martedì 8 settembre 2020

La figlia di Iorio (1904)

 Il primo successo vero di d'Annunzio nella drammaturgia teatrale avviene con il ritorno alle origini abruzzesi. D'Annunzio infatti nell'opera descrive situazioni di cui è pienamente conoscitore e cesellatore, del tutto sconosciute al grande pubblico italiano, come appunto le vicende dell'Abruzzo.

Alda Borelli in una rappresentazione del 1910 della Figlia di Iorio

Il figlio di Lazzaro di Roio del Sangro sta per sposarsi, presso Taranta Peligna, quando improvvisamente nel clima di pace irrompe una ragazza, Mila di Codro, ritenuta strega. Il ragazzo immediatamente se ne innamora, e decide di isolarsi dalla comunità peligna, fuggendo nella grotta del Cavallone. Lazzaro si innamora anch'esso, ma suo figlio, nella follia, lo uccide, recandosi poi a Roma per chiedere l'indulgenza al papa. Ma i paesani nel frattempo rapiscono Mila e la bruciano come strega. Ciò che colpisce di più della tragedia e la sensazione di pace e calma apparente, espressa dalla gioiosità popolare dei personaggi minori dell'opera, formata da canti in dialetto e scene di profonda fede cattolica, mischiata alle tradizioni pagane che corrono attorno alla "grotta".

Francesca da Rimini (1902)

 Tragedia in 5 atti in versi, che riprende le vicende tristi di Francesca da Polenta e Paolo Malatesta, citata già da Dante Alighieri nella Divina Commedia; l'opera fu rappresentata dalla Duse nel 1901. La tragedia fu scritta per avere un sottofondo musicale: si parla dell'amore "galeotto" tra Paolo e Francesca, con l'aggiunta del matrimonio forzato di Francesco con Gianciotto Malatesta, avvenuto per procura, per cui d'Annunzio ttinse alla testimonianza di Boccaccio. L'atto IV fu molto lodato dalla critica, il maligno Gianciotto, qui chiamato "Malatestino" ordisce la trama in cui cadranno i due amanti, che verranno colti in flagrante nella loro manifestazione d'amore, e verranno assassinati.

Lodato fu anche l'amoroso languore interiore di Francesca, che pare risenta delle odi iniziali delle "Città del Silenzio" in Elettra (1903), D'Annunzio canta molto bene la voluttuosa malinconia del presentimento d'amore adulterino, nel colloqui tra lei e la sorella nell'atto I, nei colloqui iniziali con Paolo, negli atti II-III. Il colloquio dell'atto V è meno potente degli altri, il tema d'amore non è più sostenuto dallo struggimento della malinconia, scivola invece nel tono enfatico e celebrativo. D'Annunzio intese ricostruire anche modi di vivere e scenografie del pieno XIII secolo, concetti che però, soprattutto nelle descrizioni della scena, risultano leziosi, tipici di quel movimento di revival del neogotico che andava in voga alla fine dell'800.

Nel 1912 la tragedia venne musicata e ridotta da Tito Zandonai.




La Gioconda - La Gloria (1898-99)

 La prima è una tragedia in 4 atti, rappresentata nel 1899 dalla Duse ed Ermete Zacconi. Nella storia, come nella Città morta, il protagonista è un artista scultore, Lucio Settala, incerto tra la pietà per la moglie Silvia, e l'amore per la sua modella Gioconda Dianti. Alla fine, intendendo realizzare sé stesso al di là dai vincoli della legge coniugale per lui limitata, Lucio commette adulterio; la moglie Silvia non lo sa, e un giorno assiste a una lite tra i due, la Gioconda getta per terra una statua, sentendosi abbandonata, e Silvia nel tentativo di salvarla si mutila le mani.

Nella tragedia traspare il forte senso del superuomo, anche se pare assumere delle debolezze in questo contesto, pare che il suicidio sia l'unica maniera possibile per risolvere il contrasto del protagonista, la Gioconda proclama la sua superiorità al di là del bene e del male, mostrandosi come la classica fèmme fatale, mentre Silvia incarna la moglie fedele e la vittima sacrificare della tragedia per scatenare il processo di catarsi. Sembra ripetere lo schema della Giuliana in L'innocente, in Anna ne La città morta, insomma è un tema che si ripete, in maniera decisamente stanca. L'unica parte originale della tragedia è la canzonetta in poesia del personaggio della Sirenetta, che rievoca in parte le scene dell'Alcyone (1903) e del Sogno d'un mattino di primavera.

L'opera fu pubblicata nel 1903 da D'Annunzio in Francia insieme a "La Gloria - La città morta", come a comporre una sorta di trilogia.

Nella Gloria, tragedia in 5 atti rappresentata da Eleonora Duse e da Ermete Zacconi, D'Annunzio intende glorificare il mito del Superuomo, ma risulta per glorificare la Superfemmina sua compagna: Ruggero Flamma combatte per il potere a Roma contro un dominatore già anziano, Cesare Bronte, al quale riesce a strappare il potere mediante l'adulterio con l'amante Comnèna. Costei è rappresentata come una donna insaziabile di potere e di desiderio, si impadronisce della mente di Ruggero, sino a ucciderlo e darne il cadavere in pasto alla folla ribelle, quando arriva il momento di scegliere tra la politica, l'amore e l'esilio. Le velleità politiche che riguardano la tragedia sembrano essere desunte dalla storia de Le vergini delle rocce (1895).

L'opera non il successo sperato, e fu pubblicata in Francia nel 1903 insieme a "La Gioconda - La città morta" con il titolo Le victoires mutilées.



La città morta (1896)

 D'Annunzio, a circa vent'anni di distanza, celebra la scoperta archeologica di Troia e Micene da parte dello Schliemann, una ventina d'anni prima. La scena mette in mostra una compagnia di giovani arricchiti, tra cui un giovane archeologo, che a Micene rinviene la tomba di Agamennone. Due ragazze, nel frattempo (l'una delle quali cieca), leggono l'Antigone di Sofocle per legarsi maggiormente nello spirito alla sensazione di grande rinascita della culla della civiltà greca, per cui autori come Omero, Eschilo ed Euripide hanno contato le gesta.

L'archeologo Leonardo riesce a coronare il suo sogno, scoprendo le tombe di Cassandra e Agamennone a Micene. Con lui ci sono la sorella Bianca Maria, dolce creatura che passa il tempo leggendo Sofocle, e gli amici Alessandro ed Anna, marito e moglie, lui poeta e lei sua semplice consorte, priva della vista, e molto amica di Bianca Maria con cui passa la giornata ascoltando i tragici greci. Loro sono due donne che vivono in adorazione dei mariti, rispettivamente fratello e marito, ma Alessandro è innamorato di Bianca Maria, la scena della dichiarazione avviene nel momento in cui lei sta contemplando le maschere funebri rinvenute a Micene; pare che d'Annunzio si ispirò allo Schliemann che fece la sua dichiarazione alla futura moglie, mentre maneggiava la maschera di Agamennone.

Ma Bianca Maria respinge Alessandro, comunicandogli di essersi votata alla verginità; d'altro canto Leonardo ama Maria a sua volta, un amore possessivo e geloso, nutrendo dei sentimenti molto oltre quelli del comune fratello protettivo, e per questo è combattuto non volendoglielo comunicare. Leonardo diventa folle di gelosia per Alessandro, si apparta con Bianca Maria presso la fonte Perseia, meditando il delitto contro l'amico, mentre Anna che ha intuito l'amore del marito per la fanciulla, e l'incombere di una tragedia irreversibile, quasi fosse una veggente nella sua cecità, lo incita ad affrettarsi verso la fonte, ma giunge troppo tardi: Bianca Maria è morta, il cadavere viene raggiunto da Anna, la scena si conclude con lei che riconosce l'amica e urla di orrore

Pare che l'intento di d'Annunzio fosse quello di realizzare un dramma moderno, capace di rivaleggiare con la tragedia greca, volle rappresentare l'azione della catarsi, sublimando le passioni del pubblico, mettendo Bianca Maria come vittima espiatrice dei peccati, come fosse la figlia di di Agamennone Ifigenia. Se questo fosse stato il vero intento di D'Annunzio, il prodotto finale pecca di vari fraintendimenti del senso stesso della tragedia greca e dei suoi temi, come il destino e l'espiazione, il tema dell'incesto di Leonardo e Bianca Maria sembra essere un contorno alla sensazione tragica, ma si pone come struttura portante della vicenda.
Il tutto sembra ruotare attorno a un sentimento di adorazione e di osannare l'antico da parte di d'Annunzio, trattando della scoperta di Micene e Troia da parte dell'archeologo Schliemann, tipiche esaltazioni e furori romantici dell'era del decadentismo.



Il Sogno di un mattino di primavera e Sogno d'un tramonto d'autunno (1896-97)

 Queste due opere prime teatrali sono strettamente legate tra loro, per quanto riguarda la tensione del protagonista con la sensazione della morte imminente e la confitta dinanzi alla vita. Nel 1897 in pochi giorni D'Annunzio scrive per la Duse una tragedia, il primo Sogno, elabora l'idea nella villa di Albano alla fine di marzo, quando inizia a sviluppare la figura della protagonista "Demente". La protagonista diventa folle d'amore, per tutta la notte tiene in braccio l'amante ridotto in fin di vita dal marito, ricoperta di sangue dell'amato, a nulla servono i tentativi di riabilitarla dal medico e dalla sorella Beatrice. Il "sogno" è un breve idillio in cui la protagonista sembra riacquistare il senno e la calma, Isabella sogna di essere in un lussureggiante giardino, lontano dalla morte e dalla pausa, il suo desiderio di metamorfosi viene scoperto da Virginio, fratello dell'amante ucciso, segretamente innamorato di lei, il simbolo della tragedia sta nel punto in cui nel sogno Isabella prende un ramo e lo trasforma in ghirlanda, simbolo della primavera, della dicotomia tra vita e morte presente nella tragedia.

Dal punto di vista stilistico la prima tragedia è un esperimento in cui vi sono delle tracce che D'Annunzio userà sostanzialmente in quasi tutte le altre tragedie, la dicotomia vita-morte, la follia d'amore, la passione, la gelosia.

  • Nella prima opera una povera donna di Firenze, impazzita d'amore, sta vivendo gli ultimi momenti con la famiglia, che cerca invano di farla rinsavire, prima di entrare in manicomio. Il motivo di tale follia è un amore non corrisposto.
  • Nella seconda opera, ambientata nel '700 a Venezia, la moglie di un Doge non precisato, chiama una fattucchiera perché il nuovo Doge, il suo amante per cui lei ha assassinato il vero Doge, suo marito, adesso è in un bordello, a sollazzarsi con una crudele prostituta. La fattucchiera, con un rito magico a base di cera e capelli dello sventurato, fa prendere fuoco il bordello.

Nel secondo Sogno il tema è lo stesso, quello del tradimento d'amore, la follia, la vendetta, anche gli scenari cambiano, se nel primo Sogno la scenografia è più tranquilla e sensuale, qui si la descrizione paesaggistica del rossore del cielo sembra combaciare con la tensione emotiva della protagonista, pronta a scoppiare nell'omicidio, nella distruzione, nella vendetta amorosa. Lo spirito dionisiaco avvolge la nemica della protagonista, la meretrice Pantea con cui il doge di Venezia si è appartato, che naviga il Brenta su una nave dorata verso la città, seguita da altri amanti folli di lei. La vicenda della dogaressa Gradeniga sembra ricordare la Medea euripidea, lei per il doge ha ucciso suo marito, legittimo doge di Venezia, ora con i sortilegi intende vendicare il tradimento, sicché, sempre rievocando un'altra scena euripidea delle Baccanti, gli amanti della meretrice sono stregati dai filtri e dalle maledizioni della dogaressa, e si avventano su Pantea uccidendola, sempre alla tragedia greca D'Annunzio allude, usando in questa opera la figura del messaggero, che interviene nel raccontare i particolari più cruenti, come la scena dell'uccisione della nemica.




Il teatro dannunziano (1896 - 1914)

 D'Annunzio entrò in contatto con il teatro grazie ad Eleonora Duse, circa nel 1895. Il suo intento era di riformare da un punto di vista totalmente sperimentale la drammaturgia italiana, incentrata in storie che ricalcavano i grandi avvenimenti del passato rinascimentale o romano-greco. Il tutto doveva svolgersi in scenografie di ampia suggestione emotiva, che avrebbero dovuto mettere in comunicazione panica lo spettatore con la natura e l'aura di ombra e mistero del destino, facendo provare sensazioni oniriche.



Il libro segreto (1936)

 Ossia titolo completo: Le cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele d'Annunzio tentato di morire è l'ultima opera in prosa ufficiale del poeta, redatta nel Vittoriale degli italiani nel 1935. Il poeta si abbandona al ricordo delle sue imprese fiorentine e alla sua infanzia soprattutto, dichiarando di essere stato scelto dal destino e dalla volontà divina di esser poeta, patriota e combattente, mettendo sempre a rischio la vita. Infatti d'Annunzio sostiene di aver ricevuto una visione durante la visita al santuario dei Sette Dolori di Pescara, affermando che i suoi progetti per il futuro consistevano in una semplice vita da erudito.