mercoledì 5 agosto 2020

Il D'annunzio ignudo sulla sabbia

CRONACA D’UNA BURRASCOSA ESTATE DI D’ANNUNZIO IN UNA VILLA DELLA VERSILIA OGGI TRASFORMATA IN CENTRO DI ATTIVITÀ CULTURALI
Marina di Pietrasanta (Lucca), 22 Agosto 1981

Una grande casa fatta costruire nel 1886 da Marianna Ginori Lisci ospitò il poeta assieme ai suoi figli e ad Alessandra di Rudinì nel 1906. La nascita del nuovo amore per «Giusini» in quella «magione sontuosa, isolata nella foresta». Le scorribande con i cani lungo la spiaggia e le sue esibizioni. Una zolla di quella terra al suo letto di morte al Vittoriale.

«Il vate era di una gaiezza fanciullesca: agile nei giuochi quanto noi giovinetti. Si compiaceva di sbalordirci con la sua resistenza in ogni esercizio più duro; ci mostrava sorridendo i bicipiti robusti; ci ammaestrava nelle arti elleniche dell’arciere e del lottatore… Le ore più affocate del giorno egli le passava ignudo sulla sabbia lascian dosi bruciare dal sole».

Cronaca di una vacanza di Gabriele D’Annunzio. Racconti di un’estate di settantacinque anni fa in quest’angolo di Versilia, nella «villa sontuosa, isolata nella foresta». E le parole di Gabriellino, il suo secondogenito, allora ventenne, aprono il bozzetto di un soggiorno che ancora oggi, nelle favole della gente del luogo, tramandate di padre in figlio, ha lasciato il segno. Quattro mesi, dal giugno fino al novembre, alla Versiliana, la villa color ocra fatta costruire nel 1886 da Marianna dei marchesi Ginori Lisci. Là, affacciata proprio sull’ampio arenile selvaggio e, dietro, la grande, immensa pineta.

È il 1906 e Gabriele D’ Annunzio non vive una stagione serena della sua vita. Nell’ultimo anno è stato tutto un susseguirsi di noie e di problemi. L’estate precedente non si è potuto concedere neppure un giorno di vacanza per non lasciare Alessandra di Rudinì, la donna che ama. La marchesa era risul tata affetta da un «tumore ovarico». Tre interventi chirurgici, un’altalena di miglioramenti e peggioramenti prima che, finalmente, ci fosse la certezza di una guarigione. E Gabriele D’Annunzio nell’estate del 1905 era rimasto a Firenze per starle accanto. «Ha fatto tutto ciò che un uomo di cuore e di intelletto può fare per una donna amata», riconosceva la di Rudinì scrivendo a un’amica.

Ma la salute della marchesa non è stato l’unico problema dello scrittore. Il suo bisogno di denaro – una costante, questa, un po’ di tutta la sua vita – è sempre pressante. Ancora richieste di prestiti, ancora debiti. Per cercare di risolvere la propria situazione finanziaria, Gabriele D’Annunzio cominciava a inventare strane imprese industriali. Tutto però si risolve in un fallimento. Anche la curiosa idea di diventare un profumiere. Per qualche mese ha infatti creduto di poter imporre sul mercato, grazie all’autorevolezza del proprio nome, una certa «Acqua Nunzia». Nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere un profumo ma risulta un maldestro intruglio di alcune essenze che certamente non elettrizza le signore del tempo. Intanto i creditori premono. Nella villa la Capponcina, a Settignano, sui colli fiorentini, mese dopo mese è aumentato il pellegrinaggio dei tanti che vogliono essere pagati, dei fornitori che presentano i loro conti perché il poeta finalmente li onori.

Sembra proprio, nei primi mesi del 1906, che nulla vada per il suo verso a Gabriele D’Annunzio. Anche la riduzione musicale di «La figlia di lorio», curata dal maestro Franchetti, ottiene alla Scala di Milano uno scarso successo. Il poeta ne è amareggiato. Nel periodo che precede la sua vacanza in Versilia soltanto un evento sembra confortare lo scrittore. Ancora una volta è una donna, una nuova donna nella sua vita: la contessa Giuseppina Mancini. L’aveva conosciuta un anno prima a Firenze, l’ha incontrata di sfuggita a Roma una seconda volta. Sente di amarla, presagisce che sarà lei a prendere il posto della marchesa.
Già, la di Rudinì è ormai una stella cadente nella vita del poeta. Dopo esserle stato così affettuosamente accanto in quel periodo drammatico per la sua salute, Gabriele D’Annunzio sta perdendo ogni interesse per lei. Nella commedia del loro amore comincia l’ultimo atto. Ma è difficile dirsi addio. Alessandra di Rudinì non vuole uscire di scena. Escogita perfino una separazione nella convinzione che la lontananza darà nuovo fuoco a una passione che sta spegnendosi. Lascia la Capponcina, va sul Garda e di là scrive ogni giorno al poeta. Ma i piani della donna sono sbagliati. Gabriele D’Annunzio, anziché sentire nostalgia, prova sollievo. Alessandra di Rudinì gli invia lettere su lettere dal Garda; il poeta risponde sempre più raramente. Lei alla fine capirà? Si metterà da parte?

Assolutamente no. Non vuole arrendersi all’evidenza. E appena Gabriele D’Annunzio, per sfuggire alla «noia» dei creditori che lo assediano, lascia Firenze per andare in vacanza alla Versiliana, ospite del conte Digerini Nuti, Alessandra di Rudinì lo raggiunge. E il giugno del 1906, lì, nella «villa sontuosa, isolata nella foresta», è riunita tutta la famiglia D’Annunzio. Ci sono i tre figli del poeta – Mario, 22 anni; Gabriellino, 20; Veniero, 19 – e, naturalmente, la marchesa.
La Versiliana è una grande villa di tre piani. Al secondo, proprio in angolo, con le finestre che, davanti, guardano sul mare e, sul lato, verso la pineta, Gabriele D’Annunzio ha la sua camera. Lo scenario che si presenta ai suoi occhi è bellissimo, selvaggio e solitario. Sarebbe il rifugio ideale per due innamorati. Ma accanto a lui c’è «soltanto» Alessandra di Rudinì. L’altra, la donna che ormai «conta», è lontana, a Salsomaggiore, per le cure termali. Ma Giuseppina Mancini da lui chiamata «Giusini» – «Giusini è come una rosa bianca: una rosa bianca è come Giusini» avrebbe scritto nel «Solus ad solam» – moglie annoiata del conte Lorenzo Mancini che si occupa, da buon bevitore, più dei suoi vigneti che di lei, è in quei giorni il pensiero costante di Gabriele D’Annunzio. E, naturalmente, le invia lunghe lettere.

«Penso a Lei – mi perdoni – con un poco di pietà, mentre tutta la pineta odora intorno a me e il Faro del Tiglio già comincia a brillare laggiù tra i vapori violetti», le scrive dalla Versiliana il 5 luglio 1906. «Che fa? Come passa il tempo? Fra quattro pareti? Non so perché, immagino che il suolo di Salso produca guardie di finanza gialle e nere, come questa mia spiaggia produce i divini gigli chiamati pancrazi. Io sono stato accolto con pazza gioia dai miei innumerevoli cani che sono il terrore del vicinato [D’Annunzio si era assentato per qualche giorno dalla villa, ndr.]. Nella mia assenza hanno già trucidato una cinquantina di polli e di anatre! Ieri li ho condotti a gran galoppo sulla spiaggia, tra le grida dei bagnanti e dei pescatori. Sono rimasto a cavallo tutto il giorno e nella stanchezza ho trovato il sonno… Qui il terreno è eccellente. La macchia è attraversata da larghi viali soffici su cui si galoppa senza rumore, come in sogno. Di tratto in tratto, per qualche radura, s’intravede il Tirreno che da Circe ha imparato a sorridere immortalmente, o s’intravede l’Alpe solitaria che sembra ancora sotto il dominio di Michelangiolo. Non sa quale delle due bellezze è più insigne. La mia malinconia ondeggia tra l’una e l’altra… Si ricorda delle ore allegre? Ci ri troveremo presto?».

Cani e cavalli: forse in quella lunga vacanza alla Versiliana sono i migliori amici di D’Annunzio. È «Malatestino», sembra, il nome del suo cavallo preferito con il quale si lancia in sfrenate corse lungo la riva del mare. Nei ricordi popolari, tramandati dai testimoni dell’epoca, si narra che fossero cavalcate non prive di «scandalo». Infatti, spesso, Gabriele D’Annunzio saliva in sella al suo «destriero» completamente nudo. Una volta però le guardie lo avevano colto sul fatto. Ma quando lo avevano bloccato il poeta aveva detto sdegnosamente: «Voi non sapete con chi parlate. Toglietevi dinanzi e lasciatemi andare!». E aveva proseguito la sua cavalcata adamitica. Poi, ci sono i cani. Quindici, venti, forse quaranta. Con nomi come Alì-Naur, Helion, Altair. Per nutrire quel piccolo esercito di bestiole fra cui non mancano naturalmente i levrieri, i suoi preferiti, il macellaio di Pietrasanta arriva ogni giorno alla Versiliana con un carretto di carne.

Cani, cavalli e il pensiero rivolto alla bella «Giusini» Mancini. Gli altri che abitano la villa, dalla di Rudinì ai figli, sono, chi più, chi meno, presenze fastidiose per Gabriele D’Annunzio. A Mario, il maggiore, non rivolge quasi la parola quell’estate. È molto irritato con lui. Lo considera un ragazzo senza carattere, un «pusillanime», da quando, dopo avergli procurato un imbarco su una nave per l’America del Sud e avergli regalato quattrocento lire perché non avrebbe ricevuto uno stipendio a bordo, all’ultimo momento lui preferì non imbarcarsi e godersi quel denaro sulla terraferma. E, per ripicca, ora Gabriele D’ Annunzio non vuole dare mai un soldo né a Mario né agli altri due figli. Ma in loro aiuto accorre Alessandra di Rudinì. La marchesa fa lunghe partite a scopone con i «ragazzi», là, nel grande soggiorno al pianterreno della Versiliana, vicino al caminetto, e perde sempre. È il suo sistema, molto materno, per regalare qualche soldo a Mario, Gabriellino e Veniero.
Piccoli episodi quotidiani di una vacanza che, in un momento di malumore, il poeta avrebbe definito «stagione estiva orrenda». Ma non deve essere stata proprio così se in quei giorni scrive all’editore Treves: «Io sono nel più bel posto dell’ universo. Medito una cosa bella».

Cosa? Stava forse pensando all’«Alcione», a quella «Pioggia nel pineto» che qualcuno ha sostenuto abbia scritto alla Versiliana? Può darsi, ma è assolutamente improbabile che quei versi siano materialmente nati nelle stanze della villa. Come sembra del tutto irreale che qui il poeta abbia scritto la «Francesca da Rimini»: «Grido d’amore per Eleonora Duse», come viene definita in una lapide affissa all’interno della villa. E per due ragioni. D’Annunzio è stato alla Versiliana soltanto nel 1906 e l’opera risale invece al 1901. Inoltre, la sua «rottura» con la Duse è avvenuta nel 1904, due anni prima di questa vacanza. È molto più probabile che la «Francesca da Rimini» il poeta l’abbia scritta o completata durante un soggiorno con l’attrice a Motrone. Altre estati, altre case.
Alla Versiliana Gabriele D’Annunzio non lavora molto. Termina il dramma «Più che l’amore». Un’opera che, quando verrà portata sulla scena al Teatro Costanzi di Roma da Ermete Zacconi nell’ottobre di quell’anno, sarà un insuccesso clamoroso. Poi, quando muore Giuseppe Ciiacosa, nel settembre, scrive in sua memoria «Della malattia e dell’arte musica». Tutto qui. Ma certamente il poeta medita, pensa molto. L’immensa pineta, quella realtà naturale così fantastica, i profumi della Versiliana sono così particolari, diversi, capaci di evocare sogni, di ispirare versi che soltanto più tardi troveranno forma compiuta.

Gabriele D’Annunzio sembra consumare, qui, i mesi in un muto dialogo con la natura dei luoghi, quella stessa che oggi il comune di Pietrasanta cerca di far conoscere e apprezzare trasformando la pineta e la villa in un centro di manifesta zioni culturali: dal teatro al cinema, alle arti figurative.
Quella vacanza del 1906 ha lasciato nella zona molti aneddoti su Gabriele D’An nunzio. Sembra che al mare il poeta non perda la sua abitudine di far debiti. Ne sa qualcosa il proprietario di «Il Capanno», poco più di una capanna sulla Marina di Pietrasanta che è una specie di emporio e anche di trattoria. In questo luogo, che, oltre la Versiliana. è una delle rarissime costruzioni su quel tratto di spiaggia, Gabriele D’Annunzio acquista, consuma ma non paga. Offre invece cento lire «con mille scuse per l’accaduto» alla madre di una bambina che viene morsa da uno dei suoi cani.
Non si sa, invece, se abbia effettivamenle pagato il barbiere di Forte dei Marmi. Si tratta della più curiosa di queste storie che nessuno saprà mai dire quanto siano reali o frutto della fantasia popolare. Un giorno, dunque, Gabriele D’Annunzio in sella al suo cavallo si presenta davanti al negozio del barbiere. Sembra quasi che voglia entrarvi dentro senza scendere di sella. Il barbiere, a quel punto, esce fuori preoccupato. «Non mi riconoscete?», gli chiede il poeta con fare autoritario. E, di fronte al poveretto che lo osserva interdetto non riuscendo a dare un nome a quel signore con il pizzetto, aggiunge: «Sono Gabriele D’Annunzio. Domani mattina vi manderò a prendere con il calesse e verrete a servirmi in villa». Poi gira subito il cavallo e si allontana al galoppo.

Il barbiere, che tutti in paese chiamano il «Pisano» rimane prima meravigliato quindi perplesso e, alla fine decide di non dare troppa importanza a quello che gli ha appena detto D’Annunzio. Anzi, dimentica addirittura l’impegno per la mattina successiva e la sera fa le ore piccole andando a balla Ma alle prime ore del mattino è svegliato dai pesanti colpi che vengono battuti alla sua porta. Secondo gli accordi, sono venuti a prenderlo per portarlo alla Versiliana. Il barbiere va e, dopo un breve viaggio, si trova nella villa che a lui sembra la cosa più fantastica del mondo. Il suo entusiasmo cresce quando, anziché dal suo cliente, viene portato davanti a una tavola imbandita e invitato a fare la prima colazione. Accetta con gioia perché là sopra c’ è ogni ben di Dio. Marmellate di tutti i gusti, burro e frutta candita. È felicemente sazio e l’orologio rintocca le dieci in punto quando viene portato al cospetto del poeta. D’Annunzio, che indossa una vestaglia rosso sangue, appena lo vede gli fa cenno di avvicinarsi. Quindi, con un lapis disegna velocemente sul marmo di una console lì vicino il suo pizzo e dice: «Ecco, lo voglio così». Così il barbiere glielo taglia con la massima cura. Un buon lavoro, che soddisfa il poeta perché lo nomina, seduta stante, suo «barbitonsore ufficiale». Da quel giorno, il «Pisano» diventa di casa alla Versiliana. Il pizzo di D’Annunzio riceve le sue amorevoli cure. E il poeta è talmente contento del suo lavoro che un giorno gli regala una scatola dei suoi preziosi sigari. È questo un trofeo troppo importante per il barbiere che decide di esporlo nella vetrina del suo negozio con sopra un cartello che dice: «Dono di Gabriele D’Annunzio». Tutti cominciano a complimentarsi con lui, tranne una persona. È il sarto che possiede il negozio accanto al suo. Non solo non si congratula, ma è roso dall’invidia. E un giorno accade che la scatola di sigari scompare dal negozio del barbiere per ricomparire nella vetrina del sarto. Nasce un litigio fra i due. Ma, alla fine, raggiungono un accordo. Il sarto si può tenere i sigari in cambio di un bel vestito. Quando D’Annunzio viene a sapere tutta la storia commenta: «Taluni con una scatola di sigari si vestono. A me invece, per acquistarla, mi spogliano!».

Le vacanze alla Versiliana, interrotte qua e là da brevi viaggi del poeta a Roma, a Bologna, a Firenze, costellate di cavalcate, di gite alle cave di Carrara, lasciano un profondo ricordo in Gabriele D’Annunzio allora quarantatreenne. Nonostante la «noia» della presenza di Alessandra di Rudinì che ancora spera di salvare il proprio amore, nonostante il desiderio di vedere la nuova fiamma, la sua «Giusini» Mancini, la Versiliana non verrà più dimenticata dal poeta. E si racconta che quando lui era ormai morente, nel 1938, sia giunta una donna velata di nero a bordo di un’auto e abbia detto al proprietario della villa: «Mi manda il Comandante per prendere una zolla di terra del parco della Versiliana». Gabriele D’Annunzio voleva aspirare per un’ultima volta quei profumi che non aveva mai dimenticato.