Il primo romanzo dannunziano fu avviato nel 1886, inizialmente senza un progetto ben preciso; nelle lettere a Treves editore d'Annunzio parla di un primo titolo "I Pantaleonidi", e si proponeva di descrivere uno spaccato di vita sociale di Pescara; successivamente il progetto si incentrò sulle esperienze mondane del poeta nella capitale Umbertina, e per la prima parte, D'Annunzio rielaborò una novella scritta per la raccolta San Pantaleone, ossia il capitolo del "Distacco" tra Andrea e l'amante Elena, da cui sarebbe partito il lungo flashback della storia d'amore, sino a tornare al presente, nel capitolo conclusivo. Nelle lettere a Treves questa porzione del bozzetto è definita il "Frammento".
Infatti il racconto è ambientato tra Roma e Rovigliano (NA), dove il nobile dandy Andrea Sperelli, simbolo del poeta decadente per eccellenza, vive la forte passione per Elena Muti. Costei è ritenuta la fèmme fatale di tutta la storia, perché Elena non si farà mai conquistare, benché Andrea faccia di tutto per lei. Dopo essere stato abbandonato da Elena, che doveva risolvere il problema dei suoi debiti mediante un matrimonio con un ricchissimo nobiluomo inglese, dopo un conflitto a duello con Giannetto Rutolo, amante di una nobildonna di cui si è invaghito, Ippolita Albonico, Andrea viene ferito, è in convalescenza a Rovigliano, nella bellissima villa Schifanoia di proprietà di una sua cugina, dove conosce una carissima amica di lei, Maria Ferres, di cui si appassiona nella speranza di dimenticare Elena Muti. Tuttavia questo ignobile tentativo egoista, incurante dell'amore di Maria, pieno dei rimorsi di una donna sposata e madre di una bambina, non andrà a buon fine, giungendo alla tragedia della memorabile e significativa scena in cui Andrea, durante un abbraccio ardente con Maria, grida il nome di Elena.
Nel Piacere è ravvisabile una fitta rete di rimandi a vari modelli letterari e artistici, legati sia all'ambiente romano in cui il poeta era inserito, sia alla lettura di autori a lui contemporanei, per lo più francesi. Parigi fu, negli anni della Terza Repubblica e fino allo scoppio della prima guerra mondiale, la capitale culturale d'Europa, la città in cui vennero elaborati i modelli, gli atteggiamenti, i programmi dei principali movimenti culturali, il luogo di attrazione di tutti gli artisti e scrittori europei.D'Annunzio utilizzò il suo impiego giornalistico alla "Tribuna" di Roma per esplorare e assimilare i nuovi modelli letterari francesi ed europei in generale, attraverso il continuo rapporto con altri intellettuali e scrittori. Alle sue influenze precedenti, che comprendevano Charles Baudelaire, Théophile Gautier, l'estetica preraffaellita elaborata dai critici del giornale Cronaca bizantina, e Goethe, si aggiunsero dunque quelle provenienti dalla nuova fonte di ispirazione francese, come Gustave Flaubert, Guy de Maupassant, Émile Zola, ma anche Percy Bysshe Shelley, Oscar Wilde e forse la lettura di À rebours di Joris Karl Huysmans.
Di grande importanza sono poi gli influssi dell'ambiente romano. D'Annunzio giunse nella capitale nel 1881, e i dieci anni che vi trascorse furono decisivi per la formazione del suo stile: nel rapporto con l'ambiente culturale e mondano della città si formò il nucleo della sua visione del mondo. Centrale fu in particolare la sua collaborazione alla rivista Cronaca Bizantina, di proprietà dello spregiudicato editore Angelo Sommaruga, il primo a pubblicare libri del giovane poeta. La rivista, che aveva una linea editoriale orientata alle concezioni letterarie moderne in voga allora (tanto da parlare di una «Roma bizantina») e di cui lo stesso D'Annunzio fu direttore per breve tempo nel 1885, ospitava rubriche di letteratura firmate da importanti artisti e scrittori inseriti nell'ambiente giornalistico, tra cui spiccano Edoardo Scarfoglio, Ugo Fleres, Giulio Salvadori e altri. Sempre a questi anni risale l'amicizia con il musicista Francesco Paolo Tosti e il pittore Francesco Paolo Michetti. Inoltre, D'Annunzio fu collaboratore di molte altre testate romane, e dal 1884 al 1888 scrisse di arte e di cronaca mondana per il quotidiano La Tribuna, firmando con vari pseudonimi e occupandosi di mostre d‘arte, ricevimenti aristocratici e aste d'antiquariato. Attraverso questa intensissima attività D'Annunzio si costruì un personale e inesauribile archivio di stili e registri di scrittura, da cui attinse poi per le sue opere di narrativa. In questo rito di iniziazione letteraria egli mise rapidamente "a fuoco" il proprio mondo di riferimento culturale, nel quale si immedesimò fino a trasfondervi tutte le sue energie creative ed emotive, condannandosi così per molti anni ad accumulare debiti e a fuggire dai creditori. Si può quindi parlare, tanto nelle opere quanto nella vita di D'Annunzio, di una idealizzazione del mondo, che viene ad essere circoscritto nella dimensione del mito. La sua fantasia lottò prepotentemente per imporre sulla realtà del presente, vissuto con disprezzo, i valori alti ed eterni di un passato visto come modello di vita e di bellezza.
Valore assoluto del Piacere è l'arte, la quale rappresenta per Andrea Sperelli un programma estetico e un modello di vita, a cui subordina tutto il resto, giungendo alla corruzione fisica e morale (è il tipico dandy, formatosi nell'alta cultura e votato all'edonismo). È, insomma, la realizzazione di un'elevazione sociale e di quel processo psicologico che affina i sensi e le sensazioni:
«bisogna fare la propria vita come si fa un'opera d'arte. La superiorità vera è tutta qui. . La volontà aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Codesto senso estetico gli manteneva nello spirito un certo equilibrio. Gli uomini che vivono nella Bellezza, che conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezione della Bellezza è l'asse del loro essere interiore, intorno a cui tutte le loro passioni ruotano.» |
(G. D'Annunzio, Il piacere, libro II, cap. II) |
Dopo la convalescenza, successiva alla ferita procuratasi a causa del duello con Giannetto Rutolo, Andrea scopre che l'unico amore possibile è quello dell'arte,
«l'Amante fedele, sempre giovine mortale; eccola Fonte della gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa agli eletti; ecco il prezioso Alimento che fa l'uomo simile a un dio.» |
(G. D'Annunzio, Il piacere, libro II, cap. I) |
Questa attrazione per l'arte viene rappresentata dall'inclinazione di Andrea verso la poesia, che
«può rendere i minimi moti del sentimento può definire l'indefinibile e dire l'ineffabile; può abbracciare l'illimitato e penetrare l'abisso; può inebriare come un vino, rapire come un'estasi; può raggiungere infine l'Assoluto.» |
(G. D'Annunzio, Il piacere, libro II, cap. I) |
Il culto «profondo e appassionato dell'arte» diventa per Andrea l'unica ragione di vita, tirato in gioco anche nei rapporti con Elena Muti e Donna Maria Ferres, perché egli è convinto che la sensibilità artistica illumini i sensi e colga nelle apparenze le linee invisibili, percepisca l'impercettibile, indovini i pensieri nascosti della natura. Senza dubbio, «i miraggi erotici, tutte le insane orge dei sensi si fondano su una profonda corruzione del sentimento. L'arte si dissolve nella minuziosità di un estetismo individualmente raffinato, si limita alla forma e non penetra la sostanza» (appunto di lettura del Michelstaedter sul Piacere). Tuttavia, messe da parte l'autosuggestione decadente e la tendenza alla spettacolarizzazione di D'Annunzio, l'accostamento tra arte e bellezza, arte e vita è una risposta, energica ed eloquente, verso la massificazione dell'arte e la mercificazione del letterato e della letteratura. Il Piacere è l'agonia dell'ideale aristocratico di bellezza. Racconta la vacuità e la decadenza della società aristocratica, infettata dall'edonismo, vicina al proprio annichilimento morale, poiché il valore del profitto ha sostituito quella della bellezza. Emblematica è la fine del romanzo: Andrea, vinto, disfatte le proprie avventure amorose, vaga per le antiche stanze del palazzo del ministro del Guatemala, disabitato, in rovina, il cui arredamento è stato venduto all'asta.