Esule anch'io, pensoso di te, di te sempre pensoso,
Roma, non fra gli intonsi barbari Ovidio sono
né mi colpí lo sdegno di Cesare, ma la funesta
dea che la tua campagna orrida e sacra tiene
Mi visitò nel sonno la livida Febbre; e il mortale
tossico, me misero! tutto il mio sangue tiene.
Lugubre è il mio perire, se ben non sia questo il feroce
Ponto e non la scitica freccia nel cuore io tema.
Sotto sereni cieli piú duro è l'esilio a tal cuore
cui piú nessuna cosa che amò rimane.
Stanca è la carne e spira già l'anima, in questa incompresa pace.
Oh lasciate un'Ombra verso la morte andare!
Tutto è sereno. Il flutto è docile. Incurvasi il lido
come una lira, dove sorgono emerocàli
simili agli asfodeli che illustrano i clivi de l'Ade,
candidi. Ma non questa pace il morente chiede.
Chiede il silenzio immenso, eterno, che sta su l'immoto
fascino del deserto onde tu sorgi, o Roma.
Quale alto monte, quale oceano infinito, qual somma
tenebra vince tanta solitudine?
Quivi la morte sia. Ti vegga da lungi piú grande
d'ogni più grande cosa il morituro e - Ave -
dica - o tu, Roma, tu dolce e tremenda! Ave, o Roma
unica, o dell'anima nostra unica patria!