martedì 8 settembre 2020

La crociata degli innocenti (1911)

 Si tratta di un "mistero" in 4 atti, da cui fu tratto un film muto di A. Traversa, e venne pubblicata nel 1920. La tragedia mostra un misticismo a carattere cristiano, infarcito del senso del vacuo e della morte, e della sublimazione tipica dannunziana, dove riecheggiano i testi medievali italiani della Laude di Jacopone da Todi o i Fioretti di San Francesco. La trama parla di un pastore, Olimondo, che come l'Aligi abruzzese, abbandona la fidanzata Novella in favore di una prostituta lebbrosa, Novella. Secondo la leggenda, la donna per guarire deve usare il sangue di una creatura innocente, così il pastore non esista a sacrificare, quasi rifacendosi alla Medea euripidea che uccide il fratellino Absirto, la sorellina Gaietta. In scena sopraggiunge un mistico Pellegrino che risucita Gaietta, converte la lussuria dell'amante di Olimondo, facendola guarire anche dal morbo, e invita tutti a seguirlo in un viaggio in Terra Santa. La cosiddetta "crociata degli innocenti", in riferimento biblico, è composta da navi di bambini che solcano il mare, che però cadono in preda di venditori di carne umana, che vogliono venderli come schiavi.

Nel naufragio muoiono Novella e Gaetta, le parole di Olimondo tradiscono una sua non completa purificazione spirituale dagli impulsi erotici, forse questo sarebbe il motivo dello scontro e del naufragio. Come nella successiva tragedia del Martirio di San Sebastiano, il misticismo estenua qua e là un soave musica il tema erotico.



La Fedra (1909)

 Realizzata tra il 1908 e il 1909, D'Annunzio concepisce l'unico vero omaggio al teatro tragico greco, riprendendo il mito dell'eroina Fedra presente nell’Ippolito euripideo, anche se alla rappresentazione alla Scala di Milano l'opera fu un fiasco. La musa ispiratrice pare fosse Nathalie de Golouleff, detta Donatella Cross, e pubblicata anche in versione francese. Il testo, nonostante una ripresa romana al Teatro Argentina il 25 maggio 1909 ad opera della compagnia di Ippolito Pizzetti, non fu più riproposta.

La Fedra è una ricerca letteraria del sublime, D'Annunzio intendeva scardinare il mito la cui storia era già bella e scritta, come nel testo di Euripide o di Seneca, per riscrivere la storia sotto un altro punto di vista, sicuramente privilegiò il superomismo, dato che lo stesso mito lascia intendere come Fedra sia una fèmme fatale che porterà Ippolito alla rovina, dopo aver giaciuto in maniera incestuosa con il sovrano di Atene Teseo, colui che tornò sano e salvo dal labirinto di Creta combattendo contro il Minotauro. La Fedra dannunziana sublima il concetto del destino nella tragedia classica, si percepisce il senso del sublime del trattatello di Longino, si respira in un certo senso l'epicità della tragedia antica.

Quanto all'amalgamazione della sfera psicologica della protagonista, D'Annunzio si allinea con la versione di Seneca, in cui al contrario dei concetti essenziali della tragedia greca, la Fedra senecana e dannunziana dimostra di non conoscere il proprio destino, di non sapere in che modoe perché sta agendo, non conosce il volere degli Dei, e dunque agisce come posseduta da una forza misteriosa e maligna, quasi da muovere il pubblico a pietà per i suoi errori nella vicenda, come fosse una eroina martire cristiana, imparentata con la Fedra del mito pagano euripideo.



Più che l'amore - La Nave (1906-1908)

La prima è una tragedia in due atti in prosa, rappresentata nel 1906 dallo Zacconi; il protagonista è Corrado Berando, l'eroe che vorrebbe essere esploratore, e non avendo i soldi necessari, diventa un assassino. Il tema è la smania polemica di scandalizzare con la superumana ideologia; il protagonista è disposto a tutto pur di raggiungere il suo scopo, e abbandona la sua amante incinta, alla fine Corrado riuscirà a viaggiare, arrivando in Africa dove si sta combattendo per la conquista di nuovi territori coloniali.

Tale sentimento patriottico di colonizzare nuovi territori, tornerà nel 1936 con l'orazione dannunziana Teneo te, Africa.

La seconda tragedia è in 3 episodi più un prologo in versi. Il superuomo Marco Gratico è contrapposto alla superfemmina Basiliola Faledra, che ricorda la Pantea del Sogno d'un tramonto d'autunno, o la Comnena della Gloria. Basiliola è assetata di vendetta per il padre e i quattro fratelli che Marco accecò, e dispone del suo potere lussurioso per ingannarlo, divenendo anche amante di suo fratello, il vescovo Sergio; alla fine lei li aizza uno contro l'altro, sicché nella lotta Sergio morirà. Marco è disperato, e decide di compiere un viaggio in mare, alla ricerca di un'impresa eroica espiatrice, mentre Basiliola sembra risentire dell'influsso di Mila di Codro, uccidendosi gettandosi nel fuoco.

D'Annunzio appare piuttosto vacuo nella descrizione delle parti, soprattutto nella ricerca di unire la figura di Basiliola con le divinità e le figure bibliche di Bibli, Mirra, Pasife, Dalila, Iezabel, al fine di gonfiare l'immaginazione di donna mostruosa quale è la superfemmina. L'impresa per mare di Marco sembra essere un ulteriore richiamo allo spirito patriottico italiano di colonialismo africano.



La fiaccola sotto il moggio (1905)

 La seconda opera drammaturgica del ciclo abruzzese ha ambientazione ad Anversa degli Abruzzi, sede della nobile famiglia dei Sangro. D'Annunzio visitò il vecchio castello con il filologo sulmonese Antonio De Nino nel 1896 per poter costruire la storia, e il risultato fu un compendio del superomismo dannunziano con la leggenda popolare abruzzese tradizionale del malocchio. La nobile famiglia dei Sangro vive in condizioni misere nei resti del castello medievale. La baronessina è osteggiata dal severo padre, che ha ucciso la madre per poter vivere in perdizione con una fattucchiera di Luco dei Marsi. Disperata, la ragazza si fa consigliare da un "serparo" (termine dei cacciatori di serpenti locali, che celebrano una festa cristiano-pagana) di evocare con una fiaccola lo spirito della madre. Il suo sacrificio farà andare in cielo la ragazza, e farà crollare definitivamente il vecchio mastio, simbolo di decadenza e corruzione, con tutti i nobili della famiglia, ormai in preda alla pazzia.



La figlia di Iorio (1904)

 Il primo successo vero di d'Annunzio nella drammaturgia teatrale avviene con il ritorno alle origini abruzzesi. D'Annunzio infatti nell'opera descrive situazioni di cui è pienamente conoscitore e cesellatore, del tutto sconosciute al grande pubblico italiano, come appunto le vicende dell'Abruzzo.

Alda Borelli in una rappresentazione del 1910 della Figlia di Iorio

Il figlio di Lazzaro di Roio del Sangro sta per sposarsi, presso Taranta Peligna, quando improvvisamente nel clima di pace irrompe una ragazza, Mila di Codro, ritenuta strega. Il ragazzo immediatamente se ne innamora, e decide di isolarsi dalla comunità peligna, fuggendo nella grotta del Cavallone. Lazzaro si innamora anch'esso, ma suo figlio, nella follia, lo uccide, recandosi poi a Roma per chiedere l'indulgenza al papa. Ma i paesani nel frattempo rapiscono Mila e la bruciano come strega. Ciò che colpisce di più della tragedia e la sensazione di pace e calma apparente, espressa dalla gioiosità popolare dei personaggi minori dell'opera, formata da canti in dialetto e scene di profonda fede cattolica, mischiata alle tradizioni pagane che corrono attorno alla "grotta".

Francesca da Rimini (1902)

 Tragedia in 5 atti in versi, che riprende le vicende tristi di Francesca da Polenta e Paolo Malatesta, citata già da Dante Alighieri nella Divina Commedia; l'opera fu rappresentata dalla Duse nel 1901. La tragedia fu scritta per avere un sottofondo musicale: si parla dell'amore "galeotto" tra Paolo e Francesca, con l'aggiunta del matrimonio forzato di Francesco con Gianciotto Malatesta, avvenuto per procura, per cui d'Annunzio ttinse alla testimonianza di Boccaccio. L'atto IV fu molto lodato dalla critica, il maligno Gianciotto, qui chiamato "Malatestino" ordisce la trama in cui cadranno i due amanti, che verranno colti in flagrante nella loro manifestazione d'amore, e verranno assassinati.

Lodato fu anche l'amoroso languore interiore di Francesca, che pare risenta delle odi iniziali delle "Città del Silenzio" in Elettra (1903), D'Annunzio canta molto bene la voluttuosa malinconia del presentimento d'amore adulterino, nel colloqui tra lei e la sorella nell'atto I, nei colloqui iniziali con Paolo, negli atti II-III. Il colloquio dell'atto V è meno potente degli altri, il tema d'amore non è più sostenuto dallo struggimento della malinconia, scivola invece nel tono enfatico e celebrativo. D'Annunzio intese ricostruire anche modi di vivere e scenografie del pieno XIII secolo, concetti che però, soprattutto nelle descrizioni della scena, risultano leziosi, tipici di quel movimento di revival del neogotico che andava in voga alla fine dell'800.

Nel 1912 la tragedia venne musicata e ridotta da Tito Zandonai.




La Gioconda - La Gloria (1898-99)

 La prima è una tragedia in 4 atti, rappresentata nel 1899 dalla Duse ed Ermete Zacconi. Nella storia, come nella Città morta, il protagonista è un artista scultore, Lucio Settala, incerto tra la pietà per la moglie Silvia, e l'amore per la sua modella Gioconda Dianti. Alla fine, intendendo realizzare sé stesso al di là dai vincoli della legge coniugale per lui limitata, Lucio commette adulterio; la moglie Silvia non lo sa, e un giorno assiste a una lite tra i due, la Gioconda getta per terra una statua, sentendosi abbandonata, e Silvia nel tentativo di salvarla si mutila le mani.

Nella tragedia traspare il forte senso del superuomo, anche se pare assumere delle debolezze in questo contesto, pare che il suicidio sia l'unica maniera possibile per risolvere il contrasto del protagonista, la Gioconda proclama la sua superiorità al di là del bene e del male, mostrandosi come la classica fèmme fatale, mentre Silvia incarna la moglie fedele e la vittima sacrificare della tragedia per scatenare il processo di catarsi. Sembra ripetere lo schema della Giuliana in L'innocente, in Anna ne La città morta, insomma è un tema che si ripete, in maniera decisamente stanca. L'unica parte originale della tragedia è la canzonetta in poesia del personaggio della Sirenetta, che rievoca in parte le scene dell'Alcyone (1903) e del Sogno d'un mattino di primavera.

L'opera fu pubblicata nel 1903 da D'Annunzio in Francia insieme a "La Gloria - La città morta", come a comporre una sorta di trilogia.

Nella Gloria, tragedia in 5 atti rappresentata da Eleonora Duse e da Ermete Zacconi, D'Annunzio intende glorificare il mito del Superuomo, ma risulta per glorificare la Superfemmina sua compagna: Ruggero Flamma combatte per il potere a Roma contro un dominatore già anziano, Cesare Bronte, al quale riesce a strappare il potere mediante l'adulterio con l'amante Comnèna. Costei è rappresentata come una donna insaziabile di potere e di desiderio, si impadronisce della mente di Ruggero, sino a ucciderlo e darne il cadavere in pasto alla folla ribelle, quando arriva il momento di scegliere tra la politica, l'amore e l'esilio. Le velleità politiche che riguardano la tragedia sembrano essere desunte dalla storia de Le vergini delle rocce (1895).

L'opera non il successo sperato, e fu pubblicata in Francia nel 1903 insieme a "La Gioconda - La città morta" con il titolo Le victoires mutilées.