martedì 22 settembre 2020

D'ANNUNZIO ESOTERICO

 D'Annunzio nasce nel 1863, all'indomani della nascita dell'Italia unita, nell'anno in cui Carducci, il poeta-vate dell'Unità, compone e diffonde il suo "Inno a Satana", ricostruendo la storia del ritorno del principio pagano e libertario.


La sua "prima morte" (di molte che lo ossessioneranno) ce la descrive nell’incipit de Il libro segreto, cento e cento pagine del poeta tentato di morire: «nel nascere io fui come imbavagliato dalla morte; sicché non diedi grido, né avrei potuto trarre il primo respiro a vivere, se mani esperte e pronte non avessero rotto i nodi e lacerata quella specie di tonaca spegnitrice. Dipoi, nei primi anni dell’infanzia portai al collo, chiusa entro un breve, quella ligatura insolita che l’antichissima superstizione della mia gente reputava propizia». La «prima morte» di D’Annunzio, in effetto, venne evitata attraverso una pratica di magia tradizionale che consisteva nel «corazzare», come disse il Poeta stesso, con ben quattrocento monete di argento il suo corpicino e di appendergli al collo un «abitino» (sorta di contenitore fatto di pelle animale: il breve, di cui parla D’Annunzio) che conteneva pezzi del legamento del suo cordone ombelicale.


Figlio del ricco commerciante Rapagnetta, assume fin da giovane il cognome di un ricco zio, D'Annunzio, che rende il suo nome un'evocazione dell'Arcangelo che ha annunciato a Maria la nascita di Cristo. Fin da questo primo atto si mostra la sua volontà di "fare della propria vita un'opera d'arte", rifiutando superomisticamente la distinzione arte e vita.

Studente ribelle, compone la sua prima raccolta di versi sedicenne, "Primo Vere" (1878) e la pubblicizza spargendo la voce della sua precoce morte durante una caduta da cavallo. La raccolta in questo modo va a ruba, ed egli nel 1879 - non ancora maggiorenne - ardisce di scrivere a Carducci, per porsi quasi già subito quale suo erede, ma senza particolari riscontri.

Studente ribelle, compone la sua prima raccolta di versi sedicenne, "Primo Vere" (1878) e la pubblicizza spargendo la voce della sua precoce morte durante una caduta da cavallo. La raccolta in questo modo va a ruba, ed egli nel 1879 - non ancora maggiorenne - ardisce di scrivere a Carducci, per porsi quasi già subito quale suo erede, ma senza particolari riscontri.

Guarda, assisa, la vaga Melusina,
tenendo il capo tra le ceree mani,
la Luna in arco da’ boschi lontani
salir vermiglia il ciel di Palestina.

Da l’alto de la torre saracina,
ella sogna il destin de’ Lusignani;
e innanzi a ’l tristo rosseggiar de’ piani,
sente de ’l suo finir l’ora vicina.

Già già, viscida e lunga, ella le braccia
vede coprirsi di pallida squama,
le braccia che fiorían sì dolcemente.

Scintilla inrigidita la sua faccia
e bilingue la sua bocca in van chiama
poi che a ’l cuor giunge il freddo de ’l serpente.



Già allora c'è un interesse ermetico, come nella raccolta di liriche Isaotta Gottadauro (1886), di cui realizza una preziosa Edictio Picta, con la collaborazione dei principali autori dell'epoca sotto la guida del Cellini. Venne satireggiata come "Risaotta al Pomidauro" con conseguente duello (dei molti che combatterà). 

I duelli, proibiti dal 1875, saranno parte del suo personaggio.
Dal 1887 però avvia già un'altra relazione parallela con l'amata Barbara Leoni, e da questa dicotomia nasce "Il piacere" (1889), l'opera che gli dona la grande fama nazionale, il romanzo decadente, il "Romanzo della Rosa" più celebre in una trilogia che si compone anche de "L'Innocente" e de "Il trionfo della morte", il più "oscuro" dei tre. Il Romanzo della Rosa è, in effetti, un fondamentale romanzo allegorico ed esoterico mediovale, del '200, su un cavaliere che anela raggiungere la Rosa, che per molti è ispiratore della Commedia di Dante Alighieri. 

Nel romanzo del Piacere è descritta la tensione tra una donna angelicata, bionda e "bianca", e una donna peccaminosa, una femme fatale "nera" di capelli e di stile, che riflette la tensione presente nella stessa - affascinante, per il pubblico - vita dell'autore.

Nel 1891 si reca a Napoli, dove si avvicina epistolarmente a Eleonora Duse (1892), la Divina, la principale attrice del periodo (del teatro, e poi anche del cinema muto) e partecipa a sedute spiritiche (1893) della medium più famosa dell'epoca, Eusapia Palladino

D'Annunzio avrà sempre grande apprezzamento per le veggenti, specie per i presagi di morte che - come nel suo esordio letterario -  egli usa per sensazionalismo. "Gabriele D’Annunzio corre a 120 all’ora perché una fattucchiera gli ha predetto con certezza che non morirà prima del 1909, per colpa di una pugnalata al cuore. Il poeta conosce il giorno e l’ora esatti del suo decesso». E ancora, nel 1908, mentre viveva nella villa «La Versiliana», annunciò ai parenti la sua morte per il 17 aprile di quello stesso anno: lo aveva detto una maga fiorentina. Un’altra volta la data fu fissata per il 17 luglio 1910, addirittura profetizzata da Madame de Thèbes (1845-1916), pseudonimo di Anne Victorine Savigny, notissima veggente e chiromante francese che esercitava presso il suo studio a Parigi nell’avenue de Wagram. 

Nel 1894 l'incontro con la Duse, la Divina, e l'amore; legge inoltre gli scritti sul superuomo di Nietzche (ancora vivente: morirà nel 1900) e ci si avvicina con "Le vergini delle rocce" (1895), ispirate anche a una coppia di dipinti di Leonardo, entrambi intitolati "La vergine delle rocce". I romanzi di questa fase vanno a costituire il "Romanzo del Giglio", della Purezza virginale, una Albedo contrapposta alla Nigredo del decadente piacere.

Nel 1897 entra in politica, eletto con la Destra: ma nel 1898, di fronte agli eccidi di Bava Beccaris a Milano, si sposta a Sinistra, mentre compone la sua grande raccolta poetica, l'Alcyone (1899), parte di un progetto più alto di un ciclo di Laudi dedicato alle sette Pleiadi, ninfe divinizzate classiche associate alla poesia.

Il 3 marzo 1901 inaugurò invece con Ettore Ferrari, Gran Maestro della massoneria del Grande Oriente d'Italia (e scultore del monumento a Giordano Bruno dinnanzi al Vaticano), l'Università Popolare di Milano, nella sede di via Ugo Foscolo (anch'egli massone), dove pronunciò il discorso inaugurale e dove, successivamente, svolse un'attività straordinaria di docenze e lezioni culturali. La massoneria, che aveva spinto Carducci, che avrebbe di lì a poco spinto Pascoli, rese anche D'Annunzio un suo 33 grado, ovvero massone del massimo livello, ma D'Annunzio poi si staccherà da essa con l'affermarsi del movimento fascista, che rischierà di capitanare.

Nel 1902 pubblica "Le novelle della Pescara", le sue novelle di ispirazione manieristicamente verista, composte dal 1884 - negli anni di affermazione del verismo - in cui esaspera il gusto per la violenza e la sensualità (non del tutto assente in Verga) per poi mettere tra parentesi questo esperimento.

Nel 1904 pubblica così Il fuoco, il "Romanzo del Melograno" nella sua trilogia pseudodantesca, che presenta la focosa relazione con la Duse, cosa che porta alla rottura di un legame ormai allentato. Il poeta si reca a Parigi, dove la sua figura affascina e seduce, erede dello scandaloso Huysmans di “A Rebours”, primo alfiere dell’estetismo francese. Amico/nemico del futurista Marinetti, che definirà “Un cretino fosforescente”: se questi rappresenta la tensione ipertecnologica verso il futuro, D’Annunzio imbelletta di classicità la novità tecnologica. La loro posizione è inconciliabile.

Nel 1906 Carducci vince il Nobel, e nel 1907 muore. Il posto di "Poeta Vate", il poeta-profeta guida della Nazione, è libero. In teoria lo eredita, come la cattedra di letteratura di Bologna, l'allievo prediletto Giovanni Pascoli, anch'egli massone, autore di un poderoso studio sul simbolismo dantesco.

Nel 1908 D'Annunzio avvia il suo piano simbolico di nuovo vate di una nazione guerriera: La Nave è tragedia dal superomismo già venato dell'imperialismo che sarà sempre più dominante nella sua produzione.

La tragedia è l’ultima famosa del poeta, incentrata sul tema chiave dell’imperialismo europeo in Africa e in India. L’ammiraglio Marco di Venezia è una sorta di superuomo particolarmente malvagio che viene sedotto per vendetta da Basiliola, che vuole vendicarsi dei suoi torti alla di lei famiglia. Egli è condotto quasi alla follia, ma alla fine decide di darsi alla missione di conquista di un impero italico e Basiliola, vinta, si suicida. Tale opera postrema della fase più letteraria preannuncia già il D'Annunzio superuomo "operativo" nella prima guerra mondiale.

Lo stesso anno 1908 la Francesca da Rimini dannunziana, d'ispirazione dantesca, è portata al cinema dall'inglese Blackton: primo film di molti tratti dalle opere dannunziane.

Nel 1909 l'ultimo romanzo dannunziano, "Forse che sì, forse che no", presenta temi simili. Ambientato a Mantova, nel Palazzo Gonzaga, dove si trova tale iscrizione intarsiata sul soffitto cinquecentesco in forma di labirinto. L'opera - che sfida per la prima volta il nascente futurismo marinettiano, di quell'anno - tratta del nobile Paolo Tarsis ha una relazione amorosa di passione con Isabella; a differenza degli altri superuomini dannunziani, comprende che è venuta l’età delle macchine. Quando nei reciproci tradimenti la storia naufraga (e la giovane nuova amante Vannina si suicida), Paolo compie una traversata aerea, che riesce oltre ogni aspettativa, ed egli diviene un eroe. Alla nave, odusiaca, si sostituisce il futuristico aereo.

Nel 1910 D'annunzio si iscrive al Partito Nazionalista, dove inizia a propiziare la Guerra in Libia (1911). Curiosamente, però, lo stesso anno 1911 compone "La crociata degli innocenti", dedicato alla crociata dei fanciulli, che esalta lo spirito della guerra santa come redenzione, ma narrando di un fatto storico del 1211-1212 conclusosi con lo sterminio dei puri fanciulli inviati alla crociata.

Sempre nel 1911, con "Il martirio di San Sebastiano", musicato poi dall'occultista e iniziato martinista Debussy, è tutto intriso di simbolismi mistici, a metà tra sacro e pagano, quasi in transizione dalla Crociata al pagano Cabiria (Debussy è anche ritenuto uno dei grandi maestri del Priorato di Sion). Dopo la sua conversione, Sebastiano distrugge la Camera Magica, dove una donna - che nel primo atto gli ha pulito le ferite - gli rivela di portare in sé la Sindone. Quindi Diocleziano lo sottopone alle tentazioni di Cristo e lo fa quindi trafiggere, con una scena che unifica rimandi alla Crocifissione ma anche al mito di Adone (già avvicinati dal Marino, nel '600). 

Lo stesso anno La figlia di Iorio (1911), di Arrigo Frusta, è un primo film italiano tratto dalle opere d'annunziane.

Il 1912 vede la morte di Pascoli, il "poeta vate" massonico erede di Carducci, e la vittoria dell'Italia nella guerra coloniale di Libia che D'Annunzio celebrerà con Cabiria due anni dopo. La strada è definitivamente spianata, per il poeta, per divenire l'unico Poeta Vate.

Nel 1913 viene iniziato alla massoneria esoterica, il martinismo, tramite Debussy.  Il più celebre Martinista italiano di tutti i tempi fu, senza dubbio , il Fratello Gabriele D'Annunzio,S:::I::: il Cui nome Iniziatico, "Ariel" Egli utilizzò per firmare molti Suoi componimenti poetici. D'Annunzio fu iniziato al Martinismo nel gennaio del 1913 da Papus a Parigi; il Suo Presentatore fu il celebre musicista Claude Debussy, membro del S.C. dell'Ordre Martiniste e fraterno amico di D'Annunzio (Debussy è ritenuto gran maestro, nel periodo 1885-1918, dell'ipotetico Priorato di Sion in virtù di tali interessi ermetici).

Il grande poeta abruzzese aveva conosciuto Papus molti anni prima entrando con Lui in stretta corrispondenza; su suggerimento di Papus e sfruttando la propria perfetta conoscenza della lingua francese D'Annunzio approfondì, con molta passione, lo studio dell'Opera di Louis Claude de Saint-Martin, divenendone un perfetto conoscitore ma solo nel 1913 si persuase a chiedere l'Iniziazione.Tale fu la Sua fedeltà al Proprio Iniziatore che, quando nel 1923 l'Ordine Martinista Italiano si distaccò da Quello Francese, il Fr:::Ariel, che pure era noto per i Suoi sentimenti patriottici ed ultranazionalistici, si rifiutò di sottoscrivere il documento di secessione dalla Francia rimanendo perciò, con il Suo Gruppo di Milano,all'Obbedienza dell'Ordre Martiniste di Bricaud, Successore di Papus alla carica di Gran Maestro. Il Gruppo di Milano, che comprendeva peraltro anche la celebre artista Maria Tibaldi Chiesa, si sarebbe riunito al Martinismo italiano solo nel 1965 in occasione della "pacificazione" con la Francia sancita dal Trattato di Amicizia, stipulato a Venezia tra Zasio e P.Encausse,Figlio di Papus.Nel Vittoriale di Gardone Egli ha lasciato traccia visibile del Proprio Cammino Martinista attraverso la disposizione di tre camere comunicanti in sequenza: la camera nera,la camera bianca,la camera rossa, il colore, cioè, dei tre gradi Martinisti, 

Nel 1914, con Cabiria, assieme al cineasta Pastrone crea il primo kolossal del cinema, che a partire dalle vicende romane delle Guerre Puniche esalta l'impresa libica e avvia la propaganda bellicista che favorirà l'intervento nella Grande Guerra imminente.

Da questo punto, con il culmine della creazione del Kolossal cinematografico, D'Annunzio avvia una seconda fase, più "attiva", con le imprese belliche e il susseguente appoggio al fascismo.

Come il suo ultimo eroe letterario, egli compie grandi imprese aeree, a partire dal Volo su Trieste (1915) spargendo volantini che beffano gli austriaci: ferito, diviene l'Orbo Veggente, con rimando al tema del Poeta Vate e a quello del Terzo Occhio. Comporrà così Notturno (1916), opera raffinata e modernissima, dove il poeta, cieco, compone i versi su singoli foglietti che poi compone casualmente, come la Sibilla dell'antica Roma. Un'opera e una metodologia profetica che anticipa di mezzo secolo il - parimenti ermetico - Cut Up di Bourroughs. 

Nel 1917, oltre a nuove imprese belliche, dona il nome ai grandi magazzini della Rinascente, che beneauguralmente risorgono dopo un incendio.

Nel 1918 compie il Volo su Vienna, coronamento della sua sfida aerea all'Impero d'Austria, e la celebre Beffa di Buccari con i MAS, i Moto-Auto-Siluranti che rinomina Memento Audere Semper. Eroe di aero-navi, ma anche eroe "navale", nella grande tradizione classica odusiaca.

Dopo la sconfitta di Caporetto, ribattezza il fiume "la Piave" ne "IL Piave", maschilizzandolo come simbolo bellico, e va a ideare il "Milite Ignoto" che celebra il sacrificio per la vittoria, che lui stesso definisce Vittoria Mutilata, preparando l'impresa fiumana.

Nel 1919 l'Impresa di Fiume consente all'Italia di ottenere l'annessione dell'Istria: la Repubblica del Carnaro formata da D'Annunzio e dai suoi volontari diviene un modello per il nascente Fascismo: molti vedono nel Vate il vero possibile leader del movimento. Il simbolo di Fiume, curiosamente, è piuttosto iniziatico, è il serpente Ourobouros che si morde la coda, simbolo dell'Infinito.

Nel 1920 Fiume riconoscerà per prima l'URSS, ospiterà un grandioso concerto di Arturo Toscanini, e - pur portando a Fiume città libera, e poi nel 1924 italiana - verrà infine repressa nel Natale di Sangue.

Nel 1921 il figlio Gabriellino D'Annunzio girerà La Nave, ultimo film - vivente il Vate - realizzato dalle sue opere. Esce anche, spurio, un film erotico dedicato alle imprese dannunziane.

Il poeta si è intanto ritirato sul Lago di Garda, dove costruisce il Vittoriale (1921), grandiosa villa-monumento alla Vittoria nella Grande Guerra (e, naturalmente, a sé stesso). La villa contiene un anfiteatro, ed è creata in forma di Nave, a celebrare il Vate come novello Ulisse, oltre che novello Omero.

Qui nel 1922 riceverà una delegazione dei sovietici, che continuano ad apprezzarlo.

Poco dopo però le velleità di D'Annunzio di porsi quale ago della bilancia della Nuova Italia, conciliando le fazioni in lotta, viene stroncato dal Volo dell’Arcangelo. Nel 1922, il 13 di agosto, D’Annunzio cadde da una finestra della sua Stanza della musica al Vittoriale, battendo il capo su una pietra sottostante e rimanendo in coma, tra la vita e la morte, per dodici giorni. La dinamica della caduta è piuttosto oscura, essendo legata ad un corteggiamento «ardito» che il Poeta pare ponesse in atto nei confronti di Jole, violinista stimata, ma soprattutto sorella di Luisa Baccara, sua amante del momento: sembra ad un certo punto che Jole, nella foga di svincolarsi dall’abbraccio del Vate, lo abbia inavvertitamente spinto di sotto. In seguito, nel 1935, nel Libro Segreto, lo definirà un suicidio.

Risvegliatosi dal coma scrive immediatamente e di getto questi versi visionari: «io sono Gabriele che mi presento agli dei, fra alati fratelli il più veggente alunno di Postvorta, sacerdote dell’arcano e del divino, interprete dell’umana demenza, volatore caduto dall’alto, principe ed indovino». Il «volatore caduto» si confessa alunno di Postvorta, la divinità romana del passato. Naturalmente, si ipotizza un'azione di spie fasciste per eliminare, o almeno avvertire il Vate, che in seguito si ridimensionò.

Il fascismo mussoliniano, preso il potere con la marcia su Roma dell'ottobre 1922, completò l'annessione di Fiume (1924) e fece nominare D'Annunzio "Principe di Montenevoso" (1924), con un titolo altisonante. Assieme al rivale Marinetti, fu tra i primi firmatari del Manifesto Fascista (1925) di Gentile, e nel 1926 si espresse con sprezzante critica verso l'URSS, allineandosi anche in questo al regime. Nel 1927 il regime avviò la ristampa integrale delle sue opere, compiuta nel 1936.

Anche i futuristi, divenuti più accademici dal 1924, lo ritengono un loro idolo, nonostante il dissenso artistico classicismo-futurismo: lo dimostra quest'immagine realizzata nel 1928 da Osvaldo Bot. 

Il concordato con la Chiesa nel 1929 consolida il regime fascista ma contribuisce a far mettere sempre più fra parentesi il superomismo dannunziano; comunque nel 1931 la collana L'Oleandro favorisce una stampa popolare delle opere dell'autore, compiuta nel 1937; egli intanto nel 1933 pubblica le tarde liriche di Anterope, dedicate alle sue imprese belliche. Il fascismo si avvicina intanto a Hitler, che egli nel 1934 dichiara essere un "pagliaccio feroce". Una presa di distanza però irrilevante, non rilanciata dai media saldamente nelle mani del regime.

Nel 1935 l'ultima grande opera, il Libro Segreto di Gabriele D'Annunzio, "tentato di morire". Quest'ultimo grande diario, ricco di pagine complesse e intricate, è una sorta di estremo testamento che preannuncia una morte in odore di suicidio.

Nel 1937 D'Annunzio dichiara: "disprezzando di morire tra due lenzuola, tento la mia ultima invenzione": niente meno di questo annuncia egli stesso in un sibillino messaggio del 1937, pochi mesi prima della sua «morte eterna», avvenuta il 1 marzo del 1938. Curiosamente la stampa dell’epoca, abituata agli annunci iperbolici del Poeta, interpreta la frase con queste parole: «Il Poeta ha deciso, quando sentirà l’ora del trapasso, di immergersi in un bagno che provocherà immediatamente la morte e contemporaneamente distruggerà i tessuti del suo corpo. È il Poeta stesso che ha scoperto la formula del liquido».

Il Vate muore proprio nel marzo previsto, col capo chino sul suo scrittoio nella stanza che usava al Vittoriale per comporre i suoi poemi, e con il dito ad indicare la data esatta, cerchiata di rosso, del lunario Barbanera che vaticinava per quel giorno «la morte di un italiano illustre».

Il miglior epitaffio su D'Annunzio, comunque uno dei nostri massimi letterati del Novecento, l'ha scritto forse il vignettista d'origine monregalese Golia:





Desiderio

 

Voglio che tornando tu trovi una paroletta del tuo amico stasera.
Ho un desiderio desolato di te stasera. Ahimè stasera e sempre.
Ma stasera il desiderio è di qualità nuova.
È come un tremito infinitamente lungo e tenue.
Sono come un mare in cui tremino tutte le gocciole,
tremano tutte le ali dell'anima,
tremano tutte le fibre dei nervi,
tremano tutti i fiori della primavera
e anche le nuvole del cielo
e anche le stelle della notte
e anche la piccola luna trema.
Trema sui tuoi capelli che sono una schiuma bionda.
Ho la bocca piena delle tue spalle,
che sono ora come un fuoco di neve tiepida disciolta in me.
Godo e soffro.
Ti ho dentro di me e vorrei tuttavia sentirti sopra di me.
Non mi hai lasciato tanta musica partendo.
Stanotte tienimi sul tuo cuore,
avvolgimi nel tuo sogno,
incantami col tuo fiato,
sii sola con me solo.
Oh melodia melodia...
Tremano tutte le gocciole del mare.


A vucchella

 

Si comm'a nu sciurillo...
tu tiene na vucchella,
nu poco pucurillo,
appassuliatella.

Méh, dammillo, dammillo,
è comm'a na rusella...
dammillo nu vasillo,
dammillo, Cannetella!

Dammillo e pigliatillo
nu vaso... piccerillo
comm'a chesta vucchella

che pare na rusella...
nu poco pucurillo
appassuliatella..
.



L'Onda

 

Nella cala tranquilla
scintilla,
intesto di scaglia
come l'antica
lorica
del catafratto,
il Mare.
Sembra trascolorare.
S'argenta? S'oscura?
A un tratto
come colpo dismaglia
l'arme, la forza
del vento l'intacca.
Non dura.
Nasce l'onda fiacca,
sùbito s'ammorza.
Il vento rinforza.
Altra onda nasce,
si perde,
come agnello che pasce
pel verde:
un fiocco di spuma
che balza!
Ma il vento riviene,
rincalza, ridonda.
Altra onda s'alza,
nel suo nascimento
più lene
che ventre virginale!
Palpita, sale,
si gonfia, s'incurva,
s'alluma, propende.
Il dorso ampio splende
come cristallo;
la cima leggiera
s'arruffa
come criniera
nivea di cavallo.
Il vento la scavezza.
L'onda si spezza,
precipita nel cavo
del solco sonora;
spumeggia, biancheggia,
s'infiora, odora,
travolge la cuora,
trae l'alga e l'ulva;
s'allunga,
rotola, galoppa;
intoppa
in altra cui 'l vento
diè tempra diversa;
l'avversa,
l'assalta, la sormonta,
vi si mesce, s'accresce.
Di spruzzi, di sprazzi,
di fiocchi, d'iridi
ferve nella risacca;
par che di crisopazzi
scintilli
e di berilli
viridi a sacca.
O sua favella!
Sciacqua, sciaborda,
scroscia, schiocca, schianta,
romba, ride, canta,
accorda, discorda,
tutte accoglie e fonde
le dissonanze acute
nelle sue volute
profonde,
libera e bella,
numerosa e folle,
possente e molle,
creatura viva
che gode
del suo mistero
fugace.
E per la riva l'ode
la sua sorella scalza
dal passo leggero
e dalle gambe lisce,
Aretusa rapace
che rapisce la frutta
ond'ha colmo suo grembo.
Sùbito le balza
il cor, le raggia
il viso d'oro.
Lascia ella il lembo,
s'inclina
al richiamo canoro;
e la selvaggia
rapina,
l'acerbo suo tesoro
oblìa nella melode.
E anch'ella si gode
come l'onda, l'asciutta
fura, quasi che tutta
la freschezza marina
a nembo
entro le giunga!

Musa, cantai la lode
della mia Strofe Lunga




Aprile

 

Socchiusa è la finestra, sul giardino.
Un'ora passa lenta, sonnolenta.
Ed ella, ch'era attenta, s'addormenta
a quella voce che già si lamenta,
- che si lamenta in fondo a quel giardino.

Non è che voce d'acque su la pietra:
e quante volte, quante volte udita!
Quell'amore e quell'ora in quella vita
s'affondan come ne l'onda infinita
stretti insieme il cadavere e la pietra.

Ella stende l'angoscia sua nel sonno.
L'angoscia è forte, e il sonno è così lieve!
(Par la luce d'april quasi una neve
che sia tiepida. ) Ed ella certo deve
soffrire, vagamente, anche nel sonno.

Tutto nel sonno si rivela il male
che la corrompe. Il volto impallidisce
lentamente: la bocca s'appassisce
nel suo respiro; su le guance lisce
s'incava un'ombra... O rose, è il vostro male:

rose del sole nuovo, pur di ieri,
ch'ella recise ad una ad una (e intanto
ella era affaticata un poco, e intanto
l'acque avean su la stessa pietra il pianto
d'oggi), oggi quasi sfatte, e pur di ieri!

Ella non è più giovine. I suoi tardi
fiori effuse nel primo ultimo amore.
Fu di voluttà ebra e di dolore.
Un grido era nel suo segreto cuore,
assiduo: - Troppo tardi! Troppo tardi! -

Ella non è più giovine. Son quasi
bianchi i capelli su la tempia; sono
su la fronte un po' radi. L'abbandono
(ella è supina e immota), l'abbandono
fa sembrar morte le sue mani, quasi.

Né pure il gesto fa scendere mai
sangue all'estrenútà de le sue dita!
La tragga il sogno lungi da la vita.
Veda nel sogno almen ringiovanita
l'Amato ch'ella non vedrà piu mai.

Socchiusa è la finestra, sul giardino.
Un'ora passa lenta, sonnolenta.
Non altro s'ode, ne la luce spenta,
che quella voce che giù si lamenta,
- che si lamenta in fondo a quel giardino.


Le mani

Le mani delle donne che incontrammo
una volta, e nel sogno, e ne la vita:
oh quelle mani, Anima, quelle dita
che stringemmo una volta, che sfiorammo
con le labbra, e nel sogno, e ne la vita!
Fredde talune, fredde come cose
morte, di gelo (tutto era perduto):
o tiepide, parean come un velluto
che vivesse, parean come le rose:
rose di qual giardino sconosciuto?
Ci lasciaron talune una fragranza
così tenace che per una intera
notte avemmo nel cuore la primavera;
e tanto auliva la soligna stanza
che foresta d'april non più dolce era.
Da altre, cui forse ardeva il fuoco estremo
d'uno spirto (ove sei, piccola mano,
intangibile ormai, che troppo piano
strinsi? ), venne il rammarico supremo:
- Tu che m'avesti amato, e non in vano! -
Da altre venne il desìo, quel violento
Fulmineo desio che ci percote
come una sferza; e immaginammo ignote
lussurie in un'alcova, un morir lento:
- per quella bocca aver le vene vuote! -
Altre (o le stesse) furono omicide:
meravigliose nel tramar l'inganno.
Tutti gli odor d'Arabia non potranno
Addolcirle. - Bellissime e infide,
quanti per voi baciare periranno! -
Altre (o le stesse), mani alabastrine
ma più possenti di qualunque spira,
ci diedero un furor geloso, un'ira
folle; e pensammo di mozzarle al fine.
(Nel sogno sta la mutilata, e attira.
Nel sogno immobilmente eretta vive
l'atroce donna dalle mani mozze.
E innanzi a lei rosseggiano due pozze
di sangue, e le mani entro ancora vive
sonvi, neppure d'una stilla sozze).
Ma ben, pari a le mani di Maria,
altre furono come le ostie sante.
Brillò su l'anulare il diamante
né gesti gravi della liturgia?
E non mai tra i capelli d'un amante.
Altre, quasi virili, che stringemmo
forte e a lungo, da noi ogni paura
fugarono, ogni passione oscura;
e anelammo a la Gloria, e in noi vedemmo
illuminarsi l'opera futura.
Altre ancora ci diedero un profondo
brivido, quello che non ha l'uguale.
Noi sentimmo, così, che ne la frale
palma chiuder potevano esse un mondo
immenso, e tutto il Bene e tutto il Male:
Anima, e tutto il Bene e tutto il Male.


Sopra un erotik

 

Voglio un amore doloroso, lento,
che lento sia come una lenta morte,
e senza fine (voglio che più forte
sia de la morte) e senza mutamento.

Voglio che senza tregua in un tormento
occulto sian le nostre anime assorte;
e un mare sia presso a le nostre porte,
solo che pianga in un silenzio intento.

Voglio che sia la torre alta granito,
ed alta sia così che nel sereno
sembri attingere il grande astro polare.

Voglio un letto di porpora, e trovare
in quell'ombra giacendo su quel seno,
come in fondo a un sepolcro l'Infinito.


La malinconia secondo Gabriele d’Annunzio

 «Ma la Melancolia venne e s’assise

in mezzo a noi tra gli oleandri,

Ed Erigone, ch’ebbe conosciuta 

la taciturna amica del pensiero 

chinò la fronte come chi saluta.

E poi disse la Notte e il suo mistero.»

La taciturna amica del pensiero: con questo magnifico endecasillabo Gabriele D’Annunzio definisce la malinconia in una delle poesie dell’Alcyone, L’oleandro, che probabilmente non è tra le sue migliori composizioni, troppo lunga e gravata com’è da un’architettura artificiosa, da preziosismi linguistici, da riferimenti mitologici e letterari. Ma è uno di quei versi (il 429°) che si fissano per sempre nella memoria per la sua intima verità.



In memoria di te, Gabriele D’Annunzio

 Il 12 marzo 2013, nella ricorrenza del 150° anniversario di nascita di Gabriele D’Annunzio al Vittoriale di Gardone si entrerà gratuitamente. Tutta Italia celebra questo anniversario con appuntamenti, manifestazioni, attività culturali e convegni sulla figura del poeta.

Tra le città coinvolte nei festeggiamenti: Milano, il Teatro Manzoni ospiterà la tappa finale del tour dello spettacolo “Gabriele d’Annunzio, tra amori e battaglie”, di e con Edoardo Sylos Labini e una grande mostra nel foyer,  Verona, con un’intera settimana di eventi dannunziani, tra convegni e spettacoli, Trento ospiterà una grande mostra su d’Annunzio aviatore presso il Museo dell’Aeronautica Gianni Caproni, ma anche Genova, Bologna, Roma, Pisa e la Versilia, con la sua più celebre e prestigiosa manifestazione estiva, la Versiliana. Torino rappresenterà una tappa fondamentale, con il Salone Internazionale del Libro che dedicherà ampio spazio ai temi dannunziani. Inoltre, la Fondazione Ugo Bordoni curerà un convegno su d’Annunzio innovatore, in cui verranno presentati i risultati dei più moderni studi scientifici applicati alla ricerca in campo umanistico e artistico.


“Lo abbiamo curato foglia a foglia, questo parco, come lo curò il suo creatore, fra i primi amanti e protettori della natura in senso contemporaneo. Abbiamo ripiantato i cipressi caduti e pettinato gli ulivi, abbiamo accolto come fiori portati dal vento i grandi capolavori di Mimmo Paladino, Ugo Riva, Ettore Greco, Arnaldo Pomodoro, ulteriore omaggio al padrone di casa”. Così il Presidente del Vittoriale Giordano Bruno Guerri.


In occasione della cerimonia è stata scoperta un’altra opera d’arte che va arricchire la collezione del Vittoriale: ovvero Gian Marco Montesano “Perché non son io coi miei pastori?” ispirata ad un verso del poeta.


Nell’angolo di giardino che d’Annunzio dedicò ai suoi cani è stata invece inaugurata una stele. “Abbiamo scolpito la drammatica, dolcissima poesia che il poeta dedicò a loro, che mi custodiscono”.


Qui giacciono i miei cani

gli inutili miei cani,

stupidi ed impudichi,

novi sempre et antichi,

fedeli et infedeli

all’Ozio lor signore,

non a me uom da nulla.

Rosicchiano sotterra

nel buio senza fine

rodon gli ossi i lor ossi,

non cessano di rodere i lor ossi

vuotati di medulla

et io potrei farne

la fistola di Pan

come di sette canne

i’ potrei senza cera e senza lino

farne il flauto di Pan

se Pan è il tutto e

se la morte è il tutto.

Ogni uomo nella culla

succia e sbava il suo dito

ogni uomo seppellito

è il cane del suo nulla


Gabriele D’Annunzio, 31 ottobre 1935




I VOCABOLI CREATI DA D'ANNUNZIO

 Gabriele D'Annunzio, dal 1924 Principe di Montenevoso (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938), è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota italiano, simbolo del Decadentismo e celebre figura della prima guerra mondiale. Soprannominato il Vate, cioè "poeta sacro, profeta", cantore dell'Italia umbertina, occupò una posizione preminente nella letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa e nella vita politica dal 1914 al 1924.

 

È stato definito «eccezionale e ultimo interprete della più duratura tradizione poetica italiana […]» e come politico lasciò un segno nella sua epoca e una influenza sugli eventi che gli sarebbero succeduti.

 

Ma ha anche coniato diversi neologismi! vediamoli!

 

1-      Automobile è femminile!

Fu lui a stabilire in Italia, tra le tante varianti che allora si usavano che la parola "automobile" fosse di genere femminile: lo fece in una lettera inviata a Giovanni Agnelli che gli aveva posto l'annosa questione ("L'Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità di una seduttrice; ha inoltre una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza").

2-      Tramezzino

Fu D'Annunzio che italianizzò il sandwich chiamandolo “tramezzino”.

3-      In Ambito aereonautico

Fusoliera, velivolo ma anche folla oceanica sono espressioni che introdusse lo stesso Vate.

4-      Arzente

Arzente, italianizzazione del termine cognac, per Gabriele D'Annunzio avrebbe dovuto essere derivato da "arzillo" e da ardens (ardente) a indicare lo stato di euforia indotto dall'ebbrezza, o il calore che derivava dal bere l’alcolico.

5-      Nomi Propri

Inventò il nome proprio Cabiria per l'eroina dell'omonimo film muto del 1914 del quale firmò la sceneggiatura. Il nome proprio Ornella e lo pseudonimo della scrittrice di romanzi rosa Amalia Liana Negretti Odescalchi, in arte Liala: il suo nome d'arte si deve proprio a un suggerimento di D'Annunzio: "Ti chiamerò Liala perché ci sia sempre un'ala nel tuo nome".

6-      Milite Ignoto

Fu D'Annunzio a coniare il termine Milite ignoto (dal latino miles ignotus, cioè "soldato sconosciuto").

7-      Il Piave

Verso la fine della Grande guerra, vista la vittoria italiana sul Piave, il poeta decise che il sacro fiume d'Italia doveva cambiare l'articolo: se in passato il fiume era conosciuto come la Piave, fu dopo l'intervento di D'Annunzio che il fiume si chiamerà il Piave. D'Annunzio ebbe questa idea per celebrare la potenza maschia del fiume che resistette al nemico e il Piave fu elevato a fiume sacro della Patria.

8-      La Rinascente

Nel 1917 ribattezzò la Rinascente dopo la ricostruzione seguita all'incendio che l'aveva completamente distrutta. D'Annunzio fu un grande pubblicitario oltre che coniatore di neologismi. Anche il nome de La Rinascente, per gli omonimi attuali grandi magazzini di Milano, fu suggerito da Gabriele D'Annunzio a Senatore Borletti quando quest'ultimo rilevò l'attività commerciale ivi presente: i magazzini "Aux Villes d'Italie". (Il nome si rivelò poi particolarmente indovinato quando la Rinascente fu distrutta da un incendio e completamente ricostruita).

9-      Gli oro Saiwa

Coniò il nome Saiwa per l'azienda di biscotti.

10-   Unione di parole esistenti

D'Annunzio coniò inoltre il termine "fraglia", unione dei termini "fratellanza" e "famiglia", che indica oggi molte associazioni veliche, tra cui la Fraglia della Vela di Riva del Garda.

11-   Scudetto.

Il triangolino tricolore che, dal 1925, viene applicato sulle maglie della squadra che vince il Campionato italiano di calcio, fu "inventato" da Gabriele d'Annunzio. Il simbolo, infatti, si ispira allo "scudetto" che il Vate aveva voluto applicare alla divisa indossata dagli italiani in una partita di calcio organizzata durante l'occupazione di Fiume.

12-   Vigili del fuoco.

Alla nascita, nel 1935, il Corpo Nazionale creato per svolgere servizio antincendio e di protezione civile, derivò il nome dall'analogo corpo francese: i pompieri. Tre anni più tardi - in piena autarchia culturale - il francesismo fu abbandonato e sostituito da “Vigile del Fuoco”: anche in questo caso l'idea fu di Gabriele d'Annunzio, che si ispirò ai "vigiles" dell'antica Roma.

13-   D’Annunzio e La Pubblicità

 

Fu testimonial dell'Amaro Montenegro che definì «liquore delle virtudi» e dell'Amaretto di Saronno. D'Annunzio lanciò una propria linea di profumi, l'Acqua Nunzia.




Gabriele D’Annunzio, l’intellettuale indefinibile

 A mio parere, quello cioè non di un blasonato critico letterario ma di un semplice amante della letteratura di tutti i tempi, ben poche figure di poeti e di scrittori sono apparse così indefinibili, nel lungo corso della storia, come quella di Gabriele D’Annunzio: un intellettuale, oserei dire, che tutti conoscono ma che ben pochi hanno esaminato nella sua profondità e che riescono a definire, o comunque a far rientrare in un preciso movimento o anche tendenza letteraria invalsa ai suoi tempi.

Le storie letterarie, delle quali tutti noi ci serviamo o che comunque abbiamo consultato, collocano il nostro poeta nell’ambito del Decadentismo, qual era l’atmosfera culturale che si respirava in Italia ed in Europa nell’epoca a cavallo tra i secoli XIX e XX. Questo è certamente vero, ma la sensibilità decadente di D’Annunzio fu profondamente diversa da quella degli altri rappresentanti italiani di tale temperie letteraria, primo tra tutti Giovanni Pascoli. Ciò dipende anzitutto dalle differenze caratteriali, anche sul piano personale, tra i due poeti: mentre Pascoli, pur ritenendo il poeta superiore alla comune umanità in quanto a lui solo è concesso di cogliere l’essenza profonda delle cose, partiva “dal basso” delle descrizioni naturali e della rappresentazione della vita nei suoi aspetti più comuni, D’Annunzio faceva della peculiarità della condizione dell’intellettuale un motivo per giungere al superomismo, osservando cioè “dall’alto” la società come colui che, pur facendone parte, si sente su di un piano diverso, più alto della comune umanità, e su questo piano colloca anche i personaggi dei suoi romanzi.
Pur tuttavia l’indefinibilità di D’Annunzio, la continua apparente contraddizione che emerge dalle sue opere non deriva solo da motivi caratteriali, ma anche da una particolare forma di coscienza poetica, quella cioè che si lascia solo parzialmente avvolgere nell’atmosfera culturale dei suoi tempi ma che riscopre invece, con riferimenti diretti ma per lo più allusivi, tutta la grande tradizione della poesia classica, da Omero a Virgilio, da Dante a Carducci ed al Pascoli stesso.
Un breve accenno ai romanzi, in particolare a L’innocente e al Piacere. Che si tratti di opere pensate nell’ambito del decadentismo è chiaro, ma alla lettura emergono tratti ben visibili del verismo (in talune descrizioni crude e realistiche) ma anche del primo Verga, quello della fase romantica di Una peccatriceTigre reale ecc.: lo rivelano, se non altro, tratti psicologici dei protagonisti come i numerosi particolari con cui è descritta la forte passione d’amore dei protagonisti e l’idealizzazione della donna amata, oltre ad una particolare forza descrittiva degli elementi paesaggistici che ricorda da vicino la relazione tra uomo e natura propria del Romanticismo. Se poi ci affacciamo a leggere anche discorsivamente la grande produzione poetica dannunziana, non possiamo fare a meno di trovarci ricordi ed allusioni a tutta la tradizione classica ed italiana. Lasciando stare i poeti cronologicamente più vicini (da Leopardi a Carducci) troviamo in diverse raccolte dannunziane, e specialmente in Alcyone, chiari riferimenti al Cantico di frate Sole di San Francesco (“Laudata sii pel tuo viso di perla, / o Sera”, in La sera fiesolana, 15-16), a Dante, ricordato in molte occasioni da D’Annunzio (v. ad es, sempre in Alcyone, I pastori vv. 14-15: “O voce di colui che primamente / conosce il tremolar della marina”, con chiaro richiamo ai vv 116-7 del primo canto del Purgatorio) ed anche agli stilnovisti: ai vv. 55-56 dell’ode Il dolce grappolo, tratto dalla raccolta Isotteo, si legge: “O madonna Isaotta, è dura cosa / ir le beltà non viste imaginando”, in cui il linguaggio cavalcantiano è mescolato ad una certa maliziosità che ricorda anche certe liriche del Poliziano ed in genere del periodo rinascimentale.
Per i ricordi del mondo classico, tanto scoperti quanto allusivi, la lezione del Carducci (e poi anche del Pascoli) non poteva non influire: frequentissimi sono i richiami ai poeti antichi in tutte le raccolte, ma più diffusi nelle giovanili come Canto novo ed in quelle dove deliberatamente il mito classico sale in primo piano, come Alcyone; qui gli esempi da portare sarebbero moltissimi, ed è per me particolarmente gradito trovarne in quanto studioso dell’antichità greca e romana. Ne ricorderò solo due per ognuna delle due grandi letterature dell’antichità: nell’ode Sera sui colli d’Alba, dalle Elegie romanesi legge “e tu, o dolceridente pupilla”, dove l’aggettivo composto ricalca chiaramente quelli omerici; allo stesso modo, nell’ode Versilia (da Alcyone) il poeta definisce se stesso con l’epiteto “Occhiazzurro”, con cui in Omero è solitamente designata la dea Atena, definita “dagli occhi di civetta”, quindi cerulei, come quelli che il poeta, con allusione dotta, riferisce a se stesso. Ancor più numerosi i richiami ai poeti latini. Nella celebre ode La pioggia nel pineto, la più nota di D’Annunzio, il poeta afferma che lui ed Ermione, la donna amata, vanno “di fratta in fratta, or congiunti or disciolti / (e il verde vigor rude / ci allaccia i malleoli / c’intrica i ginocchi) / chi sa dove, chi sa dove”. Può ben darsi ch’io m’inganni, ma in questo intrico di macchie e di arbusti che avvincono le caviglie e le gambe degli amanti mi par di vedere un ricordo allusivo al celebre mito di Dafne cantato nelle Metamorfosi di Ovidio, dove la bella ninfa, per sfuggire al raptus amoroso di Apollo, si attacca a terra e si trasforma nella pianta dell’alloro. Riferimenti più scoperti possiamo trovare a Virgilio, sia nelle accurate descrizioni paesaggistiche che ricordano certi luoghi delle Georgiche, sia in richiami a passi dell’Eneide: nella poesia citata sopra, Il dolce grappolo, si legge ai vv. 163-4 che “uno stuol d’augelli, d’improvviso / attraversò con ilari saluti”, esortando il poeta e la bella Isaotta a rimettersi in cammino per scoprire nuovi incantati paesaggi; e qui viene in mente il libro VI del poema virgiliano, dove ai vv. 190 e sgg. si parla di una coppia di colombe che rompono l’inerzia di Enea di fronte all’albero dal ramo d’oro, permettendogli di scorgerlo.
Queste mie osservazioni nascono da uno studio piuttosto ordinario dell’opera dannunziana, a me suggerito dalla necessità di dover trattare l’opera del poeta nel normale svolgimento del programma di letteratura italiana della mia quinta liceo classico. Non mi vanto di aver detto cose nuove, ché altrimenti avrei scelto una rivista specializzata e non il mio piccolo misero blog; sono anzi certo che altri prima di me hanno già arrivati a simili e molto più geniali conclusioni. Ho voluto scriverle perché fin dai miei studi liceali ho sempre avuto l’impressione che D’Annunzio sia un poeta che sfugge a precise definizioni e collocazioni, poiché nella sua produzione si affastellano suggestioni culturali che vanno ben al di là del Decadentismo e di ogni altra corrente letteraria. Anche il senso della natura e del paesaggio, in lui così forte e così ricorrente, ci lascia spesso stupiti, perché è difficile distinguere la brama del puro esteta, che vuol stupire il lettore e fare della sua poesia la voce del Vate onnipotente, dalla sensibilità personale verso l’altro da sé, profonda e al tempo stesso sfuggente come un velo ch’egli sembra voler continuamente porre dinanzi agli occhi del lettore.

Prof. MASSIMO ROSSI