Anchise che scioglie un de’ calzari di Venere Afrodite – annunziò solennemente Andrea Sperelli. – Lo spettacolo è dato per grazia, domani, dopo la prima ora del pomeriggio, nelle sale delle vendite publiche, in via Sistina. Contendono: la principessa di Ferentino, la duchessa di Scerni, la marchesa d’Ateleta.
    Tutti ridevano, a quel bando.
    Il Grimiti domandò:
  • Son lecite le scommesse?
  • La côte! La côte! – si mise a garrire Don Filippo del Monte, imitando la voce stridula del bookmaker Stubbs.
    La Ferentino col suo ventaglio rosso gli diede un colpo sulla spalla. Ma la facezia parve buona. Le scommesse incominciarono. Come dal gruppo partivano risa e motti, a poco a poco altre dame e altri gentiluomini si avvicinarono per prender parte all’ilarità. La notizia della contesa si spargeva rapidamente; prendeva le proporzioni d’un avvenimento mondano; occupava tutti i belli spiriti.
  • Datemi un braccio e facciamo un giro – disse Donna Elena Muti ad Andrea.
    Quando furono lontani dal gruppo, nel salone contiguo, Andrea stringendole il braccio mormorò:
  • Grazie!
    Ella si appoggiava a lui, soffermandosi di tratto in tratto per rispondere ai saluti. Pareva un poco stanca; ed era pallida come le perle delle sue collane. Ciascun giovine elegante le faceva un complimento volgare.
  • Questa stupidità mi soffoca – ella disse.
    Nel volgersi, vide Sakumi che la seguiva portando la camelia bianca all’occhiello, in silenzio, con gli occhi imbambolati, senza osare d’accostarsi. Gli mandò un sorriso misericorde.
  • Povero Sakumi!
  • L’avete veduto ora soltanto? – le chiese Andrea.
  • Sì.
  • Quando eravamo seduti accanto al pianoforte, egli dal vano d’una finestra guardava continuamente le vostre mani che giocavano con un’arma del suo paese destinata a tagliar le pagine d’un libro occidentale.
  • Dianzi?
  • Già, dianzi. Forse egli pensava: « Dolce cosa far harakiri con quella piccola sciabola ornata di crisantemi che paion fiorire dalla lacca e dal ferro al tocco delle sue dita! »
    Ella non sorrise. Su la sua faccia era disceso un velo di tristezza e quasi di sofferenza; i suoi occhi parevano occupati da un’ombra più cupa, vagamente illuminati sotto la palpebra superiore, come dell’albor d’una lampada; un’espressione dolente le abbassava un poco gli angoli della bocca. Ella teneva il braccio destro abbandonato lungo la veste, reggendo nella mano il ventaglio e i guanti. Non porgeva più la mano ai salutatori e ai lusingatori; né dava più ascolto ad alcuno.
  • Che avete, ora? – le chiese Andrea.
  • Nulla. Bisogna ch’io vada dalla Van Huffel. Conducetemi a salutare Francesca; e poi accompagnatemi fin giù, alla mia carrozza.
    Tornarono nel primo salone. Luigi Gullì, un giovine maestro venuto dalle natali Calabrie in cerca di fortuna, nero e crespo come un arabo, eseguiva con molta anima la Sonata in do diesis minore di Ludovico Beethoven. La marchesa d’Ateleta, ch’era una sua proteggitrice, stava in piedi accanto al pianoforte, guardando la tastiera. A poco a poco la musica grave e soave prendeva tutti que’ leggeri spiriti ne’ suoi cerchi, come un gorgo tardo ma profondo.
  • Beethoven – disse Elena, con un accento quasi religioso, arrestandosi e sciogliendo il suo braccio da quello di Andrea.
    Ella così rimase ad ascoltare, in piedi, presso una delle banane. Tenendo proteso il braccio sinistro, si metteva un guanto, con estrema lentezza. In quell’attitudine l’arco delle sue reni appariva più svelto; tutta la figura, continuata dallo strascico, appariva più alta ed eretta; l’ombra della pianta velava e quasi direi spiritualizzava il pallore della carne. Andrea la guardò. E le vesti, per lui, si confusero con la persona.
    « Ella sarà mia » pensava, con una specie d’ebrietà, poiché la musica patetica gli aumentava l’eccitamento. « Ella mi terrà fra le sue braccia, sul suo cuore! »
    Imaginò di chinarsi e di posare la bocca su la spalla di lei. – Era fredda quella pelle diafana che sembrava un latte tenuissimo attraversato da una luce d’oro? – Ebbe un brivido sottile; e socchiuse le palpebre, come per prolungarlo. Gli giungeva il profumo di lei, una emanazione indefinibile, fresca ma pur vertiginosa come un vapore d’aròmati. Tutto il suo essere insorgeva e tendeva con ismisurata veemenza verso la stupenda creatura. Egli avrebbe voluto involgerla, attrarla entro di sé, suggerla, beverla, possederla in un qualche modo sovrumano.
    Quasi constretta dal soverchiante desiderio del giovine, Elena si volse un poco; e gli sorrise d’un sorriso così tenue, direi quasi così immateriale, che non parve espresso da un moto delle labbra, sì bene da una irradiazione dell’anima per le labbra, mentre gli occhi rimanevan tristi pur sempre, e come smarriti nella lontananza d’un sogno interiore. Eran veramente gli occhi della Notte, così inviluppati d’ombra, quali per una Allegoria avrebbeli forse imaginati il Vinci dopo aver veduta in Milano Lucrezia Crivelli.
    E nell’attimo che durò il sorriso, Andrea si sentì solo con lei, in mezzo alla moltitudine. un orgoglio enorme gli gonfiava il cuore.
    Poiché Elena fece l’atto di mettersi l’altro guanto, egli la pregò sommesso:
  • No, non quello!
    Elena intese; e lasciò nuda la mano.
    Una speranza era in lui, di baciarle la mano, prima ch’ella partisse. D’improvviso, gli risorse nello spirito la visione della Fiera di maggio, quando gli uomini le bevevano nel concavo delle palme il vino. Di nuovo, un’acuta gelosia lo punse.
  • Ora, andiamo – ella disse, riprendendogli il braccio.
    Finita la Sonata, le conversazioni si riannodavano più vive. Il servo annunziò altri tre o quattro nomi, tra cui quello della principessa Issé che entrava con un piccolo passo incerto, vestita all’europea, sorridente dal volto ovale, candida e minuta come la figurina d’un netske. Un movimento di curiosità si propagò pel salone.
  • Addio, Francesca – disse Elena. prendendo congedo dall’Ateleta. – A domani.
  • Così presto?
  • Mi aspettano in casa Van Huffel. Ho promesso di andare.
  • Peccato! Canterà, ora, Mary Dyce.
  • Addio. A domani.
  • Prendi. E addio. Cugino amabile, accompagnatela.
    La marchesa le diede un mazzo di violette doppie; e si volse poi ad incontrar la principessa Issè, graziosamente. Mary Dyce, vestita di rosso, alta e ondeggiante come una fiamma, incominciava a cantare.
  • Sono tanto stanca! – mormorò Elena, appoggiandosi ad Andrea. – Chiedete, vi prego, la mia pelliccia.
    Egli prese la pelliccia dal servo che glie la porgeva. Aiutando la dama a indossarla, le sfiorò l’omero con le dita; e sentì ch’ella rabbrividiva. Tutta l’anticamera era piena di valletti in livree diverse, che s’inchinavano. La voce soprana di Mary Dyce portava le parole d’una Romanza di Robert Schumann: « Ich kann’s nicht fassen, nicht glauben… »
    Scendevano in silenzio. Il servo era andato innanzi a fare avanzare la carrozza fino a piè della scala. Udivasi rintronare lo scalpitìo de’ cavalli sotto l’androne sonoro. Ad ogni scalino, Andrea sentiva il premere lieve del braccio di Elena che s’abbandonava un poco, tenendo il capo sollevato, anzi alquanto piegato indietro, con gli occhi socchiusi.
  • Nel salire, vi seguiva la mia ammirazione sconosciuta. Nel discendere vi accompagna il mio amore – le disse Andrea, sommessamente, quasi umilmente, ponendo tra le ultime parole una pausa esitante.
    Ella non rispose. Ma portò alle nari il mazzo delle viole ed aspirò il profumo. Nell’atto, l’ampia manica del mantello scivolò lungo il braccio, oltre il gomito. La vista di quella viva carne, uscente di fra la pelliccia come una massa di rose bianche fuor della neve, accese ancor più ne’ sensi del giovine la brama, per la singolar procacità che il nudo feminile acquista allor quando è mal celato da una veste folta e grave. un piccolo fremito gli moveva le labbra; ed egli tratteneva a stento le parole desiose.
    Ma la carrozza era pronta a piè della scala, e il servo era allo sportello.
  • Casa Von Huffel – ordinò la duchessa, montando, aiutata dal conte.
    Il servo s’inchinò, lasciando lo sportello; ed occupò il suo posto. I cavalli scalpitavano forte, levando faville.
  • Badate! – gridò Elena, tendendo al giovine la mano; e i suoi occhi e i suoi diamanti scintillavano nell’ombra.
    « Essere con lei, là nell’ombra e cercare con la bocca il suo collo fra la pelliccia profumata! » Egli avrebbe voluto dirle:
  • Prendetemi con voi!
    I cavalli scalpitavano.
  • Badate! – ripeté Elena.
    Egli le baciò la mano, premendo, come per lasciarle su la cute un’impronta di passione. Quindi chiuse lo sportello. E, al colpo, la carrozza partì rapidamente, con un alto rimbombo per tutto l’androne, uscendo nel Fòro.