Realizzata tra il 1908 e il 1909, D'Annunzio concepisce l'unico vero omaggio al teatro tragico greco, riprendendo il mito dell'eroina Fedra presente nell’Ippolito euripideo, anche se alla rappresentazione alla Scala di Milano l'opera fu un fiasco. La musa ispiratrice pare fosse Nathalie de Golouleff, detta Donatella Cross, e pubblicata anche in versione francese. Il testo, nonostante una ripresa romana al Teatro Argentina il 25 maggio 1909 ad opera della compagnia di Ippolito Pizzetti, non fu più riproposta.
La Fedra è una ricerca letteraria del sublime, D'Annunzio intendeva scardinare il mito la cui storia era già bella e scritta, come nel testo di Euripide o di Seneca, per riscrivere la storia sotto un altro punto di vista, sicuramente privilegiò il superomismo, dato che lo stesso mito lascia intendere come Fedra sia una fèmme fatale che porterà Ippolito alla rovina, dopo aver giaciuto in maniera incestuosa con il sovrano di Atene Teseo, colui che tornò sano e salvo dal labirinto di Creta combattendo contro il Minotauro. La Fedra dannunziana sublima il concetto del destino nella tragedia classica, si percepisce il senso del sublime del trattatello di Longino, si respira in un certo senso l'epicità della tragedia antica.
Quanto all'amalgamazione della sfera psicologica della protagonista, D'Annunzio si allinea con la versione di Seneca, in cui al contrario dei concetti essenziali della tragedia greca, la Fedra senecana e dannunziana dimostra di non conoscere il proprio destino, di non sapere in che modoe perché sta agendo, non conosce il volere degli Dei, e dunque agisce come posseduta da una forza misteriosa e maligna, quasi da muovere il pubblico a pietà per i suoi errori nella vicenda, come fosse una eroina martire cristiana, imparentata con la Fedra del mito pagano euripideo.