mercoledì 5 agosto 2020

Manifesto Originale – Cabiria ( Schio, Settembre 1914 )




Lettera inedita d’Annunzio a Quirino Federico Ercole


Grazie al preziosissimo contributo dell’Avvocato Elisabetta Ercole, il nostro portale ha l’onore di pubblicare, all’interno dell’area Inediti, una lettera scritta da Gabriele D’Annunzio al Notaio Quirino Federico Ercole che, in occasione dell’antico rito della Panarda, lo ospitò per alcuni giorni nel suo palazzo in Luco dei Marsi.

E’ importante notare come in alto a sinistra, sia ben visibile una di quelle immagini simbolo che accompagnavano le sue lettere e che, nello specifico, ricordano la celebre espressione dantesca ( – Ricordera’ti anche del Mosca, che disse, lasso!, “Capo ha cosa fatta”, che fu mal seme per la gente tosca – XXVIII canto dell’Inferno ) di cui D’Annunzio si avvalse per celebrare la storica impresa fiumana, dipinta da Adolfo de Carolis che illustrò e disegnò molte delle sue opere.




Il D'annunzio ignudo sulla sabbia

CRONACA D’UNA BURRASCOSA ESTATE DI D’ANNUNZIO IN UNA VILLA DELLA VERSILIA OGGI TRASFORMATA IN CENTRO DI ATTIVITÀ CULTURALI
Marina di Pietrasanta (Lucca), 22 Agosto 1981

Una grande casa fatta costruire nel 1886 da Marianna Ginori Lisci ospitò il poeta assieme ai suoi figli e ad Alessandra di Rudinì nel 1906. La nascita del nuovo amore per «Giusini» in quella «magione sontuosa, isolata nella foresta». Le scorribande con i cani lungo la spiaggia e le sue esibizioni. Una zolla di quella terra al suo letto di morte al Vittoriale.

«Il vate era di una gaiezza fanciullesca: agile nei giuochi quanto noi giovinetti. Si compiaceva di sbalordirci con la sua resistenza in ogni esercizio più duro; ci mostrava sorridendo i bicipiti robusti; ci ammaestrava nelle arti elleniche dell’arciere e del lottatore… Le ore più affocate del giorno egli le passava ignudo sulla sabbia lascian dosi bruciare dal sole».

Cronaca di una vacanza di Gabriele D’Annunzio. Racconti di un’estate di settantacinque anni fa in quest’angolo di Versilia, nella «villa sontuosa, isolata nella foresta». E le parole di Gabriellino, il suo secondogenito, allora ventenne, aprono il bozzetto di un soggiorno che ancora oggi, nelle favole della gente del luogo, tramandate di padre in figlio, ha lasciato il segno. Quattro mesi, dal giugno fino al novembre, alla Versiliana, la villa color ocra fatta costruire nel 1886 da Marianna dei marchesi Ginori Lisci. Là, affacciata proprio sull’ampio arenile selvaggio e, dietro, la grande, immensa pineta.

È il 1906 e Gabriele D’ Annunzio non vive una stagione serena della sua vita. Nell’ultimo anno è stato tutto un susseguirsi di noie e di problemi. L’estate precedente non si è potuto concedere neppure un giorno di vacanza per non lasciare Alessandra di Rudinì, la donna che ama. La marchesa era risul tata affetta da un «tumore ovarico». Tre interventi chirurgici, un’altalena di miglioramenti e peggioramenti prima che, finalmente, ci fosse la certezza di una guarigione. E Gabriele D’Annunzio nell’estate del 1905 era rimasto a Firenze per starle accanto. «Ha fatto tutto ciò che un uomo di cuore e di intelletto può fare per una donna amata», riconosceva la di Rudinì scrivendo a un’amica.

Ma la salute della marchesa non è stato l’unico problema dello scrittore. Il suo bisogno di denaro – una costante, questa, un po’ di tutta la sua vita – è sempre pressante. Ancora richieste di prestiti, ancora debiti. Per cercare di risolvere la propria situazione finanziaria, Gabriele D’Annunzio cominciava a inventare strane imprese industriali. Tutto però si risolve in un fallimento. Anche la curiosa idea di diventare un profumiere. Per qualche mese ha infatti creduto di poter imporre sul mercato, grazie all’autorevolezza del proprio nome, una certa «Acqua Nunzia». Nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere un profumo ma risulta un maldestro intruglio di alcune essenze che certamente non elettrizza le signore del tempo. Intanto i creditori premono. Nella villa la Capponcina, a Settignano, sui colli fiorentini, mese dopo mese è aumentato il pellegrinaggio dei tanti che vogliono essere pagati, dei fornitori che presentano i loro conti perché il poeta finalmente li onori.

Sembra proprio, nei primi mesi del 1906, che nulla vada per il suo verso a Gabriele D’Annunzio. Anche la riduzione musicale di «La figlia di lorio», curata dal maestro Franchetti, ottiene alla Scala di Milano uno scarso successo. Il poeta ne è amareggiato. Nel periodo che precede la sua vacanza in Versilia soltanto un evento sembra confortare lo scrittore. Ancora una volta è una donna, una nuova donna nella sua vita: la contessa Giuseppina Mancini. L’aveva conosciuta un anno prima a Firenze, l’ha incontrata di sfuggita a Roma una seconda volta. Sente di amarla, presagisce che sarà lei a prendere il posto della marchesa.
Già, la di Rudinì è ormai una stella cadente nella vita del poeta. Dopo esserle stato così affettuosamente accanto in quel periodo drammatico per la sua salute, Gabriele D’Annunzio sta perdendo ogni interesse per lei. Nella commedia del loro amore comincia l’ultimo atto. Ma è difficile dirsi addio. Alessandra di Rudinì non vuole uscire di scena. Escogita perfino una separazione nella convinzione che la lontananza darà nuovo fuoco a una passione che sta spegnendosi. Lascia la Capponcina, va sul Garda e di là scrive ogni giorno al poeta. Ma i piani della donna sono sbagliati. Gabriele D’Annunzio, anziché sentire nostalgia, prova sollievo. Alessandra di Rudinì gli invia lettere su lettere dal Garda; il poeta risponde sempre più raramente. Lei alla fine capirà? Si metterà da parte?

Assolutamente no. Non vuole arrendersi all’evidenza. E appena Gabriele D’Annunzio, per sfuggire alla «noia» dei creditori che lo assediano, lascia Firenze per andare in vacanza alla Versiliana, ospite del conte Digerini Nuti, Alessandra di Rudinì lo raggiunge. E il giugno del 1906, lì, nella «villa sontuosa, isolata nella foresta», è riunita tutta la famiglia D’Annunzio. Ci sono i tre figli del poeta – Mario, 22 anni; Gabriellino, 20; Veniero, 19 – e, naturalmente, la marchesa.
La Versiliana è una grande villa di tre piani. Al secondo, proprio in angolo, con le finestre che, davanti, guardano sul mare e, sul lato, verso la pineta, Gabriele D’Annunzio ha la sua camera. Lo scenario che si presenta ai suoi occhi è bellissimo, selvaggio e solitario. Sarebbe il rifugio ideale per due innamorati. Ma accanto a lui c’è «soltanto» Alessandra di Rudinì. L’altra, la donna che ormai «conta», è lontana, a Salsomaggiore, per le cure termali. Ma Giuseppina Mancini da lui chiamata «Giusini» – «Giusini è come una rosa bianca: una rosa bianca è come Giusini» avrebbe scritto nel «Solus ad solam» – moglie annoiata del conte Lorenzo Mancini che si occupa, da buon bevitore, più dei suoi vigneti che di lei, è in quei giorni il pensiero costante di Gabriele D’Annunzio. E, naturalmente, le invia lunghe lettere.

«Penso a Lei – mi perdoni – con un poco di pietà, mentre tutta la pineta odora intorno a me e il Faro del Tiglio già comincia a brillare laggiù tra i vapori violetti», le scrive dalla Versiliana il 5 luglio 1906. «Che fa? Come passa il tempo? Fra quattro pareti? Non so perché, immagino che il suolo di Salso produca guardie di finanza gialle e nere, come questa mia spiaggia produce i divini gigli chiamati pancrazi. Io sono stato accolto con pazza gioia dai miei innumerevoli cani che sono il terrore del vicinato [D’Annunzio si era assentato per qualche giorno dalla villa, ndr.]. Nella mia assenza hanno già trucidato una cinquantina di polli e di anatre! Ieri li ho condotti a gran galoppo sulla spiaggia, tra le grida dei bagnanti e dei pescatori. Sono rimasto a cavallo tutto il giorno e nella stanchezza ho trovato il sonno… Qui il terreno è eccellente. La macchia è attraversata da larghi viali soffici su cui si galoppa senza rumore, come in sogno. Di tratto in tratto, per qualche radura, s’intravede il Tirreno che da Circe ha imparato a sorridere immortalmente, o s’intravede l’Alpe solitaria che sembra ancora sotto il dominio di Michelangiolo. Non sa quale delle due bellezze è più insigne. La mia malinconia ondeggia tra l’una e l’altra… Si ricorda delle ore allegre? Ci ri troveremo presto?».

Cani e cavalli: forse in quella lunga vacanza alla Versiliana sono i migliori amici di D’Annunzio. È «Malatestino», sembra, il nome del suo cavallo preferito con il quale si lancia in sfrenate corse lungo la riva del mare. Nei ricordi popolari, tramandati dai testimoni dell’epoca, si narra che fossero cavalcate non prive di «scandalo». Infatti, spesso, Gabriele D’Annunzio saliva in sella al suo «destriero» completamente nudo. Una volta però le guardie lo avevano colto sul fatto. Ma quando lo avevano bloccato il poeta aveva detto sdegnosamente: «Voi non sapete con chi parlate. Toglietevi dinanzi e lasciatemi andare!». E aveva proseguito la sua cavalcata adamitica. Poi, ci sono i cani. Quindici, venti, forse quaranta. Con nomi come Alì-Naur, Helion, Altair. Per nutrire quel piccolo esercito di bestiole fra cui non mancano naturalmente i levrieri, i suoi preferiti, il macellaio di Pietrasanta arriva ogni giorno alla Versiliana con un carretto di carne.

Cani, cavalli e il pensiero rivolto alla bella «Giusini» Mancini. Gli altri che abitano la villa, dalla di Rudinì ai figli, sono, chi più, chi meno, presenze fastidiose per Gabriele D’Annunzio. A Mario, il maggiore, non rivolge quasi la parola quell’estate. È molto irritato con lui. Lo considera un ragazzo senza carattere, un «pusillanime», da quando, dopo avergli procurato un imbarco su una nave per l’America del Sud e avergli regalato quattrocento lire perché non avrebbe ricevuto uno stipendio a bordo, all’ultimo momento lui preferì non imbarcarsi e godersi quel denaro sulla terraferma. E, per ripicca, ora Gabriele D’ Annunzio non vuole dare mai un soldo né a Mario né agli altri due figli. Ma in loro aiuto accorre Alessandra di Rudinì. La marchesa fa lunghe partite a scopone con i «ragazzi», là, nel grande soggiorno al pianterreno della Versiliana, vicino al caminetto, e perde sempre. È il suo sistema, molto materno, per regalare qualche soldo a Mario, Gabriellino e Veniero.
Piccoli episodi quotidiani di una vacanza che, in un momento di malumore, il poeta avrebbe definito «stagione estiva orrenda». Ma non deve essere stata proprio così se in quei giorni scrive all’editore Treves: «Io sono nel più bel posto dell’ universo. Medito una cosa bella».

Cosa? Stava forse pensando all’«Alcione», a quella «Pioggia nel pineto» che qualcuno ha sostenuto abbia scritto alla Versiliana? Può darsi, ma è assolutamente improbabile che quei versi siano materialmente nati nelle stanze della villa. Come sembra del tutto irreale che qui il poeta abbia scritto la «Francesca da Rimini»: «Grido d’amore per Eleonora Duse», come viene definita in una lapide affissa all’interno della villa. E per due ragioni. D’Annunzio è stato alla Versiliana soltanto nel 1906 e l’opera risale invece al 1901. Inoltre, la sua «rottura» con la Duse è avvenuta nel 1904, due anni prima di questa vacanza. È molto più probabile che la «Francesca da Rimini» il poeta l’abbia scritta o completata durante un soggiorno con l’attrice a Motrone. Altre estati, altre case.
Alla Versiliana Gabriele D’Annunzio non lavora molto. Termina il dramma «Più che l’amore». Un’opera che, quando verrà portata sulla scena al Teatro Costanzi di Roma da Ermete Zacconi nell’ottobre di quell’anno, sarà un insuccesso clamoroso. Poi, quando muore Giuseppe Ciiacosa, nel settembre, scrive in sua memoria «Della malattia e dell’arte musica». Tutto qui. Ma certamente il poeta medita, pensa molto. L’immensa pineta, quella realtà naturale così fantastica, i profumi della Versiliana sono così particolari, diversi, capaci di evocare sogni, di ispirare versi che soltanto più tardi troveranno forma compiuta.

Gabriele D’Annunzio sembra consumare, qui, i mesi in un muto dialogo con la natura dei luoghi, quella stessa che oggi il comune di Pietrasanta cerca di far conoscere e apprezzare trasformando la pineta e la villa in un centro di manifesta zioni culturali: dal teatro al cinema, alle arti figurative.
Quella vacanza del 1906 ha lasciato nella zona molti aneddoti su Gabriele D’An nunzio. Sembra che al mare il poeta non perda la sua abitudine di far debiti. Ne sa qualcosa il proprietario di «Il Capanno», poco più di una capanna sulla Marina di Pietrasanta che è una specie di emporio e anche di trattoria. In questo luogo, che, oltre la Versiliana. è una delle rarissime costruzioni su quel tratto di spiaggia, Gabriele D’Annunzio acquista, consuma ma non paga. Offre invece cento lire «con mille scuse per l’accaduto» alla madre di una bambina che viene morsa da uno dei suoi cani.
Non si sa, invece, se abbia effettivamenle pagato il barbiere di Forte dei Marmi. Si tratta della più curiosa di queste storie che nessuno saprà mai dire quanto siano reali o frutto della fantasia popolare. Un giorno, dunque, Gabriele D’Annunzio in sella al suo cavallo si presenta davanti al negozio del barbiere. Sembra quasi che voglia entrarvi dentro senza scendere di sella. Il barbiere, a quel punto, esce fuori preoccupato. «Non mi riconoscete?», gli chiede il poeta con fare autoritario. E, di fronte al poveretto che lo osserva interdetto non riuscendo a dare un nome a quel signore con il pizzetto, aggiunge: «Sono Gabriele D’Annunzio. Domani mattina vi manderò a prendere con il calesse e verrete a servirmi in villa». Poi gira subito il cavallo e si allontana al galoppo.

Il barbiere, che tutti in paese chiamano il «Pisano» rimane prima meravigliato quindi perplesso e, alla fine decide di non dare troppa importanza a quello che gli ha appena detto D’Annunzio. Anzi, dimentica addirittura l’impegno per la mattina successiva e la sera fa le ore piccole andando a balla Ma alle prime ore del mattino è svegliato dai pesanti colpi che vengono battuti alla sua porta. Secondo gli accordi, sono venuti a prenderlo per portarlo alla Versiliana. Il barbiere va e, dopo un breve viaggio, si trova nella villa che a lui sembra la cosa più fantastica del mondo. Il suo entusiasmo cresce quando, anziché dal suo cliente, viene portato davanti a una tavola imbandita e invitato a fare la prima colazione. Accetta con gioia perché là sopra c’ è ogni ben di Dio. Marmellate di tutti i gusti, burro e frutta candita. È felicemente sazio e l’orologio rintocca le dieci in punto quando viene portato al cospetto del poeta. D’Annunzio, che indossa una vestaglia rosso sangue, appena lo vede gli fa cenno di avvicinarsi. Quindi, con un lapis disegna velocemente sul marmo di una console lì vicino il suo pizzo e dice: «Ecco, lo voglio così». Così il barbiere glielo taglia con la massima cura. Un buon lavoro, che soddisfa il poeta perché lo nomina, seduta stante, suo «barbitonsore ufficiale». Da quel giorno, il «Pisano» diventa di casa alla Versiliana. Il pizzo di D’Annunzio riceve le sue amorevoli cure. E il poeta è talmente contento del suo lavoro che un giorno gli regala una scatola dei suoi preziosi sigari. È questo un trofeo troppo importante per il barbiere che decide di esporlo nella vetrina del suo negozio con sopra un cartello che dice: «Dono di Gabriele D’Annunzio». Tutti cominciano a complimentarsi con lui, tranne una persona. È il sarto che possiede il negozio accanto al suo. Non solo non si congratula, ma è roso dall’invidia. E un giorno accade che la scatola di sigari scompare dal negozio del barbiere per ricomparire nella vetrina del sarto. Nasce un litigio fra i due. Ma, alla fine, raggiungono un accordo. Il sarto si può tenere i sigari in cambio di un bel vestito. Quando D’Annunzio viene a sapere tutta la storia commenta: «Taluni con una scatola di sigari si vestono. A me invece, per acquistarla, mi spogliano!».

Le vacanze alla Versiliana, interrotte qua e là da brevi viaggi del poeta a Roma, a Bologna, a Firenze, costellate di cavalcate, di gite alle cave di Carrara, lasciano un profondo ricordo in Gabriele D’Annunzio allora quarantatreenne. Nonostante la «noia» della presenza di Alessandra di Rudinì che ancora spera di salvare il proprio amore, nonostante il desiderio di vedere la nuova fiamma, la sua «Giusini» Mancini, la Versiliana non verrà più dimenticata dal poeta. E si racconta che quando lui era ormai morente, nel 1938, sia giunta una donna velata di nero a bordo di un’auto e abbia detto al proprietario della villa: «Mi manda il Comandante per prendere una zolla di terra del parco della Versiliana». Gabriele D’Annunzio voleva aspirare per un’ultima volta quei profumi che non aveva mai dimenticato.



Le dannunzianate del D'annunzio

E’ ormai noto che D’Annunzio adorava adottare ogni artifizio per salire nuovamente alla ribalta attraverso azioni autopropagandistiche, discorsi pubblici, scandali mondani e imprese ardite e singolari, dalla caduta a cavallo del d’Annunzio quindicenne, agli scandali mondani con Elvira Leoni, la denuncia per adulterio, la relazione con Eleonora Duse, il calendario nudo, le appassionate arringhe interventiste, il volo su Vienna, la beffa di Buccari, il volo dell’arcangelo, per non nominare tutte le leggende predisposte con tale maestria da far tuttora nel bene o nel male parlare di lui.

Di seguito sono invece riportate alcune fra le dannunzianate meno note e plateali ma comunque necessarie per descrivere la psicologia di un personaggio estrememente complesso.





i profumi del Carnaro



Nella notte del 10 febbraio 1918, mentre l’Italia era in guerra con l’Austria, tre M.A.S. (Motobarche Armate S.V.A.N.), motoscafi siluranti della marina militare italiana destinati alla caccia antisommergibile, entravano nella stretta insenatura di Buccari, in terra istriana, beffando la sorveglianza e la sicurezza dell’esercito nemico, con un’azione che verrà ricordata nei libri di storia. Su una di quelle motobarche, orbo dell’occhio destro perso due anni prima in un incidente aereo, era imbarcato Gabriele D’Annunzio, eroe, aviatore, uomo d’azione, ricco dissipatore, amante sofisticato, fine letterato, forse il massimo poeta del ‘900, “Vate”, come amava definirsi. D’Annunzio non era nuovo a queste imprese: individuando con lungimiranza quanto un simile episodio avrebbe inciso nella Leggenda, aveva pianificato questa avventura per ribadire la sua straordinaria personalità e perma-nere da protagonista, con un sipario che teneva costantemente alzato, sul palcoscenico della Storia. Di lì a pochi mesi avrebbe concluso le sue eroiche azioni guerresche con un pericoloso volo su Vienna e un cavallere-sco lancio di manifestini. Gli italiani lo invidiavano, lo odiavano e lo adoravano. Sempre in prima linea, pronto a rischiare di persona, si poneva come l’incontrastato esponente della più raffinata cultura europea. Era stato lui a esaltare il cuore degli italiani nel maggio del 1915 pronunciando l’orazione che segnò la fine della neutralità e l’entrata in guerra contro l’Austria, aderendo poi, come volontario, al conflitto mondiale.

Le trattative di pace che seguirono la fine delle ostilità gli sembrarono aver mutilato la vittoria italiana (“[…] quel tradimento chiamato armistizio per frodare la storia […]”, come scrisse più tardi) e lo allontanarono dal governo, dal parlamento, dalla democrazia.
Si avvicinò a Mussolini, e la marcia su Ronchi e l’occupazione di Fiume, da lui organizzata e capeggiata, eser-citarono un’azione determinante sull’ideologia del fascismo.
Dopo l’impresa di Fiume si ritirò in una villa a Gardone Riviera, il suo “Palladio” o “il Vittoriale degli Italiani” come lo chiamò più tardi, sempre corteggiato e ammirato da donne e uomini, in un ombroso isolamento, dal quale partivano sovente invettive e critiche che facevano sussultare il Regime.
Il dannunzianesimo, con i suoi miti eroici, superumani, imperialistici influì enormemente sulla cultura e sull’arte della prima metà del secolo e al suo creatore si rivolgevano, oltre a letterati, attrici in cerca di voluttuose notti amorose, impresari teatrali e il solito esercito di creditori, anche ditte e società per la creazione di slogan pubbli-citari, nomi da assegnare ai propri prodotti, lettere di adesione e di appoggio.

Amico di Giuseppe Visconti di Modrone, fondatore della Casa di Profumo Giviemme, dette il nome a un’Acqua di Colonia battezzandola “Acqua di Fiume” -in onore alla sua impresa- e più tardi suggerì all’amico il nome forse più improbabile della storia del Profumo: “Giacinto innamorato”.

Anche la Società Anonima Stabilimenti L.E.P.I.T. di Bologna (Casa di Profumo attiva fino agli anni 40 del secolo scorso che ebbe notevole successo nella metà degli anni 30 con la lozione Pro Capillis Lepit, contenuta in un elegante flacone) si rivolse nel 1921 a Gabriele D’Annunzio per creare i nomi di una linea di profumazioni che il Vate chiamò, a ricordo delle sue imprese istriane, “I Profumi del Carnaro” (era ancora fresco l’episodio della reggenza italiana del Carnaro che venne proclamata l’8 settembre 1920, a Fiume, da D’Annunzio) e ai quali assegnò appellativi che ribadivano l’italianità dei prodotti. Formulò, come d’abitudine, anche un motto: “Cum lenitate asperitas” di cui si fregiò la Casa.

Tutta la parte artistica, disegni di flaconi, etichette, scatole, e illustrazioni dell’opuscolo esplicativo dei prodotti sono opera del pittore Adolfo De Carolis. I flaconi vennero realizzati a Murano nella vetreria dei fratelli Barovier e i cofanetti a Milano dalle Grafiche Baroni. “Così in Italia, con materia e mano d’opera italiane, sono stati plasmati tutti gli elementi che costituiscono I Profumi del Carnaro, meravigliosi e olezzanti frutti della nostra industria”, recitava la pubblicità del tempo.
Quella che presentiamo è la linea completa dei flaconi “I Profumi del Carnaro”, purtroppo oggi introvabi-li.

Le didascalie che accompagnano le immagini sono le stesse della pubblicità del tempo e sono indicative del contesto storico-sociale in cui sono state formulate.
Sono riprodotti anche i fogli scritti di pugno da D’Annunzio con i nomi assegnati ai profumi. Non manca il grido creato dal Vate per infiammare il cuore degli italiani: “Alalà” (in contrapposizione all'”Hurrà” lanciato dai fanti americani alleati quando si scagliavano all’assalto), con il quale battezza una profumazione. Purtroppo la nemesi storica che non ha voluto distinguere tra funeste vicende e altri incolpevoli eventi, accomunati dal torto di esistere sotto lo stesso cupo cielo, ha cancellato importanti brani degli avvenimenti italiani che ben poco aveva-no di iniquo, e “I Profumi del Carnaro” hanno seguito lo stesso percorso distruttivo, condannati da Nomi che volevano identificarsi con la Storia.

Giorgio Dalla Villa – Profumeria da Collezione.





Percorsi dannunziani

Romanzi

  • Il piacere (1889)
  • Giovanni Episcopo (1891)
  • L’innocente (1892)
  • Il trionfo della morte (1894)
  • Le vergini delle rocce (1895)
  • Il fuoco (1900)
  • Forse che sì forse che no (1910)

Poesia

  • Primo vere (1879)
  • Canto novo (1882)
  • Poema paradisiaco (1893)
  • “Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi” ( 1903 – 1912)

Teatro

  • La città morta (1899)
  • La Gioconda (1899)
  • Francesca da Rimini (1902)
  • La figlia di Iorio (1904)
  • La fiaccola sotto il moggio (1905)
  • La nave (1908)
  • Fedra (1909)

Opere Autobiografiche

  • La Leda senza cigno
  • Notturno
  • Le faville del maglio
  • Libro segreto ( Angelo Cocles )
  • Solus ad solam ( Epistolario postumo )


Le frasi più belle del Piacere

Così dunque, aspettando, Andrea ricedeva nella memoria quel giorno lontano; rivedeva tutti i gesti, riudiva tutte le parole…

…nell’arte d’amare egli non aveva ripugnanza ad alcuna finzione, ad alcuna falsità, ad alcuna menzongna. Gran parte della sua forza era nell’ipocrisia.

Andò alla finestra, di nuovo, e guardòverso le scale, della Trinità. Elena, un tempo, saliva per quelle scale ai convegni…

Certo, ella sarebbe stata vinta da quella dolcezza così; piena di memorie; avrebbe d’un tratto perduta ogni nozione della realtà;, del tempo; avrebbe creduto di trovarsi ad uno de’ convegni abituali, di non aver mai interrotta quella pratica di voluttà, d’esser pur sempre la Elena d’una volta. Se il teatro dell’amore era immutato, perchè; sarebbe mutato l’amore? Certo, ella avrebbe sentita la profonda seduzione delle cose una volta dilette…

Quale amante non ha mai provato questo inesprimibile gaudio, in cui par quasi che la potenza sensitiva del tatto si affini così da avere la sensazione senza la immediata materialità del contatto ?

Elena gli pareva una donna nuova, non mai goduta, non mai stretta…

La fuga del tempo gli era un supplizio insopportabile. Non tanto egli rimpiangeva i giorni felici quanto si doleva de’ giorni che ora passavano inutilmente per la felicità. Quelli almeno gli avevan lasciato un ricordo: questi gli lasciavano un rammarico profondo, quasi un rimorso… La sua vita si consumava in sè stessa, portando in sè; la fiamma inestinguibile d’un sol desiderio, l’incurabile disgusto d’ogni altro godimento. Talvolta lo assalivano impeti di cupidigia quasi rabbiosi, disperati ardori verso il piacere; ed era come una ribellion violenta del cuore non saziato, come un sussulto della speranza che non si rassegnava a morire.

Ella gli toccò i capelli, col gesto un tempo familiare…

La parola è una cosa profonda…

<> pansava, con una specie d’ebrietà poichè la musica patetica gli aumentava l’eccitamento. <>

…le sfiorò l’omero con le dita, e sentì che ella rabbrividiva…

Ella amerà le cose che io amo…

…si mise a coprirla di baci rapidi e leggeri quella mano che ardeva, quel polso che batteva forte…

Volgeva la mano, sotto la bocca di lui, per sentire i baci sulla palma, sul dosso, tra le dita, intorno al polso, su tutte le vene, in tutti i pori.

Una felicità piena, obliosa, libera, sempre novella, tenne ambedue, dopo d’allora. La passione li avvolse, e li fece incuranti di tutto ciò; che per ambedue non fosse un godimento immediato. Ambedue, mirabilmente formati nello spirito e nel corpo all’esercizio di tutti i più alti e più rari diletti, ricercavano senza tregua il Sommo, l’Insuperabile, l’Inarrivabile; e giungevano così oltre, che talvolta una oscura inquietudine li prendeva pur nel colmo dell’oblio, quasi una voce d’ammonimento salisse dal fondo dell’essere loro ad avvertirli d’un ignoto castigo, d’un termine prossimo. Dalla stanchezza medesima il desiderio risorgeva più sottile, più temerario, più imprudente; come più s’inebriavano, la chimera del loro cuore ingigantiva, s’agitava, generava nuovi sogni; parevano non trovar riposo che nello sforzo, come la fiamma non trova la vita che nella combustione. Talvolta, una fonte di piacere inopinata aprivasi dentro di loro, come balza d’un tratto una polla viva sotto le calcagna d’un uomo che vada alla ventura per l’intrico d’un bosco; ed essi vi bevevano senza misura, finché non l’avevano esausta. Talvolta, l’anima, sotto l’influsso dei desiderii, per un singolar fenomeno d’allucinazione, produceva l’imagine ingannevole d’una esistenza più larga, più libera, più forte, « oltrapiacente »; ed essi vi s’immergevano, vi godevano, vi respiravano come in una loro atmosfera natale. Le finezze e le delicatezze del sentimento e dell’imaginazione succedevano agli eccessi della sensualità.

Ambedue non avevano alcun ritegno alle mutue prodigalità della carne e dello spirito. Provavano una gioia indicibile a lacerare tutti i veli, a palesare tutti i segreti, a violare tutti i misteri, a possedersi fin nel profondo, a penetrarsi, a mescolarsi, a comporre un essere solo.

– Che strano amore! – diceva Elena, ricordando i primissimi giorni, il suo male, la rapida dedizione. – Mi sarei data a te la sera stessa ch’io ti vidi.

Ella ne provava una specie d’orgoglio. E l’amante diceva: – Quando udii, quella sera, annunziare il mio nome accanto al tuo, su la soglia, ebbi, non so perché, la certezza che la mia vita era legata alla tua, per sempre!

Tu sei il mondo, o Roma!

…per ascoltare insieme la fuga degli attimi e il battito di quel cuore.

Questa spiritualizzazione del gaudio carnale, causata dalla perfetta affinità dei due corpi, era forse il più saliente tra i fenomeni della loro passione.

Elena, talvolta, aveva lacrime più dolci dei baci.

Un bacio li prostrrava più d’un amplesso.

E la tortura di quel minuto gli piaceva; poichè non di rado la sofferenza fisica nell’amore attrae più della blandizia.

Qualche volta egli diceva a lei – La comunione del mio spirito col tuo mi par così casta ch’io ti chiamerei sorella, baciandoti le mani.

…quando sul riposo della carne, l’anima provava un bisogno vago d’idealità.

Un uomo, che sia stato amato da una donna di pregi singolari, eccità nelle altre l’immaginazione; e ciascuna arde di possederlo, per vanità e per curiosità, a gara. Il fascino di Don Giovanni è più nella sua fama che nella sua persona.

L’anima sua, camaleontica, mutabile, fluida, virtuale si trasformava, si difformava, prendeva tutte le forme. Egli passava dall’uno all’altro amore con incredibile leggerezza; vagheggiava nel tempo medesimo diversi amori; tesseva, senza scrupolo, una gran trama d’inganni, di finzioni, di menzogne, d’insidie, per raccogliere il maggior numero di prede. L’abitudine della falsità gli ottundeva la conscienza. Per la continua mancanza della riflessione, egli diveniva a poco a poco impenetrabile a sè stesso, rimaneva fuori del suo mistero.

Fra le braccia dell’una si ricordava della carezza dell’altra…

…unendo alla seduzione della sua voce uno sguardo, sottile, penetrante, quello sguardo indefinibile che sembrava svestire le donne, vederle ignude a traveso le vesti, toccarle sulla pelle viva.

…con i due canini sporgenti, fuor della labbra.

…con in tutta la persona una sprezzatura di grande signore.

Quasi direi una voluttà d’altri tempi…

MIRARE L’ARMONIOSA POESIA NOTTURNA DE’ CIELI ESTIVI

Nel libro D’Annunzio ammette che c’è molto di lui colto sul vivo, difatti una delle protagoniste femminili la si può identificare in Barabara Leoni, amante del vate per ben 5 anni. Il vero nome della Leoni non era Barbara bensì Elvira Natalia Fraternali, sposata Leoni; fu ribattezzata Barbara poichè il nostro Ariel era capace di rendere sensuale ed erotico anche un semplice nome nuovo, diverso, ambiguo…

La relazione con Barbara portò il vate ad uno slancio per una crescita umana e sentimentale…

Egli riposava, poichè non desiderava più…




La morte del poeta

C’è chi vocifera che “ il volo dell’arcangelo “ ovvero la caduta dalla finestra non sia stata causata dall’amante del vate Luisa Baccara ma che D’Annunzio meditasse un suicidio, c’è chi dice persino che anche la sua morte ha qualcosa di misterioso. C’è da dire che D’Annunzio costruì per lui e per i suoi legionari un altissimo mausoleo dove fu deposta la sua salma eretta verso il cielo in onore del sommo poeta.


Il D’Annunzio ed il declino

Negli ultimi anni D’Annunzio dovette assistere alla propria decadenza fisica e morale, costretto a vivere nella “prigione dorata” del Vittoriale nella penombra più completa per occultare alle amanti l’onta della decadenza sul suo volto. Ormai non era più in grado di compiere imprese magnifiche o essere una guida spirituale per il paese ( come se D’Annunzio fosse già morto prima della morte fisica ).

Deluso dal fallimento di fiume si ritira in una villa costruita su misura di uomo eccentrico. Fra le stanze del Vittoriale bisogna rammentare la più significativa che è la stanza del lebbroso dove c’è un letto fatto come una culla e stretto come una bara, simbolo esplicito che la vita e la morte si compenetrano e che una è insita nell’altra come dice Gozzano ( quanti me stesso son morti in me stesso ).

Nella stanza del lebbroso c’è un’effige raffigurante D’Annunzio moribondo fra le braccia di San Francesco poiché, nel raffigurarlo, il Vate si immaginava lui ammalato di peste tra le braccia d’un santo ( allora la peste era considerata come simbolo divino ). Nella stanza del lebbroso inoltre ci sono nel soffitto rappresentate immagini di sante con il volto delle amanti più significative del D’Annunzio in quanto il poeta amava fondere sacro e profano.