lunedì 7 settembre 2020

La madre di Gabriele D'annunzio Luisa De Benedictis

  Luisa De Benedictis nasce ad Ortona a Mare ( CH ) nel 1839. A venti anni conosce Francesco Paolo Rapagnetta – d'Annunzio che sposa il 3 maggio 1858 con nozze fastose che le permettono di entrare nella nuova casa di Corso Manthonè con tutti gli onori.

L'amore di Gabriele d'Annunzio per la madre fu di ispirazione filiale ed estetica; meglio di qualunque commento parlano le commosse pagine che d'Annunzio scrive per lei: dall' Inno alla madre mortale(Laus vitae) a Consolazione(Poema Paradisiaco), dalle pagine del Notturno a quelle delle Faviglie del maglio del Libro segreto, del Libro ascetico della giovane Italia. Basti citare un brano da Il secondo amante di Lucrezia Buti in Le faville del maglio:
"Colei che quasi ogni notte si levava per un'ansia subitanea e veniva nella mia stanza e indagava il mio sonno e mi poneva una mano sul cuore e si chinava a bevermi l'alito e sentiva in sè che la vita era bella perchè il figlio viveva".

Poesie e prose testimoniano come l'amore di Gabriele per la madre non solo non subì diminuzioni col passare degli anni ma andò crescendo fino a divenire un vero e proprio culto, perchè se “Donna Luisetta” (come veniva chiamata a Pescara) fu per il figlio la cretura che più colpiva l'innata bontà del suo cuore, fu anche la grande e silenziosa ispiratrice della sua opera.

“Donna Luisetta” muore il 27 Gennaio 1917 nella sua casa a Pescara: la sua morte viene comunicata da un messo del Generale Cadorna al Poeta che febbricitante scende a Pescara per partecipare ai solenni funerali in divisa da capitano. La salma viene prima sepolta al cimitero di S.Silvestro e sulla tomba viene posta una croce fatta con due assi di legno di un peschereccio. In seguito, il 28/8/1949, viene traslata nell'Arca scolpita da Arrigo Minerbi all'interno della Cappella situata nel braccio sinistro del transetto della nuova Chiesa di S. Cetteo-Tempio della Conciliazione.




Gabriele D’Annunzio: “lettere d’amore” a Barbara Leoni

 Non si può dire che Gabriele D’Annunzio abbia creduto che l’amore potesse racchiudersi e declinare con una sola donna.

Nel “Libro segreto”, opera scritta prima di morire, il Vate, recisamente, asseriva:
“La fedeltà ha il suono scenico delle false catene, chi mostra di trascinarle ben sa come siano più lubriche di quelle pastoie che illasciviscono certe danze malesi. Alludo agli amanti fedeli: genia inesistente, non v’è coppia fedele per amore. Io sono infedele per amore, anzi per arte d’amore quando amo a morte”.

In realtà sono tanti gli amori di Gabriele D’Annunzio, ma, contrariamente a quanto si creda nell’immaginario collettivo, quello che ha lasciato il segno nel poeta abruzzese non è stata la relazione con l’attrice Eleonora Duse, bensì quella con Barbara Leoni. Tale asserzione è suggerita dal fatto che proprio durante il tempo di cinque anni dell’intesa con la bella romana sono venute alla luce le opere più famose di Gabriele D’Annunzio: il Piacere, il Trionfo della morte, L’Innocente, Le Elegie Romane. E’ ben noto tra l’altro che Barbara Leoni non volle restituire le lettere che Gabriele D’Annunzio le scriveva (se ne contano più di 1000): sta di fatto che quelle pervenute si ritrovano disseminate nel “Trionfo della morte”, sino ad identificare la protagonista Ippolita Sanzio, proprio con Barbarella, come amava chiamare il Vate la Leoni.

Fu Mauro Guabello che diede notizia dell’esistenza di un vasto carteggio tra Gabriele D’Annunzio ed un suo “grande amore”.

Prima che venisse edito il “Libro segreto” (1935) Guabello aveva acquistato il carteggio  da tal Salviati, che aveva vissuto negli ultimi anni con Barbara Leoni.

Sia come sia- scrive un grande studioso di Gabriele D’Annunzio Federico Roncoroni– l’effetto congiunto della pubblicazione del passo del “Libro segreto” e della prima notizia di Guabello fu l’inizio della fortuna di Barbarella. Tutti che a mano a mano  la conoscevano si innamoravano di lei. Succedeva, per un fenomeno che ovviamente è più umano e sentimentale che critico: tutta la simpatia dello studioso, come quella del curioso di cose dannunziane, va a lei, a Barbara, alla bella romana, più ad ogni altra delle numerose donne dannunziane, tutte per qualche verso poco simpatiche e poco umane”( Lettere d’amore a Barbara Leoni  Corriere della sera-Introduzione a cura di Federico Roncaroni).

 

L’incontro con Elvira Natalia Fraternali, maritata Leoni che Gabriele D’Annunzio chiamerà Barbara, Barbarella, Ippolita, Miranda, Jessica e Gorgona, avvenne il 2 aprile 1887 a Roma in via Margutta al Circolo Artistico, durante un concerto di musica classica., in un periodo molto triste per il poeta, con la vena poco feconda.

 

Scrive Piero Chiara: “L’incontro fu folgorante: si misero in moto i meccanismi ispirativi del poeta che sembrava aver bisogno di una forte eccitazione amorosa, per accogliere e sviluppare i nuovi temi narrativi e le nuove forme poetiche che si dispiegarono poi nel romanzo Trionfo della morte e nelle Elegie romane, destinate a segnare il suo felice ritorno alla poesia.

 

Le trasfigurazioni romanzesche del Piacere e del Trionfo della morte, provano l’importanza non soltanto sentimentale di questo amore, che i biografi ritengono il più importante del poeta. Barbarella era, certo anche a guardarne oggi l’immagine, bella e provocante all’eccesso.

 

Dotata di viva sensibilità poetica e di una piacevole vena di follia, si prestò ai giochi erotici del suo amante, rievocati nelle lettere che si scambiarono. In un clima pregno di sesso e di prezioso intellettualismo Gabriel (come si faceva chiamare) si sente un super maschio o almeno si dipinge come tale, ma sarà Barbara, sua ispiratrice e musa, a fargli sentire i primi sussulti del superuomo che sta nascendo in lui (Piero Chiara Vita di Gabriele D’Annunzio-  Oscar Mondadori capitolo VII pagine 57 e 58).

 

La relazione fra i due amanti ha come scenario non solo Roma, ma anche Venezia, Napoli, dove il poeta soggiornò per due anni.

Le lettere sono bellissime e dimostrano un poeta già maturo, almeno per la ricerca del sentimento, la sua descrizione; sono profondamente originali anche nella stessa struttura lessicale, giammai ripetitiva. I critici sostengono che molti passaggi sino stati poi trasfusi nelle opere che hanno fatto grande il D’Annunzio.

Così scrive Giordano Bruni Guerri: ”Le tracce di Barbara nella produzione letteraria di Gabriele d’Annunzio dimostrano che fu una passione trascinante ed ispiratrice quant’altre mai prima. Dal Trionfo della morte alle Elegie Romane fino al Libro Segreto, Barbara è sempre presente o protagonista. Nel Trionfo della morte vengono inseriti interi brani del loro ricchissimo epistolario….aveva nei modi una vena eccentrica di poesia, che un talento brillante sapeva enfatizzare e rendere seducente. Aveva studiato al Conservatorio di Milano ed era una brava pianista: tutte doti che insieme ad un innato intuito femminile, la rendevano preda e cacciatrice ideale di Gabriele D’Annunzio, che amava la musica, di un amore pieno e mai tradito.

Gabriele D’Annunzio se ne invaghì al punto da non fare nulla per celare la relazione a sua moglie Maria, oramai rassegnata. Si incontravano tutti i giorni, ora nello studio del pittore Guido Boggiani, ora negli eleganti appartamenti di Francesco Paolo Tosti, in via dei Prefetti, prima di trovare danaro per una garconierre.

Ha tre mesi più di lui ed alle spalle un matrimonio fallito con Ercole Leoni, un conte bolognese impegnato in ditte commerciali, che di tanto in tanto si fa vedere per reclamare i diritti coniugali. Le uniche tracce della sua presenza sono quelle lasciate sulla pelle della donna dai rapporti sessuali.” Risparmiami la vista delle tue lividure. Io non so pensarci senza raccapriccio”, le scrive Gabriele D’Annunzio.

Il Vate si sente innamorato, condizione che a dargli credito vive con ogni donna. Eppure stavolta sembra crederci anche lui. E’ incantato dal suo pallore e dalla sua magrezza, che la fanno sembrare sempre convalescente…Gli occhi, le ciglia, la bocca- dove si concentrano le attenzioni del D’Annunzio-le conferiscono un’aria provocante. In più è capace, all’occasione, di diventare un’interprete fedele delle trasgressioni erotiche suggerite dall’amante.

Gabriele D’Annunzio viene sollecitato nelle sue fantasie da un pettegolezzo molto diffuso sulla malattia sessuale che il marito le avrebbe trasmesso, rendendola sterile e con un’aria esangue. Una predilezione morbosa per le egritudini che avrà anche verso altre donne.
(Giordano Bruno Guerri, Oscar Mondadori, D’Annunzio L’amante Guerriero passim da pagina 59-65).

 

Roma Lunedì notte 8/9 agosto 1887

“È notte alta. Io sono solo in questa stanza: il palazzo Barberini è illuminato misteriosamente dalla luna che nasce; il mio letto, la’ in fondo, è tutto bianco, così largo che potrebbe accogliere anche il tuo corpo….Se tu venissi! Io ti dicevo che il desiderio del tuo corpo si fa in me ogni giorno più ardente e più torturante. Le immagini del piacere mi incalzano da tutte le parti. E’ una febbre. Se bene io stia stanco e triste, al sol pensiero che io potrei possederti e stringerti ignuda come una volta, sento un brivido profondo corrermi nelle vene ed una strana vitalità d’amore corrermi nei muscoli ed agitarmi. E’ una notte tentatrice. La mia stessa languidezza mi fa più voluttuoso ed il desiderio di dimenticare il dolore e la miseria reale mi fa avido di piaceri sensuali…..

 

La fontana del giardino Barberini canta più dolce di un usignolo in un bosco di rose all’alba prima. Tu dove sei? Non senti l’immensa angoscia che mi opprime? Non senti il mio desiderio che attraversa gli spazi infiniti e viene a cercarti ed infiammarti l’anima nel sonno? Come ti amo Barbara! E come questo mio dolore è al di sopra delle forze umane!
Sento una specie di soffocazione. Mi pare quasi che io non debba giungere all’alba.

Aiutami! Aiutami tu!

Pescara 11 luglio 1888.

“Ieri sera tornando da Francavilla trovai la tua lettera, grazie. Ogni parola mi bruciava l’anima. Uscii, dopo e camminai lungo il mare, per molto tempo. Non mai, io penso, l’anima di un uomo ha cercato con maggior furia di passione, d’ardore e di desiderio un’altra anima. La notte, il mare infinito, tutto il mondo degli astri e del silenzio mi pareva angusto a contenere quella terribile espansione d’amore umano.

Le stelle scintillavano di un fulgore singolare. E le acque si muovevano a pena, con dolcezza. Dove eri?

Che pensavi? I ricordi non ti soffocano? Addio amami. Io ti amo; mi sento così male che non reggo più; io darei, per averti, il miglior sangue del mio cuore”.

Francavilla al Mare, Venerdì 13 luglio 1888.

“Sono a Francavilla, ieri, nel pomeriggio arrivarono finalmente le casse! Nella prima cassa grande, in quella dei tappeti, la cosa che apparve innanzi a tutto fu il “cuscino delle carezze”, il cuscino sbiadito, senza oro, che ha sostenuto il tuo capo nelle più ardenti, nelle più folli, nelle più indimenticabili ore della voluttà. Mi tremavano le mani quando lo presi. E vi affondai la faccia, con una bramosia immensa, come per cercarvi qualche cosa di te, qualche cosa della tua bellezza, qualche cosa del piacere che tu mi davi….

Passerò tutto il giorno con le belle cose che tu hai amate e affatate. Sentirai oggi, certo, più violento il mio desiderio ed il mio pensiero”.

Pescara-Martedì 11 febbraio 1890 ore 5 pomeriggio.

 

…”Ora nevica, con un gran vento, a turbini….Tu hai l’anima vasta e scintillante, come un firmamento; io so che tu sei la più nobile delle creature, la più coraggiosa, la più generosa, la più forte, la più soave.

Quando io ti bacio le dita, sento che la parte migliore di me ti si presta con entusiasmo e con reverenza. Io non posso baciarti le mani (forse tu lo sai) senza sentirmi inumidire gli occhi. Un grande sentimento di ammirazione e di adorazione si impadronisce di me, quando penso all’anima straordinaria che si chiude nel tuo corpo voluttuoso. Perciò le voluttà che io prendo da te hanno un sapore profondo, una ripercussione spirituale…

Nessuna cosa bassa può entrare nel nostro amore. La tua fiamma accende e divinizza tutti i desideri.

Tu sei l’Amante unica, l’Amante eterna, quella che tiene in signoria un’anima per tutta la vita. Per tutta la vita io ti amerò, ti adorerò…..

Pensa a questo, quando ti assale il disgusto delle vili cose umane….

Io (ascolta) darei tutti i tesori per essere il tuo tesoro….

Il tuo solo alito(intendi?) è bastato a ristorarmi. In tutti i peggiori supplizi, quando lo spirito agonizzava, una voce alta squillante mi diceva:” ella ti bacerà; ella ti serba i suoi più dolci baci, le sue carezze più care. Attendi!”. E un brivido mi correva le vene, al presentimento degli oblii divini”.

 

 

Roma 4.08.1890

“….Mi hanno riarso le fiamme più atroci della passione, con una violenza non mai sofferta. Ho sentito la mia ragione perdersi e la mia conoscenza ed il mio sangue oscurarsi a poco a poco. Ho singhiozzato, ho gridato; ho soffocato gli scoppi del mio dolore sul guanciale dove tu appoggiavi la testa, languendo di passione, pallida di voluttà e di tristezza. Mi sono inginocchiato dinanzi al divano, dove tu rimanevi taciturna accarezzandomi la fronte pensierosa….

Sono rimasto lunghe ore chiuso in questa stanza, senza uscirne mai, senza vedere nessuno mai, esaltandomi nella solitudine, provando improvvisi bisogni di fuggire all’aperto, eppure tenuto qui da un fascino ineluttabile.

Oh, se potessi raccontarti tutto!

Immagina- stare qui, respirare qui, in questa stanza, dove tu portavi, apparendo, tutti i raggi e tutti i profumi; stare qui solo, solo innanzi al letto, dove ti ho posseduta mille volte, con un godimento sempre più intenso; rivedere, rivedere con gli occhi dell’anima tutti i tuoi gesti, tutte le tue attitudini, tutti gli incanti della tua bellezza; sentirsi soffocare, ad ogni ricordo evocato e non poter far altro che mordere il guanciale freddo e bagnarlo di lacrime disperate….

Quando entrava nella mia casa la giovane donna, l’Adorata, quella che il mio cuore ha scelto per tutta la vita che erano allora le tristezze? La sua presenza era il grande aroma ristoratore. La mia anima beveva da lei tutte le ebrezze e tutti gli oblii. Il suono del suo passo metteva nelle intime vene un fremito di delizia infinito.

Quando ella usciva la mia anima la seguiva come un’ombra indivisibile.
Quando ella tremava, sotto la mia carezza leggera, io sentivo tutto il mio essere fondersi nel suo, struggersi in una morte ineffabile.
Ella mi rivelava, in un bacio, mondi sconosciuti.

Sotto la sua mano si risvegliavano fibre misteriose… quando entrava alta, pallida, velata entrava il mio sogno, il fiore dell’anima, il mio miracolo d’amore”.

 

 

 

Faenza 6 settembre 1890

 

“……Tutta la tua pelle è un velluto odorante; ciascuno dei tuoi pori diventa quasi una piccola bocca che rende i baci; ogni tuo moto suscita un’onda di voluttà smisurata; e dai tuoi occhi, di sotto alle pupille un po’ gravi, fluisce non so quale carezza, immateriale, continua, inesauribile, dove l’anima mia si annega e si smarrisce e mille volte crede di morire”. Quando sei così……

 

Napoli,13 settembre 1891

“…..Muoio a poco a poco di accoramento. E non ho la forza né di allontanarmi, ne’ di cercare un oblio. Sento il tempo fuggire e la vita scorrere ed il mio tedio ed il mio dolore farsi più profondi ad ogni ora e te lontana lontana….

Dammi notizie della tua salute…. di tutto quello che mi piace del tuo corpo. E adorami.
E’ una sera calda, tutta chiara, mollissima. Davanti al mio balcone spalancato il Vesuvio fumiga, così da presso che quasi mi sembra tangibile. Napoli e Portici e Resina e tutti i villaggi sono rosei su un mare pallidissimo, dove corrono i battelli a sciami. Un grande sogno di piacere scende insieme col crepuscolo. Ti giuro sull’anima mia, Barbarella, che per averti consentirei a morir domani”.

Nel suo soggiorno napoletano Gabriele D’Annunzio conobbe molte donne, tra le quali primeggiava la principessa siciliana Maria Gravina Cruyllas. La descrivono i biografi come alta, slanciata, di rara eleganza e sposata con il conte Anguissola, con il quale aveva avuto due figli.  Vistosissima, anche a causa di una ciocca di capelli rossi tra la sua chioma nera, era corteggiatissima, anche dal futuro Vittorio Emanuele III.

Bellissima e slanciata aveva preso nel cuore del poeta il posto di Barbarella:  quest’ultima non fu consolata neppure dal fatto che il Vate le avrebbe promesso di portare con sé un feticcio pruriginoso, una ciocca di pelo pubico da custodire in una specie di reliquario e da ammirare come un talismano nei momenti  di abbandono e di accoramento.

Ebbe il più grave smacco non solo scoprendo la relazione con la nuova arrivata,ma per il fatto che il 10 aprile 1892, a cinque dalla sua relazione iniziata, il 2 aprile 1887( era scesa a Napoli per festeggiare) usci la prima copia dell’Innocente in volume con dedica  del D’Annunzio: ”alla contessa Maria Anguissola-Gravina Cruyllas di Rammacca-questo libro è dedicato”.

Con la Gravina Gabriele D’Annunzio andò a vivere in un paese limitrofo a Napoli Ottaviano, in un castello messo a sua disposizione dalla famiglia Cola. Dalla relazione ebbe anche un figlio; il marito della contessa, il conte Anguissola sporse querela per adulterio.

Drammatiche furono le ultime lettere con Barbara Leoni: si ricorda soprattutto quella nella quale il Poeta le reclamava tutte, intese come le sue reliquie sante :”non indugiare ti prego! Io sono risoluto a tutto, per riavere le reliquie sante: -anche a farmi uccidere (Napoli 10 dicembre 1891).

La Leoni non restituì le lettere del suo grande amore: furono vendute. Visse gli ultimi anni ospite di suore del Preziosissimo sangue, annesse al Conservatorio di Sant’Eufemia. Mori il 7 aprile 1949 ad ottantasei anni.

Oggi, dopo che fu evitato che i suoi resti andassero nell’ossario comune, riposa al numero 89, seconda fila, campo 69 nel cimitero del Verano, ricordata da una piccola lapide.

Il trionfo della morte (1894)

«...Quella catena di promontori e di golfi lunati dava l'immagine d'un proseguimento di offerte, poiché ciascun seno recava un tesoro cereale. Le ginestre spandevano per tutta la costa un manto aureo. Da ogni cespo saliva una nube densa di effluvio, come da un turibolo. L'aria respirata deliziava come un sorso d'elisir.»

(Gabriele d'Annunzio, da Il trionfo della morte, descrizione della Costa dei Trabocchi)


Il terzo libro della trilogia è di grande importanza, in quanto mostra l'avvicinamento dannunziano al filosofo Friedrich Nietzsche, e al tema del "superomismo", di cui d'Annunzio creerà una creatura "superomista" del tutto legata al carattere letterario e al decadentismo, ovviamente. Fu avviato nel 1889 dopo "Il piacere", col titolo provvisorio "L'invincibile", e pubblicato a parti sul giornale, poi interrotto. D'Annunzio dovette rielaborare le sue esperienze passate a San Vito Chietino (Abruzzo) sulla costa dei Trabocchi con l'amante Barbara Leoni, e soprattutto dovette leggere lo Zarathustra di Nietzsche per poter tornare a riprendere l'opera con più ardore, sino al completamento.

La vicenda è ambientata brevemente a Roma, durante una scena di suicidio, poi definitivamente in Abruzzo, inizialmente presso Guardiagrele (CH). Nel borgo montano giunge il nobile Giorgio Aurispa, qui lui ha le sue origini nobili, come dichiara descrivendo la lapide monumentale del duomo di Santa Maria Maggiore con gli altri stemmi nobiliari (anche se in realtà è una invenzione dannunziana). Aurispa è messo in crisi dalla visione della morte. La sua ricca famiglia è in decadenza, perché suo padre sta sperperando gli ultimi averi con prostitute, e il resto della famiglia vive in miseria. L'unica persona a cui Giorgio è affezionato è lo zio Demetrio, che però muore suicida, altro segnale cupo dell'incombenza della morte sul destino di Giorgio.


Giorgio, esasperato dalla dura vita di paese, e dalla orripilante presenza di superstizione di streghe e di malocchi, fugge a San Vito Chietino, al mare, affittando una villetta sul litorale dei cosiddetti "trabocchi", ossia macchine da pesca in legno assai popolari. Giorgio contatta anche la sua amata Ippolita Sanzio, pregandola di consolarlo venendo da Roma. Mentre Giorgio si tuffa nella lettura dello Zarathustra di Nietzsche, scoprendo un mondo nuovo, l'estetismo che in un certo senso aveva fallito nel tentativo di affermazione dei personaggi dannunziani sino ad allora, adesso con la filosofia del superomismo ha una uova forza vitale per affermarsi nella società dei miseri borghesi. Ippolita lo raggiunge si affascina alle superstizioni abruzzesi riguardo alla stregoneria e al malocchio, vedendo la morte di un bambino per affogamento e quella di un infante, che si dice essere stato risucchiato nell'anima da una maga.
Giorgio è disgustato, e sente la morte sempre più vicina,spera di redimersi dalla "maledizione della morte" andando in pellegrinaggio nella vicina Casalbordino, al santuario della Madonna dei Miracoli, ma vede soltanto uno spettacolo raccapricciante di infermi e moribondi che chiedono invano grazia alla Vergine. Altro riferimento a un'esperienza realmente vissuta dal D'Annunzio andando a Casalbordino.
Sconsolato, dato che la sua compagna di viaggio e di esperienze ora, con il fascino per la rozzezza delle superstizioni e dunque per il "tradimento" contro i suoi ideali da parte dell'amante Ippolita, Giorgio decide il suicidio con la fidanzata.

I temi del romanzo, oltre a confermare l'autorità del superuomo dannunziano esteta e poeta, mostrano anche l'aspetto debole di questa figura: un uomo acculturato che però vive in una società corrotta e dissoluta, ossia la borghesia italiana emergente, e la massificazione sociale con la costruzione delle fabbriche. La cosiddetta "fiumana del progresso" verghiana. L'esteta non può far altro che reagire con l'isolamento in un luogo sicuro, stando a contatto con la natura. Nel caso però del Trionfo della morte, Giorgio incontra la plebe orrorifica e gli aspetti "soprannaturali" delle leggende abruzzesi, che lo sconfiggono. Complice della sconfitta è la stessa amante del protagonista, che rimane attratta da tali pratiche superstiziose. Il libro è tratto da un fatto veramente vissuto dallo stesso d'Annunzio nel 1899 a San Vito, in presenza della sua amata Barbara Leoni. Oggi esiste ancora la villetta affittata dal poeta sul cosiddetto "eremo dannunziano" nel cuore della costa dei Trabocchi. Anche l'episodio macabro del pellegrinaggio a Casalbordino è minuziosamente documentato dal poeta nelle lettere inviate nell'estate dell'89 a Barbara a Roma.



L'innocente (1892)

 Il secondo romanzo della trilogia, mescola in un certo senso l'estetismo romano e il tema dell'evangelismo russo di Tolstoj e Dostoevskji.

D'Annunzio nel 1900 ca.

Tullio Hermil, ex diplomatico e ricco proprietario terriero, è da sette anni marito di Giuliana, dalla quale ha avuto due figlie. Uomo dai gusti raffinati e privo di moralità, ha un temperamento inquieto e sensuale e tradisce la moglie continuamente. Una grave malattia di Giuliana sembra riavvicinarlo a lei, ma è un'illusione. Quando poi, veramente pentito, Tullio torna da lei, deve apprendere che la donna lo ha tradito a sua volta e aspetta un figlio dallo scrittore Filippo Arborio; il protagonista comincia a nutrire odio verso "quel figlio non suo", sin da quando il bambino è ancora in grembo alla madre. Il nascituro viene visto dai due come un elemento di disturbo del loro improbabile amore. Ma la gravidanza è difficile e i coniugi sperano che il bimbo muoia prima di venire alla luce, oppure lo uccideranno loro stessi, sollevandosi da un grave problema. Venuto al mondo l'innocente, Giuliana si fa silenziosa complice del piano disumano del marito. Tullio, approfittando della breve assenza della governante, espone il bambino al gelo di una notte natalizia. Questo ovviamente si ammala e muore poco dopo, fra la disperazione dei parenti e dei servitori.


«Io credevo che per me potesse tradursi in realtà il sogno di tutti gli uomini intellettuali: - essere costantemente infedele a una donna costantemente fedele.»

(Gabriele D'AnnunzioL'innocente)




Il piacere (1889)

 Il primo romanzo dannunziano fu avviato nel 1886, inizialmente senza un progetto ben preciso; nelle lettere a Treves editore d'Annunzio parla di un primo titolo "I Pantaleonidi", e si proponeva di descrivere uno spaccato di vita sociale di Pescara; successivamente il progetto si incentrò sulle esperienze mondane del poeta nella capitale Umbertina, e per la prima parte, D'Annunzio rielaborò una novella scritta per la raccolta San Pantaleone, ossia il capitolo del "Distacco" tra Andrea e l'amante Elena, da cui sarebbe partito il lungo flashback della storia d'amore, sino a tornare al presente, nel capitolo conclusivo. Nelle lettere a Treves questa porzione del bozzetto è definita il "Frammento".

Infatti il racconto è ambientato tra Roma e Rovigliano (NA), dove il nobile dandy Andrea Sperelli, simbolo del poeta decadente per eccellenza, vive la forte passione per Elena Muti. Costei è ritenuta la fèmme fatale di tutta la storia, perché Elena non si farà mai conquistare, benché Andrea faccia di tutto per lei. Dopo essere stato abbandonato da Elena, che doveva risolvere il problema dei suoi debiti mediante un matrimonio con un ricchissimo nobiluomo inglese, dopo un conflitto a duello con Giannetto Rutolo, amante di una nobildonna di cui si è invaghito, Ippolita Albonico, Andrea viene ferito, è in convalescenza a Rovigliano, nella bellissima villa Schifanoia di proprietà di una sua cugina, dove conosce una carissima amica di lei, Maria Ferres, di cui si appassiona nella speranza di dimenticare Elena Muti. Tuttavia questo ignobile tentativo egoista, incurante dell'amore di Maria, pieno dei rimorsi di una donna sposata e madre di una bambina, non andrà a buon fine, giungendo alla tragedia della memorabile e significativa scena in cui Andrea, durante un abbraccio ardente con Maria, grida il nome di Elena.

Nel Piacere è ravvisabile una fitta rete di rimandi a vari modelli letterari e artistici, legati sia all'ambiente romano in cui il poeta era inserito, sia alla lettura di autori a lui contemporanei, per lo più francesi. Parigi fu, negli anni della Terza Repubblica e fino allo scoppio della prima guerra mondiale, la capitale culturale d'Europa, la città in cui vennero elaborati i modelli, gli atteggiamenti, i programmi dei principali movimenti culturali, il luogo di attrazione di tutti gli artisti e scrittori europei.D'Annunzio utilizzò il suo impiego giornalistico alla "Tribuna" di Roma per esplorare e assimilare i nuovi modelli letterari francesi ed europei in generale, attraverso il continuo rapporto con altri intellettuali e scrittori. Alle sue influenze precedenti, che comprendevano Charles BaudelaireThéophile Gautier, l'estetica preraffaellita elaborata dai critici del giornale Cronaca bizantina, e Goethe, si aggiunsero dunque quelle provenienti dalla nuova fonte di ispirazione francese, come Gustave FlaubertGuy de MaupassantÉmile Zola, ma anche Percy Bysshe ShelleyOscar Wilde e forse la lettura di À rebours di Joris Karl Huysmans.


Di grande importanza sono poi gli influssi dell'ambiente romano. D'Annunzio giunse nella capitale nel 1881, e i dieci anni che vi trascorse furono decisivi per la formazione del suo stile: nel rapporto con l'ambiente culturale e mondano della città si formò il nucleo della sua visione del mondo. Centrale fu in particolare la sua collaborazione alla rivista Cronaca Bizantina, di proprietà dello spregiudicato editore Angelo Sommaruga, il primo a pubblicare libri del giovane poeta. La rivista, che aveva una linea editoriale orientata alle concezioni letterarie moderne in voga allora (tanto da parlare di una «Roma bizantina») e di cui lo stesso D'Annunzio fu direttore per breve tempo nel 1885, ospitava rubriche di letteratura firmate da importanti artisti e scrittori inseriti nell'ambiente giornalistico, tra cui spiccano Edoardo ScarfoglioUgo FleresGiulio Salvadori e altri. Sempre a questi anni risale l'amicizia con il musicista Francesco Paolo Tosti e il pittore Francesco Paolo Michetti. Inoltre, D'Annunzio fu collaboratore di molte altre testate romane, e dal 1884 al 1888 scrisse di arte e di cronaca mondana per il quotidiano La Tribuna, firmando con vari pseudonimi e occupandosi di mostre d‘arte, ricevimenti aristocratici e aste d'antiquariato. Attraverso questa intensissima attività D'Annunzio si costruì un personale e inesauribile archivio di stili e registri di scrittura, da cui attinse poi per le sue opere di narrativa. In questo rito di iniziazione letteraria egli mise rapidamente "a fuoco" il proprio mondo di riferimento culturale, nel quale si immedesimò fino a trasfondervi tutte le sue energie creative ed emotive, condannandosi così per molti anni ad accumulare debiti e a fuggire dai creditori. Si può quindi parlare, tanto nelle opere quanto nella vita di D'Annunzio, di una idealizzazione del mondo, che viene ad essere circoscritto nella dimensione del mito. La sua fantasia lottò prepotentemente per imporre sulla realtà del presente, vissuto con disprezzo, i valori alti ed eterni di un passato visto come modello di vita e di bellezza.



Valore assoluto del Piacere è l'arte, la quale rappresenta per Andrea Sperelli un programma estetico e un modello di vita, a cui subordina tutto il resto, giungendo alla corruzione fisica e morale (è il tipico dandy, formatosi nell'alta cultura e votato all'edonismo). È, insomma, la realizzazione di un'elevazione sociale e di quel processo psicologico che affina i sensi e le sensazioni:

«bisogna fare la propria vita come si fa un'opera d'arte. La superiorità vera è tutta qui. . La volontà aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Codesto senso estetico  gli manteneva nello spirito un certo equilibrio.  Gli uomini che vivono nella Bellezza,  che conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezione della Bellezza è l'asse del loro essere interiore, intorno a cui tutte le loro passioni ruotano.»

(G. D'Annunzio, Il piacere, libro II, cap. II)

Dopo la convalescenza, successiva alla ferita procuratasi a causa del duello con Giannetto Rutolo, Andrea scopre che l'unico amore possibile è quello dell'arte,

«l'Amante fedele, sempre giovine mortale; eccola Fonte della gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa agli eletti; ecco il prezioso Alimento che fa l'uomo simile a un dio.»

(G. D'Annunzio, Il piacere, libro II, cap. I)

Questa attrazione per l'arte viene rappresentata dall'inclinazione di Andrea verso la poesia, che

«può rendere i minimi moti del sentimento  può definire l'indefinibile e dire l'ineffabile; può abbracciare l'illimitato e penetrare l'abisso; può inebriare come un vino, rapire come un'estasi; può raggiungere infine l'Assoluto.»

(G. D'Annunzio, Il piacere, libro II, cap. I)

Il culto «profondo e appassionato dell'arte» diventa per Andrea l'unica ragione di vita, tirato in gioco anche nei rapporti con Elena Muti e Donna Maria Ferres, perché egli è convinto che la sensibilità artistica illumini i sensi e colga nelle apparenze le linee invisibili, percepisca l'impercettibile, indovini i pensieri nascosti della natura. Senza dubbio, «i miraggi erotici, tutte le insane orge dei sensi si fondano su una profonda corruzione del sentimento.  L'arte si dissolve nella minuziosità di un estetismo individualmente raffinato, si limita alla forma e non penetra la sostanza» (appunto di lettura del Michelstaedter sul Piacere). Tuttavia, messe da parte l'autosuggestione decadente e la tendenza alla spettacolarizzazione di D'Annunzio, l'accostamento tra arte e bellezza, arte e vita è una risposta, energica ed eloquente, verso la massificazione dell'arte e la mercificazione del letterato e della letteratura. Il Piacere è l'agonia dell'ideale aristocratico di bellezza. Racconta la vacuità e la decadenza della società aristocratica, infettata dall'edonismo, vicina al proprio annichilimento morale, poiché il valore del profitto ha sostituito quella della bellezza. Emblematica è la fine del romanzo: Andrea, vinto, disfatte le proprie avventure amorose, vaga per le antiche stanze del palazzo del ministro del Guatemala, disabitato, in rovina, il cui arredamento è stato venduto all'asta.



Le novelle della Pescara (1902)

 L'antologia è una rielaborazione definitiva delle precedenti raccolte de Terra vergine - Il libro delle vergini - San Pantaleone, in gran parte quest'ultima compone le novelle. Fu pubblicato da Treves editore nel 1902, successivamente il copyright passò a Mondadori editore. Come nelle precedenti, d'Annunzio rielabora stilisticamente le novelle, creando un Abruzzo naturalistico e selvaggio, composto da istinti primordiali per quanto concerne la caratterizzazione della massa, ed estrema decadenza morale per la descrizione delle classi medie e nobili. Il progetto come gli altri si ispira alla Vita dei campi di Giovanni Verga e al naturalismo; anche se d'Annunzio prende delle distanze per inserimento dei dialoghi in dialetto e usa una descrizione composta da stile elevato, anziché usare la tecnica della "forma inerente al soggetto".

Le storie narrano scene di vita della popolazione di una Pescara ancora provinciale, ridotta a semplice villaggio di mare, in rivalità con il comune vicino di Castellammare Adriatico, come dimostra la novella La guerra del ponte; i personaggi principali sono i cafoni abruzzesi in lotta con il destino e con il loro istinto primordiale quasi animalesco di rapportarsi con la realtà e con il prossimo, spesso accecato e deviato da superstizioni e interpretazioni religiose troppo estremiste, come i casi de La vergine Orsola, la novella aprente, ripresa dalla novella iniziale de "Il libro delle vergini", e Gli idolatri, il tema centrale della raccolta San Pantaleone, con la descrizione della scena di estremismo religioso al limite del fanatismo per la venerazione del busto di San Pantaleone nella chiesa di Miglianico.


San Pantaleone (1886)

 Nel San Pantaleone, d'Annunzio tratteggia bozzetti di società più variegati, infatti quasi tutti verranno ripresi, con poche correzioni stilistiche, nel volume finale delle Novelle della Pescara; il panorama rimane sempre l'entroterra abruzzese attorno a Pescara. Si narra di nobili decaduti e di mezzadri che vedono la loro proprietà andare in fumo a causa delle rivolte contadine. Tra le novelle più note, c'è quella ambientata nel santuario di Miglianico, vicino Pescara, dove un fanatico credente si taglia la mano in onore di San Pantaleone.

Nonostante il prodotto dannunziano, se si considerano le Novelle come rielaborazione di opere originali già scritte, sia il meglio riuscito della stagione di prose letterarie che reinterpretano il tema verghiano del naturalismo; D'Annunzio non riesce completamente a raggiungere gli obiettivi di Verga, giacché la sua prosa, anziché ripercorrere le tematiche dell'artificio di regressione e dell'eclissi del narratore nella vicenda trattata, usa pur sempre artifici retorici e sufficientemente ricchi di vocaboli complessi e nobili, arrivando addirittura a commentare la vicenda con i condizionali "direi"; tuttavia egli a differenza di Verga riesce a far calare il lettore nella narrazione e nel contesto storico e ambientale, facendo parlare i personaggi rudi nel dialetto tipico abruzzese. Ciò nei romanzi verghiani non era assolutamente possibile, per via di una scelta poetica di Verga stesso.


La raccolta del San Pantaleone è un'innovazione del naturalismo di Verga da parte di D'Annunzio, sul piano elaborativo delle novelle, composte in maniera più originale e ricercata, alcune sono molto più che semplici bozzetti, e sono dotati di più capitoli. C'è una salto di qualità decisivo per lo stile, la descrizione ora appassionata, ora ricca di particolari anatomici, trasudanti ribrezzo e distacco, quando il poeta deve parlare di personaggi ammalati, o d'estrazione bassa di Pescara, o di antichi riti cattolici che sfociano spesso e volentieri nella superstizione e nel fanatismo, come il rito di San Pantaleone a Miglianico.

D'Annunzio si distacca dai bozzetti in stile squisitamente carducciano di Terra vergine (1882) e della prosa aulica e parnassiana del Libro delle vergini (1884) per creare una raccolta non prettamente organica, ma le cui novelle intendono rappresentare saldamente il nuovo programma dannunziano che seguiva all'epoca la scia del verismo. Interessante notare un "frammento", come D'Annunzio lo definiva nelle lettere all'editore Treves, nel momento della realizzazione del primo romanzo: Il piacere (1889); tale frammento vede i protagonisti Andrea ed Elena, successivi protagonisti del romanzo, e ripercorre la prima parte del volume, del commiato lungo la passeggiata al Pincio, prima del lungo flashback di Andrea Sperelli che interesserà tutta la narrazione del romanzo.