Nell’ampio panorama epistolografico di d’Annunzio, vero grafomane che sembrava privilegiare la parola scritta anche nell’opportunità di una più rapida comunicazione orale – ricordiamo il proliferare di bigliettini inviati, nel circuito chiuso del santuario sacro e profano del Vittoriale, alla schiera di Muse, Badesse od occasionali donnine di passaggio -, accanto agli epistolari celebri quali quelli con Mussolini, con gli editori, o con le donne che più hanno inciso nel suo cuore, come la Leoni e la Baccara, si affianca, ora, grazie al prezioso e paziente lavoro di ricerca del curatore, un inedito carteggio di brevi missive atto a ricostruire il rapporto intercorso tra il maturo Vate e Maria Bellini Gritti in Lombardi (Marasca, come è ribattezzata secondo la inveterata abitudine del poeta di “appropriazione” dell’amata di turno), nonché quello con Francesco Lombardi, “Franco”, di lei figlio, il tutto nell’arco temporale che oscilla tra il 1925 e il 1936, l’ultima, la più difficile, fase della vita del Comandante, vittima, al di là della celebrazione ufficiale del Paese e dell’autocelebrazione narcisistica, di un doloroso declino fisico e di una sotterranea malinconia.
Il volume consta di una introduzione di Pietro Gibellini (v. il suo Logos e mythos. Studi su Gabriele d’Annunzio, Firenze, Leo S.Olschki Editore, 1985), cui segue una ampia, illuminante, introduzione del; curatore; sono poi riportati i documenti che provengono da un fondo privato, messo a disposizione dagli eredi di Franco Lombardi, e dagli archivi del Vittoriale, e precisamente: 62 lettere, 7 telegrammi, 12 biglietti e 6 ricette. E’ poi presentato il breve – 30 frammenti in tutto – diario di Maria Bellini Gritti in Lombardi, a detta del curatore “una sorta di Journal Intime incentrato sul proprio rapporto con il poeta e sui ricordi, per la maggior parte riconducibili ad esperienze personali e agli anni del Vittoriale, da lei stessa intitolato Ariel vero.”. In chiusura di volume, una appendice raccoglie alcuni documenti eterogenei, fra cui una spiritosa missiva in dialetto veneziano di Luisa Baccara a Maria, che testimonia il grado di confidenza tra le due donne; 3 biglietti del padre di Maria Giovan Battista Bellini al Comandante e, per ultimo, 6 ricette che illustrano i gusti culinari del poeta (famosa la passione delle uova: vedi la surreale maxifrittata riportata nel Libro Segreto, e delle scaloppine al marsala, a detta di Maria il piatto preferito da Ariel). Un corredo fotografico illustra ulteriormente il volume.
Il quindicennio, circa, oggetto del carteggio che riporta alla luce il rapporto fra d’Annunzio e la signora Maria Bellini Gritti in Lombardi, copre l’arco temporale che va dal 1925 (ma i dati in possesso del curatore permettono di arretrare al 1923 l’incontro tra i due protagonisti) al 1936, ossia dal momento di crisi all’indomani del “Natale di sangue” vissuto a Fiume, che lo porterà alla scelta definitiva del Lago di Garda (nell’ottica annunciata nel Libro ascetico della Giovane Italia: “Passavo di esilio in esilio? Venivo a cercare il silenzio salubre e a ritrovare alcune delle sue arti? Venivo a interpretare il sogno eroico e l’azione spaventosa [….] o a fare una breve sosta e un sonno per ricominciare la lotta fino all’apparizione dell’alba”), a due anni prima della morte del Vate, avvenuta il 1 marzo 1938.
E’, di fatto, la fase conclusiva della sua vita, quella più tormentata, irrequieta pur nel volontario esilio del Vittoriale, sia nei rapporti con il nuovo, ascendente, mito del fascismo, che finisce per relegarlo in un ruolo subalterno, in ombra, pur nella celebrazione di facciata della sua opera e del personaggio, sia nei rapporti con la donna, ricercata freneticamente anche nell’aborrito declino fisico. Ed è su questa fase che il prezioso carteggio ricostruito da Caburlotto getta una nuova luce, offrendoci uno spaccato di consuetudini di vita, di quotidianità coi suoi splendori e grandezze, ma anche miserie e frustrazioni, attraverso la ricostruzione di uno sfondo storico-sociale in cui si muovono figure familiari, amici e non, tutta una galleria di vivaci personaggi che gravitano intorno al suo mausoleo, il Vittoriale.
Ma chi è Maria Bellini Gritti in Lombardi, per il Vate Mariasca, o Mariaska, protagonista del carteggio e autrice del diario-romanzo Ariel vero? Maria (1889-1973) divide la giovinezza tra Brescia, città natale, e il Lago di Garda, ove la famiglia possiede due Hotel a Salò e Soiano del Garda; qui condurrà vita eccentrica, facendosi notare per i gusti edonistici ed esibizionistici, sposando poi un ricco proprietario dell’Hotel Metropole di Salò, Pietro Lombardi; dal matrimonio nascerà nel 1916 Francesco, Franco (o Francho, come scriverà il Vate in una missiva ironica), anche lui protagonista del carteggio, giovinetto presto plagiato dal fascino del Comandante.
Anche se la prima lettera del Comandante a Maria risale al 15/2/1925, certa è la conoscenza tra i due negli anni precedenti (in Ariel vero Maria ricorda la visita insieme del 19/9/1922 all’Abbazia di Maguzzano). Fu, scrive Caburlotto, “una relazione dai risvolti probabilmente sensuali” (p.XIV) …”nel novembre 1925 esiste già un rapporto relativamente stabile e duraturo comprovato dal nomignolo – Mariasca o Mariaska – e dal tono a tratti ammiccante della missiva” (p.XX). E’ indicativo, precisa il curatore, anche l’incipit della prima lettera, dove, rivolgendosi a Mariasca, abolisce il “Suor” in quanto “non più francescano né credente”, rinunciando alla terminologia religiosa con cui appellava le donne a lui intime. Il legame sessuale, testimoniato anche da persone a loro vicine, si affievolì col tempo, traducendosi in disinteressata quanto sincera amicizia; forse contribuì il carattere di Maria, arrendevole, troppo facile conquista, plagiata dal magnetismo (anche nella valenza esoterica, presente nel carteggio, vedi lettera VIII del 19/6/1927) del Comandante, uso a disinteressarsi dell’amante di turno quando non si trovava “di fronte ad una personalità eccezionale, in grado di resistere a quel processo di appropriamento, e per certi aspetti plagio, tipico dell’ars amatoria dannunziana” (p.XXII).
Il carteggio ricostruisce così l’iter di questa amicizia, pur tra vuoti di comunicazione da parte del Comandante, affettuosamente rimproverato da Maria, che si definisce “piccola oca” (lettera XL) di fronte alla ieratica figura del Vate (tale appariva ai suoi occhi idealizzanti; in realtà, come ricordava Ojetti nell’agosto 1937, la decadenza fisica manifesta aveva ben poco di ieratico). Se l’intesa sessuale scemò rapidamente, si consolidò in sua vece una amicizia che si protrasse per lunghi anni, poggiando, oltre che sul comune interesse esoterico, su amicizie comuni, come quella dello storico di Venezia Pompeo Ghepardi Molmenti, del medico personale Duse (in nome ricorre….), di Luisa Baccara, la celebre pianista che seguì il Vate sino al giorno della morte, e del figlio Franco, che costituì l’anello di congiunzione tra Mariasca e d’Annunzio.
Si è accennato alla componente esoterica che lega i protagonisti del carteggio, con il coinvolgimento anche di Franco: “O Franc’arciere, sei dunque anche tu – come il tuo Comandante orbo veggente – anche tu sei un spirito” radiale”?” (lettera XXX del 16/11/1934). In effetti, nota il curatore, “fra i temi che si intrecciano nel presente carteggio, spiccano due costanti, per certi versi correlate, ovvero l’esoterismo e i reiterati riferimenti alla vecchiaia e alla morte” (p.XXV). Grazie anche agli studi recenti di Attilio Mazza, l’attenzione alla componente esoterica e, più in generale, l’interesse dannunziano per la sfera dell’occulto, è stato considerato con maggiore attenzione e meno in superficie, prescindendo dal giudizio del suo segretario Antongini, che lo riduceva a mera componente di curiosità o al congenito desiderio di stupire; come scrive il curatore: “Maria fu particolarmente attiva nell’ambito della negromanzia e più in generale dell’esoterismo, fungendo, come ricordano testimoni, in prima persona come medium, e vantando, come lo stesso d’Annunzio, doti pranoterapiche” (p.XXIII). Ricordiamo, per curiosità, che il suo medico personale Duse nell’estate del 1926 si disse guarito dall’imposizione delle mani del d’Annunzio sulla parte dolorante a causa di una pleurite. In tal senso, nella lettera II così si rivolge a Maria: “so che fu molto benefico il tocco delle mie lievissime dita sopra le vostre palpebre inquiete”; nella lettera IV: “la mia “virtù” non vi abbandona”, citando la parabola della Emorroissa nel Vangelo di Luca (VIII, 46); nella lettera V: “ le “voci” mi ripetono da più giorni che è necessario lasciare la vecchia casaa”, riferendosi al disagio di Maria accanto al marito Pietro Lombardi, uomo rude e introverso, all’interno di un matrimonio incrinato dalla liason con d’Annunzio (nella lettera XII Maria definirà la sua casa “la mia prigione”); la già citata lettera VIII, dove invita Mariasca ad appuntare nella sua camicia di inferma “queste tra spille magnetiche”, ricordandole di pronunciare, al suo risveglio, a bassa voce la parola “Privignis”, talismano citato da Maria nella lettera IX; la lettera XII, dove Maria si appella al Comandante: “Voi solo potreste guarirmi: Voi solo siete il grande Mago”; la già citata lettera XXX, dove il Comandante si rivolge a Franco Lombardi riconoscendogli “un spirito radiale”; la lettera XXXIII, dove Maria si definisce sensitiva: “sono un poco indovina e sento che la prossima settimana il male che Vi tormenta sarà scomparso”.
Anche nei documenti acroni e non databili troviamo riferimenti all’esoterismo, come nella lettera LXII, dove Maria si firma “la vostra Liù”, nomignolo saltuariamente utilizzato quando fungeva da medium o quando si riferiva al suo spirito guida; nella lettera LXX, dove Maria, in stato preestatico, complice la “la Cerasella” (il cherry brandy), sente il fluido del Comandante che passa sotto gli usci; nella lettera LXXI, dove Maria allude ai presunti poteri di d’Annunzio, definendolo il “ grande Divinatore”.
Dunque l’esoterismo appare quale costante strutturale del carteggio, che unisce in un vincolo triangolare Maria medium e pranoterapeuta, il Comandante – “nell’epistolario elemento ricorrente sono i riferimenti alla dvinazione, alla magia” (p.47) -, il figlio di Maria Franco che, a detta del curatore, “non fu estraneo al culto del paranormale, dell’occulto e del magico (lasciava, ad ogni visita al Comandante, nella stanza del Lebbroso, nella Prioria, biglietti di stampo esoterico))” (p.XXV). Non dimentichiamo, poi, che fu la marchesa Luisa Casati Stampa (Corè) ad introdurre d’Annunzio all’occulto, coltivando una naturale propensione del Vate, legata, forse, al retroterra superstizioso-pagano della terra d’Abruzzo. E non è un caso che la figura della Corè sia facilmente accostabile a quella di Mariasca “due donne estremamente eccentriche ed emancipate, di agiate condizioni economiche, sposate, ma al contempo disilluse e annoiate dal matrimonio, attratte entrambe dagli aspetti magici ed esoterici” (p.XXIII).
L’altra componente strutturale del carteggio, non disgiunta dalla prima, è rappresentata dai “reiterati riferimenti alla vecchiaia e alla morte” (p:XXV), nonché alla solitudine e alla malinconia.
Scrive Umberto Serbo nell’intervento Il Trionfo della Morte: autobiografia ossessiva di Gabriele d’Annunzio: “Un’altra ossessione dell’uomo d’Annunzio – che si rispecchia nel romanzo ed entra anzi fra i suoi costituenti di base, a cominciare dal titolo – è la paura della perdita della giovinezza e della forza, la paura della “turpe vecchiezza”” (Atti del III Congresso Internazionale di studi dannunziani, p.323). Ricordiamo che il carteggio in esame occupa, temporalmente, “gli anni del tramonto, del decadimento, nei quali più volte sono posti in primo piano la malinconia per la giovinezza perduta, la malattia e la morte, quella stessa inafferrabile nemica, lungamente sfidata nel periodo bellico, e indicata nel Notturno come traditrice per non averlo colto, non concedendogli così una fine gloriosa, eroica e affrancata dal declino fisico della senescenza” (p.XXVIII). Nel carteggio, in verità, eccetto il riferimento presente in Ariel vero “sopportava la vecchiaia come malattia impietosa” (p.53), i riferimenti alla “turpe vecchiezza” appaiono solo in modo indiretto (diversamente dal Libro segreto), come è testimoniato dalla lettera XXV, dove si rivolge a Franco Lombardi, destinato a ricondurgli “la più lontana e la più straziante delle malinconie”, o dalla denuncia dei mali del fisico e dello spirito, come nella lettera VI, dove lega la sua (momentanea) guarigione all’uccisione del “ragno nero nel cervello”; o nella lettera XIII, del 6/2/1928, dove si dice “tuttora malato”. Resta implicito il riferimento nella lettera XXIII al “male misterioso, senile forse, con una causa giovanile” che gli impedisce di vedere Mariasca, male misterioso cui questa accenna nella lettera XXXIII: “il vostro male misterioso, doloroso, ci ha accorato molto”. Come scrive il curatore nell’introduzione: “spicca, a più riprese, un crescente senso di tristezza e di malinconia….al decadimento fisico si accompagna una sempre più marcata percezione di isolamento e di approssimarsi della fine” (pp.XXVIII-XXIX).
Così nelle missive emergono, col passare del tempo, progressivamente, riferimenti alle malattie del corpo e, più ancora, dello spirito, più difficili da curare; così, alla già citata del 28/4/1933, dove la giovinezza perduta è “la più straziante delle malinconie”, c’è la risposta di Franco Lombardi del 30/4/1933, il quale teme per la sua “malinconia”; allo stesso modo si vedano i messaggi di Maria che lo rivelano malato e “malinconico”, in preda alla “nera tristezza” (lettera XXXI, novembre 1934), sino alla confessione più drammatica (ma quale è il margine narcisistico della autocommiserazione dannunziana?) del 9/2/1936, dove il Vate si dichiara “tanto infelice che alcune parole della vostra lettera infantile mi danno la voglia di piangere. Io, piangere, il guerriero e il tiranno! La stanza del Prigione (= la camera da letto) è irta di laceranti aculei come una botola di tortura. Sono solo, disteso, a fior di terra. Scendo nel buio a poco a poco” (lettera XXXIV).
Il già citato Ubaldo Serbo scriveva, nel suo contributo di studi sul Trionfo della morte, che “certi atteggiamenti che siamo soliti definire femminei non contraddicono l’idea del guerriero, anzi sono con essa in perfetta consonanza. Come gli eroi dei poemi classici e quelli dei poemi cavallereschi, d’Annunzio piange” (op.cit., p.322): possiamo perciò motivare la debolezza riportandola alla sua accesa emotività. La camera da letto è diventata una stanza di tortura. Quello che colpisce di più è la chiusa: il poeta è solo, disteso a fior di terra, pronto per essere assorbito da essa nella invocata “pace orizzontale” (lettera all’amico Maroni del 28/1/1936), e scende nel buio a poco a poco. Non c’è più il “salto nel vuoto” che ritorna ossessivamente nel Trionfo della morte, ma c’è un lento, inesorabile, processo di assorbimento da parte della terra su cui è disteso, parallelo alla perdita delle energie vitali di cui si sente svuotato (e che il ricorso alla cocaina non impedisce). La scotoestesia non poteva essere resa in modo più efficace.
Altro tema correlato è la solitudine del poeta. Negli anni del Vittoriale d’Annunzio vede scomparire poco per volta gli amici e i compagni di tanti gesti eroici e, nonostante la disperata ricerca di compagnia femminile, sempre più prezzolata e sempre meno affidabile (non mancano i piccoli furti dopo le visite), selezionata dall’infaticabile Aélis – cameriera, mezzana, amante del poeta -, questi è sempre più solo. E la solitudine, estraniante per il Vate quanto per gli altri che gli sono vicini, come Maria che vorrebbe comunicare, occhieggia nelle missive del carteggio. Con il trascorrere del tempo, al Vittoriale, la presenza del Comandante, che pur non si allontana dal mausoleo in cui si è autocelebrato di fronte al fascismo e all’Italia tutta, si fa sempre più rarefatta, sfuggente, chiuso a chiavistello nelle innumerevoli stanze, chiavistello esecrato da Maria che, paziente, attende accontentandosi solo di vederlo, anche di sfuggita: “Non posso staccarmi da questo cattivo catenaccio” (lettera LXXIII). Ciò emerge soprattutto nei documenti acroni e non databili (lettere XLV-LXXIV), dove vediamo Maria ansiosa e frustrata nel suo tentativo di violare la solitudine del Comandante; così: “Sono qua nella Vostra dolce loggia del Parente (= luogo conviviale nonché deputato a cerimonie). Vi vedo e Vi sento in ogni cosa” (lettera XLV); “Sono qua – Vi respiro – Vi sento e ho perduto la speranza di vedervi….Incarico santo Francesco (= riferimento alla statua bronzea nei giardini privati), che avrà la fortuna di vederVi qualche vota in giardino, di guardare per me” (lettera LI); “Spero di vedere finalmente il mio Comandante. Guardo commossa tutti gli usci – tremo un poco” (lettera LII); “[al Cinepalazzo] Poi siete scappato così presto” (lettera LIII); “Metto sotto alla Vostra porta chiusa il mio saluto” (lettera LIV); “Voi date tutto – tutto – sempre – mai però il dono più bello: la gioia di lasciarVi vedere….Domando di lasciare socchiusa – non aperta – la prima porta – quella dell’odioso catenaccio. Vi vedrò da lontano” (lettera LV); “Caro Comandante non Vi vediamo mai” (lettera LXIV); “Vorremmo poter vivere nascosti giorno e notte fra le Vostre belle tende per avere la gioia di vederVi ad ogni minuto, senza disturbarvi” (lettera LXVIII); “Socchiudete l’uscio odiosissimo” (lettera LXIX); “Il vostro fluido che passa sotto gli usci” (lettera LXX); “Addio invisibilissimo e carissimo Comandante” (lettera LXXIII).
D’Annunzio, dunque, si nega anche solo alla vista, più inavvicinabile di Pitagora, che poteva essere guardato dai discepoli solo dietro una tenda. L’affezionata Maria (la passione sensuale di un tempo – “Ecco intanto quelques fleurs per quel che “non si può”” – ammiccava il poeta – ha lasciato il passo ad una affettuosa amicizia) non riesce a violare “la sovrana solitudine” (p.VII) del Comandante, e si dispera.
In chiusura del volume è riportato il diario-romanzo di Maria Lombardi “una finta scrittura privata, come la presenza di una titolatura già suggerisce, per lo più basata su memorie personali, e al contempo di chiara matrice agiografica, presumibilmente redatta dalla donna ipotizzandone la pubblicazione” (Introduzione, p.XXXVII). I trenta frammenti di Ariel vero (dove l’aggettivo vuole sottolineare l’assoluta fedeltà nella presentazione del protagonista, al di là delle “stupide invenzioni giornalistiche”) lo ritraggono in ambienti e situazioni differenti, con esplicito intento celebrativo.
Quanto c’è di autentico e quanto di romanzato nel piccolo diario? Difficile da stabilirsi. Se il frammento intitolato La fede, relativo alla richiesta del poeta di essere “segnato” da Maria con il segno della croce sulla fronte “non usa”, appare confermato da un passato narrato da Aélis e apparso in “Carrefour” del 25/7/1950, l’ultimo frammento che ricostruisce la morte del poeta il 1 marzo 1938 “presumibilmente è molto romanzato” (nota del curatore, p.66), anche se coincide con le testimonianze di Luisa Baccara e di Aélis, infatti “riteniamo inverosimile la presenza di Maria Bellini Gritti in Lombardi all’atto della morte del poeta” (nota del curatore, p.XL). Altri elementi che incrinano la granitica affermazione di verità storica possono essere la ostentata matrice encomiastica e celebrativa, la forma stessa scelta dall’autrice per presentare il protagonista, e cioè la prosa di memoria “per sua natura non attendibile in quanto soggetta ai filtri soggettivi e coscienziali esercitati dall’autore stesso” (p.XXXVIII) e infine il carattere metaletterario di alcuni frammenti, come quello relativo alla visita dell’Abbazia di Maguzzano (Clausura, p.60), che ricorda da vicino un episodio del Fuoco. A complicare ulteriormente il problema della rispondenza fedele del testo alla realtà, ci sono gli interventi censori del figlio Franco Lombardi, che giunse anche a distruggere alcune lettere evidentemente allusive al legame sensuale tra i due protagonisti.
In conclusione, come scrive il curatore nella sua introduzione, i trenta frammenti “descrivono brevi spaccati, sbozzi di avvenimenti, sensazioni, emozioni e peculiarità fisiche e morali di d’Annunzio, in un’ottica di celebrazione dell’uomo oltre che dell’artista” (p.XXXVIII). L’opera di ricostruzione dell’epistolario e la presentazione del testo inedito Ariel vero si configurano come un originale e prezioso contributo agli studi dannunziani operato da Filippo Caburlotto, che con quest’opera porta avanti il suo lavoro di ricerca sulla figura e sull’opera dell’Imaginifico.
Guido Galliano