martedì 8 settembre 2020

La Pisanella (1913)

 Commedia in versi francesi in 3 atti, rappresentata a Parigi da Ida Rubinstein, con i commenti musicali di Ildebrando Pizzetti, tradotta da Ettore Janni nel 1935, col titolo La Pisanella, o il giuoco della rosa e della morte. Il prologo narra del re Ughetto di Cipro, che si innamora di una meretrice pisana contesa con dei predoni pirati, Ughetto riconosce in lei la "Santa d'Oltremare" predettagli dal canto di una Mandica, come immagine sacrale della Povertà, e la vuole avere come moglie. Combatte con suo zio uccidendolo, e trascorre con le una vita serena sicché la Regina Madre, dingendo di accoglierla come figlia, la inganna e l'uccide.

L'opera sembra risentire degli influssi del Sogno d'un tramonto d'autunno e de La Nave, per la rappresentazione della matrona di corte pronta a ordire gli inganni contro la rivale, e per la giustificazione sfacciata della lussuria e la sete di gloria del protagonista. Il protagonista Ughetto somiglia al giovane re imberbe del Laus vitae - Maia (1903), dal sapore di favola, il sonno incantato riprende quello di Aligi nella Figlia di Iorio; la Pisanella appare ora come meretrice e superfemmina (atto I), ora come figura angelica e beata (atto II), fiduciosa e ingenua verso la Regina Madre. C'è una decisiva attenuazione del tema erotico ferino delle altre protagoniste delle tragedie dannunziane, il poeta si lascia accompagnare dal ritmo della danza, dove il senso delle parole non riesce a sfondare la quarta parete.

Benché D'Annunzio l'avesse indicata come commedia, l'opera appare più una tragedia lirica, fu pubblicata a teatro con il sottotiolo "La rosa di Cipro" nel 1912, e unita nel 1934 al volume dell'Allegoria d'Autunno.





La Parisina (1913)

 Fu una tragedia composta per la rappresentazione lirica al teatro, su testo di D'Annunzio e musica di Romani. La storia originale narra di Niccolò III d'Este, duca di Ferrara, rimasto vedovo della prima moglie, che si sposa in seconde nozze con Parisina Malatesta, appartenente alla famiglia dei signori di Romagna; ma Parisina si innamorò poi di uno dei vari figli illegittimi di Niccolò: Ufo d'Este, Ugo era figlio di Stella de' Tolomei, unica amante pare manata con vera passione da Niccolò III. Il duca d'Este scoprì la relazione incestuosa del figlio bastardo con la Parisina mediante un'apertura nella boyola della biblioteca del palazzo di Ferrara, e li assassinò decapitandoli.

D'Annunzio concepì questa tragedia come secondo capitolo del "Trittico dei Malatesta", dopo la Francesca da Rimini con la musica di Zandonai, la terza tragedia dal titolo "Sigismondo", non fu mai composta per le vicende belliche della prima guerra mondiale. Nell'opera musicata da Pietro Mascagni, D'Annunzio dà più importanza al personaggio di Stella, madre di Ugo, aggiungendo qualcosa in più duinque alle altre riduzioni teatrali della vicenda, scritte da Byron, musicati da Donizetti e da Keurvels; la Stella dannunziana è una donna malvagia che aizza Ugo a odiare Parisina, responsabile del suo allontanamento da corte per volere di Niccolò III; la presenza di Stella servirebbe così a non far scadere la vicenda nel solito triangolo amoroso. Nel momento della condanna a morte di Ugo, dopo che è stato scoperto in adulterio dal padre, D'Annunzio inserisce una nuova scena, Stella che tenta di riabbracciare il figlio in prigione, mentre Parisina le accorda il perdono per le maledizioni che la legittima consorte d'Este le aveva lanciato.



Il martirio di San Sebastiano (Le martyre de Saint Sébastien) (1911)

 Scritta in versi francesi nel periodo di esilio a Parigi, rappresnetata nel 1911 da Ida Rubinstein con le musiche di Claude Debussy e pubblicata nello stesso anno, fu tradotta in italiano da Ettore Janni. Anche quest'opera come la Crociata si presenta come un "mistero" in cinque "mansioni" con un prologo preghiera.

Sotto un'atmosfera di misticismo, d'Annunzio ripercorre la vita di San Sebastiano. Il santo è un giovane soldato della scorta di Diocleziano imperatore, che decide di salvare due ragazzi dalla morte, condannati perché scoperti cristiani. Diocleziano tenta di corrompere Sebastiano con il gozzoviglio e i piaceri, offrendogli anche sua figlia in sposa, il soldato, che nel frattempo ha avuto varie visioni paradisiache e si è completamente convertito al cristianesimo, risulta schifato e offeso dalle lusinghe dell'imperatore corrotto, e dunque viene condannato ad essere ucciso con delle frecce.

In termini teatrali, l'opera lascia cadere le aspirazioni di una coerenza narrativa e drammatica, riconoscibili anche nella Fedra, tutto è decorazione della vicenda che si svolge, l'uso erudito della parola e della descrizione dei particolari sembra attingere al gusto ellenistico dei poeti alessandrini, alla cura del particolare, alla ricerca dell'elemento meno noto al grande pubblico, alla cristallizzazione dell'arte in sé; il descrittivismo e la sensualità della parola si aiutano con la danza e la musica di Debussy, affinché la tragedia arrivi alla conclusione.



La crociata degli innocenti (1911)

 Si tratta di un "mistero" in 4 atti, da cui fu tratto un film muto di A. Traversa, e venne pubblicata nel 1920. La tragedia mostra un misticismo a carattere cristiano, infarcito del senso del vacuo e della morte, e della sublimazione tipica dannunziana, dove riecheggiano i testi medievali italiani della Laude di Jacopone da Todi o i Fioretti di San Francesco. La trama parla di un pastore, Olimondo, che come l'Aligi abruzzese, abbandona la fidanzata Novella in favore di una prostituta lebbrosa, Novella. Secondo la leggenda, la donna per guarire deve usare il sangue di una creatura innocente, così il pastore non esista a sacrificare, quasi rifacendosi alla Medea euripidea che uccide il fratellino Absirto, la sorellina Gaietta. In scena sopraggiunge un mistico Pellegrino che risucita Gaietta, converte la lussuria dell'amante di Olimondo, facendola guarire anche dal morbo, e invita tutti a seguirlo in un viaggio in Terra Santa. La cosiddetta "crociata degli innocenti", in riferimento biblico, è composta da navi di bambini che solcano il mare, che però cadono in preda di venditori di carne umana, che vogliono venderli come schiavi.

Nel naufragio muoiono Novella e Gaetta, le parole di Olimondo tradiscono una sua non completa purificazione spirituale dagli impulsi erotici, forse questo sarebbe il motivo dello scontro e del naufragio. Come nella successiva tragedia del Martirio di San Sebastiano, il misticismo estenua qua e là un soave musica il tema erotico.



La Fedra (1909)

 Realizzata tra il 1908 e il 1909, D'Annunzio concepisce l'unico vero omaggio al teatro tragico greco, riprendendo il mito dell'eroina Fedra presente nell’Ippolito euripideo, anche se alla rappresentazione alla Scala di Milano l'opera fu un fiasco. La musa ispiratrice pare fosse Nathalie de Golouleff, detta Donatella Cross, e pubblicata anche in versione francese. Il testo, nonostante una ripresa romana al Teatro Argentina il 25 maggio 1909 ad opera della compagnia di Ippolito Pizzetti, non fu più riproposta.

La Fedra è una ricerca letteraria del sublime, D'Annunzio intendeva scardinare il mito la cui storia era già bella e scritta, come nel testo di Euripide o di Seneca, per riscrivere la storia sotto un altro punto di vista, sicuramente privilegiò il superomismo, dato che lo stesso mito lascia intendere come Fedra sia una fèmme fatale che porterà Ippolito alla rovina, dopo aver giaciuto in maniera incestuosa con il sovrano di Atene Teseo, colui che tornò sano e salvo dal labirinto di Creta combattendo contro il Minotauro. La Fedra dannunziana sublima il concetto del destino nella tragedia classica, si percepisce il senso del sublime del trattatello di Longino, si respira in un certo senso l'epicità della tragedia antica.

Quanto all'amalgamazione della sfera psicologica della protagonista, D'Annunzio si allinea con la versione di Seneca, in cui al contrario dei concetti essenziali della tragedia greca, la Fedra senecana e dannunziana dimostra di non conoscere il proprio destino, di non sapere in che modoe perché sta agendo, non conosce il volere degli Dei, e dunque agisce come posseduta da una forza misteriosa e maligna, quasi da muovere il pubblico a pietà per i suoi errori nella vicenda, come fosse una eroina martire cristiana, imparentata con la Fedra del mito pagano euripideo.



Più che l'amore - La Nave (1906-1908)

La prima è una tragedia in due atti in prosa, rappresentata nel 1906 dallo Zacconi; il protagonista è Corrado Berando, l'eroe che vorrebbe essere esploratore, e non avendo i soldi necessari, diventa un assassino. Il tema è la smania polemica di scandalizzare con la superumana ideologia; il protagonista è disposto a tutto pur di raggiungere il suo scopo, e abbandona la sua amante incinta, alla fine Corrado riuscirà a viaggiare, arrivando in Africa dove si sta combattendo per la conquista di nuovi territori coloniali.

Tale sentimento patriottico di colonizzare nuovi territori, tornerà nel 1936 con l'orazione dannunziana Teneo te, Africa.

La seconda tragedia è in 3 episodi più un prologo in versi. Il superuomo Marco Gratico è contrapposto alla superfemmina Basiliola Faledra, che ricorda la Pantea del Sogno d'un tramonto d'autunno, o la Comnena della Gloria. Basiliola è assetata di vendetta per il padre e i quattro fratelli che Marco accecò, e dispone del suo potere lussurioso per ingannarlo, divenendo anche amante di suo fratello, il vescovo Sergio; alla fine lei li aizza uno contro l'altro, sicché nella lotta Sergio morirà. Marco è disperato, e decide di compiere un viaggio in mare, alla ricerca di un'impresa eroica espiatrice, mentre Basiliola sembra risentire dell'influsso di Mila di Codro, uccidendosi gettandosi nel fuoco.

D'Annunzio appare piuttosto vacuo nella descrizione delle parti, soprattutto nella ricerca di unire la figura di Basiliola con le divinità e le figure bibliche di Bibli, Mirra, Pasife, Dalila, Iezabel, al fine di gonfiare l'immaginazione di donna mostruosa quale è la superfemmina. L'impresa per mare di Marco sembra essere un ulteriore richiamo allo spirito patriottico italiano di colonialismo africano.



La fiaccola sotto il moggio (1905)

 La seconda opera drammaturgica del ciclo abruzzese ha ambientazione ad Anversa degli Abruzzi, sede della nobile famiglia dei Sangro. D'Annunzio visitò il vecchio castello con il filologo sulmonese Antonio De Nino nel 1896 per poter costruire la storia, e il risultato fu un compendio del superomismo dannunziano con la leggenda popolare abruzzese tradizionale del malocchio. La nobile famiglia dei Sangro vive in condizioni misere nei resti del castello medievale. La baronessina è osteggiata dal severo padre, che ha ucciso la madre per poter vivere in perdizione con una fattucchiera di Luco dei Marsi. Disperata, la ragazza si fa consigliare da un "serparo" (termine dei cacciatori di serpenti locali, che celebrano una festa cristiano-pagana) di evocare con una fiaccola lo spirito della madre. Il suo sacrificio farà andare in cielo la ragazza, e farà crollare definitivamente il vecchio mastio, simbolo di decadenza e corruzione, con tutti i nobili della famiglia, ormai in preda alla pazzia.