mercoledì 30 giugno 2021

Il Piacere. Libro Primo [2]

 Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte.

A questa classe, ch’io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto splendore nell’amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. L’urbanità, l’atticismo, l’amore delle delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie. Un Alessandro Sperelli, nel 1466, portò a Federico d’Aragona, figliuolo di Ferdinando re di Napoli e fratello d’Alfonso duca di Calabria, il codice in foglio contenente alcune poesie « men rozze » de’ vecchi scrittori toscani, che Lorenzo de’ Medici aveva promesso in Pisa nel ’65; e quello stesso Alessandro scrisse per la morte della divina Simonetta, in coro con i dotti del suo tempo, una elegìa latina, malinconica ed abbandonata a imitazion di Tibullo. Un altro Sperelli, Stefano, nel secolo medesimo, fu in Fiandra, in mezzo alla vita pomposa, alla preziosa eleganza, all’inaudito fasto borgognone; ed ivi rimase alla corte di Carlo il Temerario, imparentandosi con una famiglia fiamminga. Un figliuol suo, Giusto, praticò la pittura sotto gli insegnamenti di Giovanni Gossaert; e insieme col maestro venne in Italia, al seguito di Filippo di Borgogna ambasciator dell’imperator Massimiliano presso il papa Giulio II, nel 1508. Dimorò a Firenze, dove il principal ramo della sua stirpe continuava a fiorire; ed ebbe a secondo maestro Piero di Cosimo, quel giocondo e facile pittore, forte ed armonioso colorista, che risuscitava liberamente col suo pennello le favole pagane. Questo Giusto fu non volgare artista; ma consumò tutto il suo vigore in vani sforzi per conciliare la primitiva educazione gotica con il recente spirito del Rinascimento. Verso la seconda metà del secolo XVII la casata degli Sperelli si trasportò a Napoli. Ivi nel 1679 un Bartolomeo Sperelli pubblicò un trattato astrologico De Nativitatibus; nel 1720 un Giovanni Sperelli diede al teatro un’opera buffa intitolata La Faustina e poi una tragedia lirica intitolata Progne; nel 1756 un Carlo Sperelli stampò un libro di versi amatorii in cui molte classiche lascivie erano rimate con l’eleganza oraziana allora di moda. Miglior poeta fu Luigi, ed uomo di squisita galanteria, alla corte del re lazzarone e della regina Carolina. Verseggiò con un certo malinconico e gentile epicureismo, assai nitidamente; ed amò da fino amatore, ed ebbe avventure in copia, talune celebri, come quella con la marchesa di Bugnano che per gelosia s’avvelenò, e come quella con la contessa di Chesterfield che morta etica egli pianse in canzoni, odi, sonetti ed elegìe soavissime sebbene un poco frondose.
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d’una razza intelettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a vent’anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l’Europa.
L’educazione d’Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura ma anche dall’esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un’altra forza, della forza morale che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: « Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui. »
Anche, il padre ammoniva: « Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: – Habere, non haberi. »
Anche, diceva: « Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni. »
Ma queste massime volontarie, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.
Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma. « Il sofisma » diceva quell’incauto educatore « è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofismi fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso. »
Un tal seme trovò nell’ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch’egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio.
Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d’una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de’ suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d’Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d’Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda « Che vorreste voi essere? » egli aveva scritto « Principe romano ».
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il suo home nel palazzo Zuccari alla Trinità de’ Monti, su quel dilettoso tepidario cattolico dove l’ombra dell’obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d’invincibile tristezza. Era una estate di San Martino, una primavera de’ morti, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d’oro come una città dell’Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne’ mari australi.
Quel languore dell’aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere la loro realità e divenire immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione infinita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità, di nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla mutazione del clima, delle abitudini, degli usi. L’anima converte in fenomeni psichici le impressioni dell’organismo mal definite, a quella guisa che il sogno trasforma secondo la sua natura gli incidenti del sonno.
Certo egli ora entrava in un novello stadio. – Avrebbe alfin trovato la donna e l’opera capaci d’impadronirsi del suo cuore e di divenire il suo scopo? – Non aveva dentro di sé la sicurezza della forza né il presentimento della gloria o della felicità. Tutto penetrato e imbevuto di arte, non aveva ancóra prodotto nessuna opera notevole. Avido d’amore e di piacere, non aveva ancóra interamente amato né aveva ancor mai goduto ingenuamente. Torturato da un Ideale, non ne portava ancóra ben distinta in cima de’ pensieri l’imagine. Aborrendo dal dolore per natura e per educazione, era vulnerabile in ogni parte, accessibile al dolore in ogni parte.
Nel tumulto delle inclinazioni contraddittorie egli aveva smarrito ogni volontà ed ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio; così che si poteva dire che la sua vita fosse una continua lotta di forze contrarie chiusa ne’ limiti d’un certo equilibrio. Gli uomini d’intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezion della Bellezza è, dirò così, l’asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano.
Fluttuava ancóra su quella tristezza il ricordo di Costantia Landbrooke, vagamente, come un profumo svanito. L’amore di Conny era stato un assai fino amore; ed ella era una molto piacevole donna. Pareva una creatura di Thomas Lawrence; aveva in sé tutte le minute grazie feminine che son care a quel pittore dei falpalà, dei merletti, dei velluti, degli occhi luccicanti, delle bocche semiaperte; era una seconda incarnazione della piccola contessa di Shaftesbury. Vivace, loquace, mobilissima, prodiga di diminutivi infantili e di risa scampanellanti, facile alle tenerezze improvvise, alle malinconie subitanee, alle rapide ire, ella portava nell’amore molto movimento, molta varietà, molti capricci. La sua qualità più amabile era la freschezza, una freschezza tenace, continua, di tutte le ore. Quando si svegliava, dopo una notte di piacere, ella era tutta fragrante e monda come se uscisse allora dal bagno. La figura di lei, infatti, tornava nella memoria di Andrea specialmente con un’attitudine; con i capelli in parte sciolti sul collo e raccolti in parte al sommo del capo da un pettine fatto di greche d’oro; con l’iride degli occhi natante nel bianco, come una viola pallida nel latte; con la bocca aperta, rorida, tutta illuminata da’ denti ridenti nel sangue roseo delle gengive; all’ombra delle cortine che diffondevano sul letto un albore tra glauco ed argenteo, simile alla luce d’un antro marittimo.
Ma il cinguettio melodioso di Conny Landbrooke era passato su l’animo di Andrea come una di quelle musiche leggere che lascian per qualche tempo nella mente un ritornello. Più d’una volta ella gli aveva detto, in qualche sua malinconia vespertina, con gli occhi velati di lacrime: « I know you love me not… » Egli, infatti, non l’amava, non n’era pago. Il suo ideale muliebre era men nordico. Idealmente, egli si sentiva attratto da una di quelle cortigiane del secolo XVI che sembrano portar sul volto non so qual velo magico, non so qual transparente maschera incantata, direi quasi un oscuro fascino notturno, il divino orrore della Notte.
Incontrando la duchessa di Scerni, Donna Elena Muti, egli pensò: « Ecco la mia donna. » Tutto il suo essere ebbe una sollevazione di gioia, nel presentimento del possesso.
Fu il primo incontro in casa della marchesa d’Ateleta. Questa cugina d’Andrea nel palazzo Roccagiovine aveva saloni molto frequentati. Ella attraeva specialmente per la sua arguta giocondità, per la libertà de’ suoi motti, per il suo infaticabile sorriso. I lineamenti gai del volto rammentavano certi profili feminini ne’ disegni del Moreau giovine, nelle vignette del Gravelot. Ne’ modi, ne’ gusti, nelle fogge del vestire ella aveva qualche cosa di pompadouresco, non senza una lieve affettazione, poiché era legata da una singolar somiglianza alla favorita di Luigi XV.
Il mercoledì d’ogni settimana Andrea Sperelli aveva un posto alla mensa della marchesa. Un martedì a sera, in un palco del Teatro Valle, la marchesa gli aveva detto, ridendo:

  • Bada di non mancare, Andrea, domani. Abbiamo tra gli invitati una persona interessante, anzi fatale. Premunisciti però contro la malia… Tu sei in un momento di debolezza.
    Egli le aveva risposto, ridendo:
  • Verrò inerme, se non ti dispiace, cugina; anzi in abito di vittima. E’ un abito di richiamo, che porto da molte sere; inutilmente, ahimè!
  • Il sacrificio è prossimo, cugino mio.
  • La vittima è pronta.
    La sera seguente, egli venne al palazzo Roccagiovine alcuni minuti prima dell’ora consueta, avendo una mirabile gardenia all’occhiello e una inquietudine vaga in fondo all’anima. Il suo coupé si fermò innanzi alla porta, perché l’androne era già occupato da un’altra carrozza. Le livree, i cavalli, tutta la cerimonia che accompagnava la discesa della signora, avevano l’impronta della grande casata. Il conte intravide una figura alta e svelta, un’acconciatura tempestata di diamanti, un piccolo piede che si posò sul gradino. Poi, come anch’egli saliva la scala, vide la dama alle spalle.
    Ella saliva d’innanzi a lui, lentamente, mollemente, con una specie di misura. Il mantello foderato d’una pelliccia nivea come la piuma de’ cigni, non più retto dal fermaglio, le si abbandonava intorno al busto lasciando scoperte le spalle. Le spalle emergevano pallide come l’avorio polito, divise da un solco morbido, con le scapule che nel perdersi dentro i merletti del busto avevano non so qual curva fuggevole, quale dolce declinazione di ali; e su dalle spalle svolgevasi agile e tondo il collo; e dalla nuca i capelli, come ravvolti in una spira, piegavano al sommo della testa e vi formavano un nodo, sotto il morso delle forcine gemmate.
    Quell’armoniosa ascensione della dama sconosciuta dava agli occhi d’Andrea un diletto così vivo ch’egli si fermò un istante, sul primo pianerottolo, ad ammirare. Lo strascico faceva su i gradini un fruscìo forte. Il servo caminava indietro, non su i passi della sua signora lungo la guida di tappeto rosso, ma da un lato, lungo la parete, con una irreprensibile compostezza. Il contrasto tra quella magnifica creatura e quel rigido automa era assai bizzarro. Andrea sorrise.
    Nell’anticamera, mentre il servo prendeva il mantello, la dama gittò uno sguardo rapidissimo al giovine ch’entrava. Questi udì annunziare:
  • Sua Eccellenza la duchessa di Scerni!
    Sùbito dopo:
  • Il signor conte Sperelli-Fieschi d’Ugenta!
    E gli piacque che il suo nome fosse pronunziato accanto al nome di quella donna.
    Nel salone erano già il marchese e la marchesa d’Ateleta, il barone e la baronessa d’Isola, Don Filippo del Monte. Il fuoco ardeva nel caminetto; alcuni divani erano disposti nel raggio del calore; quattro musae dalle larghe foglie venate di sanguigno si protendevano su le spalliere basse.
    La marchesa, facendosi incontro ai due sopraggiunti, disse con quel suo bel riso inestinguibile:
  • Per l’amabilità del caso, non c’è più bisogno di presentazione tra voi due. Cugino Sperelli, inchinatevi alla divina Elena.
    Andrea s’inchinò profondamente. La duchessa gli offrì la mano, con un gesto di grazia, guardandolo negli occhi.
  • Son molto lieta di vedervi, conte. Mi parlò tanto di voi, a Lucerna, l’estate scorsa, un vostro amico: Giulio Musèllaro. Ero, confesso, un po’ curiosa… Musèllaro anche mi diede a leggere la rarissima vostra Favola d’Ermafrodito e mi regalò la vostra acquaforte del Sonno, una prova avanti lettera, un tesoro. Voi avete in me un’ammiratrice cordiale. Ricordatevi.
    Ella parlava con qualche pausa. Aveva la voce così insinuante che quasi dava la sensazione d’una carezza carnale; e aveva quello sguardo involontariamente amoroso e voluttuoso che turba tutti gli uomini e ne accende d’improvviso la brama.
    Un servo annunziò:
  • Il cavalier Sakumi!
    Ed apparve l’ottavo ed ultimo commensale.
    Era il segretario della Legazione giapponese, piccolo di statura, giallognolo, con i pomelli sporgenti, con gli occhi lunghi ed obliqui, venati di sangue, su cui le palpebre battevano di continuo. Aveva il corpo troppo grosso in paragon delle gambe troppo sottili; e camminava con le punte de’ piedi in dentro, come se una cintura gli stringesse forte le anche. Le falde della sua giubba erano troppo abondanti; i calzoni facevano una quantità di pieghe; la cravatta portava assai visibili i segni della mano inesperta. Egli pareva un daimio cavato fuori da una di quelle armature di ferro e di lacca che somiglian gusci di crostacei mostruosi e poi ficcato ne’ panni d’un tavoleggiante occidentale. Ma, pur nella sua goffagine, aveva un’espressione arguta, una specie di finezza ironica agli angoli della bocca.
    A mezzo del salone, s’inchinò. Il gibus gli cadde di mano.
    La baronessa d’Isola, una bionda piccoletta, dalla fronte tutta coperta di riccioli, graziosa e smorfiosa come una giovine bertuccia, disse con la sua voce acuta:
  • Venite qua, Sakumi, qua, accanto a me!
    Il cavaliere giapponese s’inoltrava reiterando i sorrisi e gli inchini.
  • Vedremo stasera la principessa Issé? – gli domandò Donna Francesca d’Ateleta, che piacevasi di raccogliere ne’ suoi saloni i più bizzarri esemplari delle colonie esotiche in Roma per amor della varietà pittoresca.
    L’Asiatico parlava una lingua barbarica, appena intelligibile, mista d’inglese, di francese e d’italiano.
    Tutti, a un punto, parlavano. Era quasi un coro, di mezzo a cui si levavano di tratto in tratto, come zampilli d’argento, le fresche risa della marchesa.
  • Io vi ho certo veduta un’altra volta; non so più dove, non so più quando, ma vi ho certo veduta – diceva Andrea Sperelli alla duchessa, ritto in piedi d’innanzi a lei. – Su per le scale, mentre vi guardavo salire, nel fondo della mia memoria si risvegliava un ricordo indistinto, qualche cosa che prendeva forma seguendo il ritmo di quel vostro salire, come un’imagine nascente da un’aria di musica… Non son giunto ad aver limpido il ricordo; ma, quando vi siete voltata, ho sentito che il vostro profilo aveva una non dubbia rispondenza con quella imagine. Non poteva essere una divinazione; era dunque un oscuro fenomeno della memoria. Io vi ho certo veduta, un’altra volta. Chi sa! Forse in un sogno, forse in una creazione d’arte, forse anche in un diverso mondo, in una esistenza anteriore…
    Pronunziando queste ultime frasi troppo sentimentali e chimeriche, egli rise apertamente come per prevenire un sorriso o incredulo o ironico della dama. Elena invece rimase grave.
    « Ascoltava ella o pensava ad altro? Accettava ella quella specie di discorsi o voleva con quella serietà prendersi gioco di lui? Intendeva ella di secondare l’opera di seduzione iniziata da lui così sollecitamente o si chiudeva nell’indifferenza e nel silenzio incurante? Era ella, insomma, una donna per lui espugnabile o no? » Andrea, perplesso, interrogava il mistero. A quanti hanno l’abitudine della seduzione, specialmente ai temerarii, è nota questa perplessità che certe donne sollevano tacendo.
    Un servo aprì la grande porta che dava nella sala da pranzo.
    La marchesa mise il suo braccio sotto quello di Don Filippo del Monte e diede l’esempio. Gli altri seguirono.
  • Andiamo – disse Elena.
    Parve ad Andrea che ella gli si appoggiasse con un po’ di abbandono. « Non era un’illusione del suo desiderio? Forse. » Egli pendeva nel dubbio; ma, ad ogni attimo che passava, si sentiva più a dentro conquistare dalla malia dolcissima; ad ogni attimo gli cresceva l’ansietà di penetrare l’animo della donna.
  • Cugino, qui – disse Donna Francesca assegnandogli il posto.
    Nella tavola ovale, egli stava tra il barone d’Isola e la duchessa di Scerni, avendo di fronte il cavaliere Sakumi. Il quale stava tra la baronessa d’Isola e Don Filippo del Monte. Il marchese e la marchesa occupavano i capi. Su la mensa le porcellane, le argenterie, i cristalli, i fiori scintillavano.
    Assai poche dame potevan gareggiare con la marchesa d’Ateleta nell’arte di dar pranzi. Ella metteva più cura nella preparazione di una mensa che in un abbigliamento. La squisitezza del suo gusto appariva in ogni cosa; ed ella era, in verità, l’arbitra delle eleganze conviviali. Le sue fantasie e le sue raffinatezze si propagavano per tutte le tavole della nobiltà quirite. Ella, appunto, in quell’inverno aveva introdotta la moda delle catene di fiori sospese dall’un capo all’altro, fra i grandi candelabri; ed anche la moda dell’esilissimo vaso di Murano, latteo e cangiante come l’opale, con entro una sola orchidea, messo tra i varii bicchieri innanzi a ciascun convitato.
  • Fior diabolico – disse Donna Elena Muti, prendendo il vaso di vetro e osservando da vicino l’orchidea sanguigna e difforme.
    Ella aveva la voce così ricca di suono che anche le parole più volgari e le frasi più comuni parevano prendere su la sua bocca non so qual significato occulto, non so qual misterioso accento e qual grazia nuova. Alla guisa medesima il re frigio faceva d’oro quantunque cose ei toccasse con la mano.
  • Fiore simbolico, tra le vostre dita – mormorò Andrea, guardando la dama che in quell’attitudine era sovrammirabile.
    La dama vestiva un tessuto d’un color ceruleo assai pallido, sparso di punti d’argento, che brillava di sotto ai merletti antichi di Burano bianchi d’un bianco indefinibile, pendente un poco nel fulvo ma tanto poco che appena pareva. Il fiore, quasi innaturale, come generato da un malefizio, ondeggiava in sul gambo, fuor di quel fragile tubo che certo l’artefice avea foggiato con un soffio in una gemma liquefatta.
  • Ma io preferisco le rose – disse Elena, posando l’orchidea, con un atto di repulsione che faceva contrasto al suo precedente moto di curiosità.
    Poi si gettò nella conversazione generale. Donna Francesca parlava dell’ultimo ricevimento all’Ambasciata d’Austria.
  • Vedesti Madame de Cahen? – le chiese Elena. – Aveva un abito di tulle giallo tempestato di non so quanti colibrì con gli occhi di rubino. Una magnifica uccelliera danzante… E Lady Ouless, la vedesti? Aveva una vesta di tarlatane bianca, tutta sparsa di alghe marine e di non so che pesci rossi, e su l’alghe e su i pesci una seconda vesta di tarlatane verdemare. Non la vedesti? Un acquario di bellissimo effetto…
    Ed ella, dopo le piccole maldicenze, rideva d’un riso cordiale che le dava un tremolio alla parte inferiore del mento e alle narici.
    D’innanzi a quella volubilità incomprensibile, Andrea rimaneva ancor titubante. Quelle cose frivole o maligne uscivano dalle stesse labbra che allora allora, pronunziando una frase semplicissima, l’avevan turbato fin nel profondo; uscivano dalle stesse labbra che allora allora, tacendo, eragli parsa la bocca della Medusa di Leonardo, umano fiore dell’anima divinizzato dalla fiamma della passione e dall’angoscia della morte. « Qual era dunque la vera essenza di quella creatura? Aveva ella percezione e conscienza della sua metamorfosi costante o era ella impenetrabile anche a sé stessa, rimanendo fuori dal proprio mistero? Quanto nelle sue espressioni e manifestazioni entrava d’artificio e quanto di spontaneità? » Il bisogno di conoscere lo pungeva anche fra la delizia in lui effusa dalla vicinanza della donna ch’egli incominciava ad amare. La trista consuetudine dell’analisi l’incitava pur sempre, gli impediva pur sempre di obliarsi; ma ogni tentativo era punito, come la curiosità di Psiche, dall’allontanamento dell’amore, dall’offuscamento dell’oggetto vagheggiato, dalla cessazion del piacere. « Non era meglio, invece, abbandonarsi ingenuamente alla prima ineffabile dolcezza dell’amor che nasceva? » Egli vide Elena nell’atto di bagnare le labbra in un vino biondo come un miele liquido. Scelse tra i bicchieri quello ove il servo aveva versato un egual vino; e bevve con Elena. Ambedue, nel tempo medesimo, posarono su la tovaglia il cristallo. La comunità dell’atto fece volgere l’una verso l’altro. E lo sguardo li accese ambedue, più assai del sorso.
  • Non parlate? – chiesegli Elena, con un’affettazione di leggerezza, che le alterava un poco la voce. – Corre fama voi siate uno squisitissimo parlatore… Scuotetevi, dunque!
  • Ah, cugino, cugino! – esclamò Donna Francesca, con un’aria di commiserazione, mentre Don Filippo del Monte le mormorava qualche cosa nell’orecchio.
    Andrea si mise a ridere.
  • Cavaliere Sakumi, noi siamo i taciturni. Scuotiamoci!
    All’Asiatico scintillarono di malizia i lunghi occhi, ancor più rosseggianti sul rossor fosco che i vini gli accendevano ai pomelli. Fino a quel momento, egli aveva guardato la duchessa di Scerni, con l’espressione estatica d’un bonzo che sia nel conspetto della divinità. La sua larga faccia, che pareva uscita fuori da una pagina classica del gran figuratore umorista O-kou-sai, rosseggiava come una luna d’agosto, tra le catene de’ fiori.
  • Sakumi – soggiunse a bassa voce Andrea, chinandosi verso Elena – è innamorato.
  • Di chi?
  • Di voi. Non ve ne siete accorta?
  • No.
  • Guardatelo.
    Elena si volse. E l’amorosa contemplazione del daimio travestito le chiamò alle labbra un riso così aperto che quegli si sentì ferire e restò visibilmente umiliato.
  • Tenete – ella disse per compensarlo; e, spiccando dal festone una camelia bianca, la gittò all’inviato del Sol Levante. – Trovate una similitudine, in mia lode.
    L’Asiatico portò la camelia alle labbra, con un gesto comico di divozione.
  • Ah, Ah, Sakumi, – fece la piccola baronessa d’Isola – voi mi siete infedele!
    Egli balbettò qualche parola, accendendosi anche più nel volto. Tutti ridevano, liberamente, come se quello straniero fosse stato invitato appunto per dare agli altri argomento di gioco. E Andrea, ridendo, si volse alla Muti.
    Ella tenendo il capo sollevato, anzi piegato indietro un poco, guardava il giovine furtivamente, di fra le palpebre socchiuse, con uno di quegli indescrivibili sguardi della donna, che paiono assorbire e quasi direi bevere dall’uom preferito tutto ciò che in lui è più amabile, più desiderabile, più godibile, tutto ciò che in lei ha destata quella istintiva esaltazion sessuale da cui ha principio la passione. I lunghissimi cigli velavano l’iride inclinata all’angolo dell’orbita; e il bianco nuotava come in una luce liquida, un po’ azzurra; e un tremolio quasi impercettibile moveva la palpebra inferiore. Pareva che il raggio dello sguardo andasse alla bocca di Andrea, come alla cosa più dolce.
    Elena era presa, infatti, da quella bocca. Pura di forma, accesa di colore, gonfia di sensualità, con un’espressione un po’ crudele quando rimaneva serrata, quella bocca giovenile ricordava per una singolar somiglianza il ritratto del gentiluomo incognito ch’è nella Galleria Borghese, la profonda e misteriosa opera d’arte in cui le imaginazioni affascinate credetter ravvisare la figura del divino Cesare Borgia dipinta dal divino Sanzio. Quando le labbra si aprivano al riso, quell’espressione fuggiva; e i denti bianchi quadri, eguali, d’una straordinaria lucentezza, illuminavano una bocca tutta fresca e gioconda come quella d’un fanciullo.
    Appena Andrea si volse, Elena ritrasse lo sguardo; ma non così presto che il giovine non ne cogliesse il baleno. N’ebbe egli una gioia così forte che sentì salire alle gote una fiamma. « Ella mi vuole! Ella mi vuole! » pensò, esultando, nella certezza d’aver già conquistata la rarissima creatura. Ed anche pensò: « E’ un piacere non mai provato. »
    Ci sono certi sguardi di donna che l’uomo amante non iscambierebbe con l’intero possesso del corpo di lei. Chi non ha veduto accendersi in un occhio limpido il fulgore della prima tenerezza non sa la più alta delle felicità umane. Dopo, nessun altro attimo di gioia eguaglierà quell’attimo.
    Elena domandò, mentre intorno la conversazione facevasi più viva:
  • Resterete a Roma tutto l’inverno?
  • Tutto l’inverno, e oltre – rispose Andrea, a cui quella semplice domanda parve chiudere una promessa d’amore.
  • Avete dunque una casa?
  • Casa Zuccari: domus aurea.
  • Alla Trinità de’ Monti? Voi felice!
  • Perché felice?
  • Perché voi abitate in un luogo ch’io prediligo.
  • V’è raccolta, è vero? come un’essenza in un vaso, tutta la sovrana dolcezza di Roma.
  • E’ vero! Tra l’obelisco della Trinità e la colonna della Concezione è sospeso ex-voto il mio cuore cattolico e pagano.
    Ella rise di quella frase. Egli aveva pronto un madrigale intorno il cuor sospeso, ma non lo profferì; perché gli spiaceva di prolungare il dialogo su quel tono falso e leggero e di disperdere così l’intimo suo godimento. Tacque.
    Ella rimase un poco pensosa. Poi, di nuovo, si gittò nella conversazione generale, con una vivacità anche maggiore, profondendo i motti e le risa, facendo scintillare i suoi denti e le sue parole. Donna Francesca mordeva un poco la principessa di Ferentino, non senza finezza, accennando all’avventura lesbica di lei con Giovanella Daddi.
  • A proposito, la Ferentino annunzia per l’Epifania un’altra fiera di beneficenza – disse il barone d’Isola. – Non ne sapete ancóra nulla?
  • Io sono patronessa – rispose Elena Muti.
  • Voi siete una patronessa preziosa – fece Don Filippo del Monte, un uomo quarantenne, quasi tutto calvo, sottile aguzzatore di epigrammi, che portava sul volto una specie di maschera socratica in cui l’occhio destro scintillava mobilissimo per mille diverse espressioni e il sinistro rimaneva sempre immobile e quasi vetrificato sotto la lenta rotonda, come se l’uno servisse per esprimere e l’altro per vedere. – Nella Fiera di maggio, riceveste una nuvola d’oro.
  • Ah, la Fiera di maggio! Una follia – esclamò la marchesa d’Ateleta.
    Come i servi venivan mescendo vin ghiacciato di Sciampagna, ella soggiunse:
  • Ti ricordi, Elena? I nostri banchi erano vicini.
  • Cinque luigi per sorso! Cinque luigi per morso! – si mise a gridare Don Filippo del Monte, imitando per gioco la voce di un banditore.
    La Muti e l’Ateleta ridevano.
  • Già, già è vero. Voi gittavate il bando, Filippo – disse Donna Francesca. – Peccato che tu non ci fossi, cugino mio! Per cinque luigi avresti mangiato un frutto segnato prima da’ miei denti e per altri cinque luigi avresti bevuto Champagne nel concavo delle mani d’Elena.
  • Che scandalo! – interruppe la baronessa d’Isola, con una smorfietta d’orrore.
  • Ah, Mary! E tu non vendevi le sigarette accese prima da te, e molto inumidate, per un luigi? – fece Donna Francesca, sempre ridendo.
    E Don Filippo:
  • Io vidi qualche cosa di meglio. Leonetto Lanza ottenne dalla contessa di Lùcoli, per non so quanto, un sigaro d’avana ch’ella aveva tenuto sotto l’ascella…
  • Ohibò! – interruppe di nuovo la piccola baronessa, comicamente.
  • Ogni opera di carità è santa – sentenziò la marchesa. – Io, a furia di morsi nelle frutta, misi insieme circa dugento luigi.
  • E voi? – chiese Andrea Sperelli alla Muti, sorridendo a mala pena. – E voi, con la vostra coppa carnale?
  • Io, dugento settanta.
    Così motteggiavano tutti, tranne il marchese. Questo Ateleta era un uomo già vecchio, afflitto da una sordità incurabile, bene incerettato, dipinto d’un color biondastro, artefatto dal capo a’ piedi. Pareva uno di quei personaggi finti che si vedono ne’ gabinetti di figure in cera. Ogni tanto, quasi sempre male a proposito, metteva fuori una specie di risolino secco che pareva lo stridore d’una macchinetta arruginita ch’egli avesse dentro il corpo.
  • Ma, a un certo punto, il prezzo del sorso arrivò a dieci luigi. Capite? – soggiunse Elena. – E all’ultimo quel matto di Galeazzo Secìnaro venne ad offrirmi un biglietto da cinquecento lire chiedendo in cambio ch’io m’asciugassi le mani alla sua barba bionda…
    Il finale del pranzo era, come sempre in casa d’Ateleta, splendidissimo; poiché il vero lusso d’una mensa sta nel dessert. Tutte quelle squisite e rare cose dilettavano la vista, oltre il palato, disposte con arte in piatti di cristallo guarniti d’argento. I festoni intrecciati di camelie e di violette s’incurvavano tra i pampinosi candelabri del XVIII secolo animati dai fauni e dalle ninfe. E i fauni e le ninfe e le altre leggiadre forme di quella mitologia arcadica, e i Silvandri e le Filli e le Rosalinde animavan della lor tenerezza, su le tappezzerie delle pareti, un di que’ chiari paesi citerèi ch’esciron dalla fantasia d’Antonio Watteau.
    La leggera eccitazione erotica, che prende gli spiriti al termine d’un pranzo ornato di donne e di fiori, rivelavasi nelle parole, rivelavasi ne’ ricordi di quella Fiera di maggio ove le dame spinte da una emulazione ardente a raccogliere la maggior possibile somma nel loro ufficio di venditrici, avevano attirato i compratori con inaudite temerità.
  • Accettaste? – chiese Andrea Sperelli alla duchessa.
  • Sacrificai le mie mani alla Beneficenza – ella rispose. – Venticinque luigi di più!
  • All the perfumes of Arabia will not sweeten this little hand…
    Egli rideva, ripetendo le parole di Lady Macbeth, ma in fondo a lui era una sofferenza confusa, un tormento non bene definito, che somigliava la gelosia. Gli appariva ora, all’improvviso, quel non so che di eccessivo e quasi direi di cortigianesco onde in qualche momento offuscavasi la gran maniera della gentildonna. Da certi suoni della voce e del riso, da certi gesti, da certe attitudini, da certi sguardi ella esalava, forse involontariamente, un fascino troppo afrodisiaco. Ella dispensava con troppa facilità il godimento visuale delle sue grazie. Di tratto in tratto, alla vista di tutti, forse involontariamente, ella aveva una movenza o una posa o una espressione che nell’alcova avrebbe fatto fremere un amante. Ciascuno, guardandola, poteva rapirle una scintilla di piacere, poteva involgerla d’imaginazioni impure, poteva indovinarne le segrete carezze. Ella pareva creata, in verità, soltanto ad esercitare l’amore; – e l’aria ch’ella respirava era sempre accesa dai desiderii sollevati intorno.
    « Quanti l’han posseduta? » pensò Andrea. « Quanti ricordi ella serba, della carne e dell’anima? »
    Il cuore gli si gonfiava come d’un’onda amara, in fondo a cui per sempre bolliva quella sua tirannica intolleranza d’ogni possesso imperfetto. E non sapeva distogliere gli occhi dalle mani d’Elena.
    In quella mani incomparabili, morbide e bianche, d’una transparenza ideale, segnata d’una trama di vene glauche appena visibile; in quelle palme un poco incavate e ombreggiate di rose, ove un chiromante avrebbe trovato oscuri intrichi, avevano bevuto, dieci, quindici, venti uomini, l’un dopo l’altro, a prezzo. Egli vedeva le teste di quegli uomini sconosciuti chinarsi e suggere il vino. Ma Galeazzo Secìnaro era uno de’ suoi amici: bello e gagliardo signore, imperialmente barbato come un Lucio Vero, rivale temibile.
    Allora, sotto l’incitazione di quelle imagini, la cupidigia gli crebbe così fiera e l’invase una impazienza così tormentosa che il termine del pranzo gli pareva non giungesse più mai. « Io avrò da lei, in questa sera medesima, la promessa » pensò. Dentro, lo pungeva un’ansietà come di chi tema vedersi fuggire un bene a cui molti emuli mirano. E l’incurabile e insaziabile vanità gli rappresentava l’ebrezza della vittoria. Certo, quanto più la cosa da un uom posseduta suscita negli altri l’invidia e la brama, tanto più l’uomo ne gode e n’è superbo. In questo appunto è l’attrattivo delle donne di palco scenico. Quando tutto il teatro risona di applausi e fiammeggia di desiderii, quegli che solo riceve lo sguardo e il sorriso della diva si sente inebriare dall’orgoglio come da una tazza di vin troppo forte e smarrisce la ragione.
  • Tu che sei una innovatrice – diceva la Muti rivolgendosi a Donna Francesca, mentre bagnava le dita nell’acqua tiepida d’un vaso di cristallo azzurro orlato d’argento – dovresti rimmeter l’uso del dare acqua alle mani col mesciroba e col bacino antico, fuor di tavola. Questa modernità è brutta. Non vi pare, Sperelli?
    Donna Francesca si levò. Tutti la imitarono. Andrea offerse il braccio a Elena, inchinandosi, ed ella lo guardò, senza sorridere, mentre posava il braccio nudo su quello di lui lentamente. Le sue ultime parole erano state gaie e leggere; quello sguardo invece era così grave e profondo che il giovine si sentì prendere l’anima.
  • Andate – ella chiese – andate domani sera al ballo dell’Ambasciata di Francia?
  • E voi? – chiese a sua volta Andrea.
  • Io, sì.
  • Io, sì.
    Sorrisero, come due amanti. Ed ella soggiunse, mentre sedeva:
  • Sedete.
    Il divano era discosto dal caminetto, lungo la coda del pianoforte che le pieghe ricche d’una stoffa celavano in parte. Una gru di bronzo, a una estremità, reggeva nel becco levato un piatto sospeso a tre catenelle, come quel d’una bilancia; e il piatto conteneva un libro nuovo e una piccola sciabola giapponese, un waki-zashi, ornato di crisantemi d’argento nella guaina, nella guardia, nell’elsa.
    Elena prese il libro ch’era a metà intonso; lesse il titolo; poi lo ripose nel piatto che ondeggiò. La sciabola cadde. Come ella ed Andrea si chinavano nel tempo medesimo per raccoglierla, le loro mani s’incontrarono. Ella, rialzatasi, esaminò la bell’arma curiosamente; e la tenne, mentre Andrea le parlava di quel nuovo libro di romanzo e s’insinuava in argomenti generali d’amore.
  • Perché mai rimanete così lontano dal « gran pubblico »? – gli domandò ella. – Avete giurato fedeltà ai « Venticinque Esemplari »?
  • Sì, per sempre. Anzi il mio sogno è l’« Esemplare Unico » da offerire alla « Donna Unica ». In una società democratica com’è la nostra, l’artefice di prosa o di verso deve rinunziare ad ogni benefizio che non sia di amore. Il lettor vero non è già chi mi compra ma chi mi ama. Il lettor vero è dunque la dama benevolente. Il lauro non ad altro serve che ad attirare il mirto…
  • Ma la gloria?
  • La vera gloria è postuma, e quindi non godibile. Che importa a me d’avere, per esempio, cento lettori nell’isola dei Sardi ed anche dieci ad Empoli e cinque, mettiamo, ad Orvieto? E qual voluttà mi viene dall’essere conosciuto quanto il confettiere Tizio od il profumiere Caio? Io, autore, andrò nel conspetto dei posteri armato come potrò meglio; ma io, uomo, non desidero altra corona di trionfo che una… di belle braccia ignude.
    Egli guardò le braccia di Elena, scoperte insino alla spalla. Erano così perfette nell’appiccatura e nella forma che richiamavano la similitudine firenzuolesca del vaso antico « di mano di buon maestro » e tali dovevano essere « quelle di Pallade quando era innanzi al pastore ». Le dita vagavano su le cesellature dell’arma; e l’unghie lucenti parevan continuare la finezza delle gemme che distinguevano le dita.
  • Voi, se non erro, – disse Andrea, involgendo lei del suo sguardo come d’una fiamma – dovete avere il corpo della Danae del Correggio. Lo sento, anzi, lo veggo, dalla forma delle vostre mani.
  • Oh, Sperelli!
  • Non imaginate voi dal fiore la intera figura della pianta? Voi siete, certo, come la figlia d’Acrisio, che riceve la nuvola d’oro, non quella della Fiera di maggio, ohibò! Conoscete il quadro della Galleria Borghese?
  • Lo conosco.
  • Mi sono ingannato?
  • Basta, Sperelli: vi prego.
  • Perché?
    Ella tacque. Ormai ambedue sentivano avvicinarsi il cerchio che doveva chiuderli e stringerli insieme rapidamente. Né l’una né l’altro aveva conscienza di quella rapidità. Dopo due o tre ore dal primo vedersi, già l’una si dava all’altro, in ispirito; e la scambievole dedizione pareva naturale.
    Ella disse, dopo un intervallo, senza guardarlo:
  • Siete molto giovine. Avete già molto amato?
    Egli rispose con un’altra domanda.
  • Credete voi che ci sia più nobiltà di animo e di arte ad imaginare in una sola unica donna tutto l’Eterno feminino, oppure che un uomo di spiriti sottili ed intensi debba percorrere tutte le labbra che passano, come le note d’un clavicembalo ideale, finché trovi l’Ut gaudioso?
  • Io non so. E voi?
  • Neanche io so risolvere il gran dubbio sentimentale. Ma, per istinto, ho percorso il clavicembalo; e temo d’aver trovato l’Ut, a giudicare almeno dall’avvertimento interiore.
  • Temete?
  • Je crains ce que j’espère.
    Egli parlava con naturalezza quel linguaggio manierato, quasi estenuando nell’artifizio delle parole la forza del suo sentimento. Ed Elena si sentiva dalla voce di lui prendere come in una rete e trarre fuor della vita che movevasi a torno.
  • Sua Eccellenza la principessa di Micigliano! – annunziava il servo.
  • Il signor conte di Gissi!
  • Madame Chrysoloras!
  • Il signor marchese e la signora marchesa Massa d’Albe!
    I saloni si popolavano. Lunghi strascichi lucenti passavano sul tappeto purpureo; fuor de’ busti constellati di diamanti, ricamati di perle, avvivati di fiori, emergevano le spalle nude; le capigliature scintillavano quasi tutte di que’ meravigliosi gioielli ereditarii che fanno invidiata la nobiltà di Roma.
  • Sua Eccellenza la principessa di Ferentino!
  • Sua Eccellenza il duca di Grimiti!
    Già si formavano i diversi gruppi, i diversi focolari della malignità e della galanteria. Il gruppo maggiore, tutto composto di uomini, stava presso il pianoforte, intorno la duchessa di Scerni ch’erasi levata in piedi per tener testa a quella specie d’assedio. La Ferentino si avvicinò a salutare l’amica con un rimprovero.
  • Perché non sei venuta oggi da Ninì Santamarta? Ti aspettavamo.
    Ella era alta e magra, con due strani occhi verdi che parevan lontani in fondo alle occhiaie oscure. Vestiva di nero, con una scollatura a punta sul petto e sulle spalle; portava tra i capelli, d’un biondo cinereo, una gran mezzaluna di brillanti, a simiglianza di Diana, e agitava un gran ventaglio di piume rosse, con gesti repentini.
  • Ninì va stasera da Madame Van Huffel.
  • Anch’io andrò, più tardi, per un poco – disse la Muti. – La vedrò.
  • Oh, Ugenta, – fece la principessa, volgendosi ad Andrea – vi cercavo per rammentarvi il nostro appuntamento. Domani è giovedì. La vendita del cardinale Immenraet comincia domani, a mezzogiorno. Venite a prendermi all’una.
  • Non mancherò, principessa.
  • Bisogna ch’io porti via quel cristallo di ròcca ad ogni costo.
  • Avrete però qualche competitrice.
  • Chi?
  • Mia cugina.
  • E poi?
  • Me – disse la Muti.
  • Te? Vedremo.
    I cavalieri intorno chiedevano schiarimenti.
  • Una contesa di dame del XIX secolo, per un vaso di cristallo di ròcca già appartenuto a Niccolò Niccoli; su quel vaso è intagliato il troiano Anchise che scioglie un de’ calzari di Venere Afrodite – annunziò solennemente Andrea Sperelli. – Lo spettacolo è dato per grazia, domani, dopo la prima ora del pomeriggio, nelle sale delle vendite publiche, in via Sistina. Contendono: la principessa di Ferentino, la duchessa di Scerni, la marchesa d’Ateleta.
    Tutti ridevano, a quel bando.
    Il Grimiti domandò:
  • Son lecite le scommesse?
  • La côte! La côte! – si mise a garrire Don Filippo del Monte, imitando la voce stridula del bookmaker Stubbs.
    La Ferentino col suo ventaglio rosso gli diede un colpo sulla spalla. Ma la facezia parve buona. Le scommesse incominciarono. Come dal gruppo partivano risa e motti, a poco a poco altre dame e altri gentiluomini si avvicinarono per prender parte all’ilarità. La notizia della contesa si spargeva rapidamente; prendeva le proporzioni d’un avvenimento mondano; occupava tutti i belli spiriti.
  • Datemi un braccio e facciamo un giro – disse Donna Elena Muti ad Andrea.
    Quando furono lontani dal gruppo, nel salone contiguo, Andrea stringendole il braccio mormorò:
  • Grazie!
    Ella si appoggiava a lui, soffermandosi di tratto in tratto per rispondere ai saluti. Pareva un poco stanca; ed era pallida come le perle delle sue collane. Ciascun giovine elegante le faceva un complimento volgare.
  • Questa stupidità mi soffoca – ella disse.
    Nel volgersi, vide Sakumi che la seguiva portando la camelia bianca all’occhiello, in silenzio, con gli occhi imbambolati, senza osare d’accostarsi. Gli mandò un sorriso misericorde.
  • Povero Sakumi!
  • L’avete veduto ora soltanto? – le chiese Andrea.
  • Sì.
  • Quando eravamo seduti accanto al pianoforte, egli dal vano d’una finestra guardava continuamente le vostre mani che giocavano con un’arma del suo paese destinata a tagliar le pagine d’un libro occidentale.
  • Dianzi?
  • Già, dianzi. Forse egli pensava: « Dolce cosa far harakiri con quella piccola sciabola ornata di crisantemi che paion fiorire dalla lacca e dal ferro al tocco delle sue dita! »
    Ella non sorrise. Su la sua faccia era disceso un velo di tristezza e quasi di sofferenza; i suoi occhi parevano occupati da un’ombra più cupa, vagamente illuminati sotto la palpebra superiore, come dell’albor d’una lampada; un’espressione dolente le abbassava un poco gli angoli della bocca. Ella teneva il braccio destro abbandonato lungo la veste, reggendo nella mano il ventaglio e i guanti. Non porgeva più la mano ai salutatori e ai lusingatori; né dava più ascolto ad alcuno.
  • Che avete, ora? – le chiese Andrea.
  • Nulla. Bisogna ch’io vada dalla Van Huffel. Conducetemi a salutare Francesca; e poi accompagnatemi fin giù, alla mia carrozza.
    Tornarono nel primo salone. Luigi Gullì, un giovine maestro venuto dalle natali Calabrie in cerca di fortuna, nero e crespo come un arabo, eseguiva con molta anima la Sonata in do diesis minore di Ludovico Beethoven. La marchesa d’Ateleta, ch’era una sua proteggitrice, stava in piedi accanto al pianoforte, guardando la tastiera. A poco a poco la musica grave e soave prendeva tutti que’ leggeri spiriti ne’ suoi cerchi, come un gorgo tardo ma profondo.
  • Beethoven – disse Elena, con un accento quasi religioso, arrestandosi e sciogliendo il suo braccio da quello di Andrea.
    Ella così rimase ad ascoltare, in piedi, presso una delle banane. Tenendo proteso il braccio sinistro, si metteva un guanto, con estrema lentezza. In quell’attitudine l’arco delle sue reni appariva più svelto; tutta la figura, continuata dallo strascico, appariva più alta ed eretta; l’ombra della pianta velava e quasi direi spiritualizzava il pallore della carne. Andrea la guardò. E le vesti, per lui, si confusero con la persona.
    « Ella sarà mia » pensava, con una specie d’ebrietà, poiché la musica patetica gli aumentava l’eccitamento. « Ella mi terrà fra le sue braccia, sul suo cuore! »
    Imaginò di chinarsi e di posare la bocca su la spalla di lei. – Era fredda quella pelle diafana che sembrava un latte tenuissimo attraversato da una luce d’oro? – Ebbe un brivido sottile; e socchiuse le palpebre, come per prolungarlo. Gli giungeva il profumo di lei, una emanazione indefinibile, fresca ma pur vertiginosa come un vapore d’aròmati. Tutto il suo essere insorgeva e tendeva con ismisurata veemenza verso la stupenda creatura. Egli avrebbe voluto involgerla, attrarla entro di sé, suggerla, beverla, possederla in un qualche modo sovrumano.
    Quasi constretta dal soverchiante desiderio del giovine, Elena si volse un poco; e gli sorrise d’un sorriso così tenue, direi quasi così immateriale, che non parve espresso da un moto delle labbra, sì bene da una irradiazione dell’anima per le labbra, mentre gli occhi rimanevan tristi pur sempre, e come smarriti nella lontananza d’un sogno interiore. Eran veramente gli occhi della Notte, così inviluppati d’ombra, quali per una Allegoria avrebbeli forse imaginati il Vinci dopo aver veduta in Milano Lucrezia Crivelli.
    E nell’attimo che durò il sorriso, Andrea si sentì solo con lei, in mezzo alla moltitudine. un orgoglio enorme gli gonfiava il cuore.
    Poiché Elena fece l’atto di mettersi l’altro guanto, egli la pregò sommesso:
  • No, non quello!
    Elena intese; e lasciò nuda la mano.
    Una speranza era in lui, di baciarle la mano, prima ch’ella partisse. D’improvviso, gli risorse nello spirito la visione della Fiera di maggio, quando gli uomini le bevevano nel concavo delle palme il vino. Di nuovo, un’acuta gelosia lo punse.
  • Ora, andiamo – ella disse, riprendendogli il braccio.
    Finita la Sonata, le conversazioni si riannodavano più vive. Il servo annunziò altri tre o quattro nomi, tra cui quello della principessa Issé che entrava con un piccolo passo incerto, vestita all’europea, sorridente dal volto ovale, candida e minuta come la figurina d’un netske. Un movimento di curiosità si propagò pel salone.
  • Addio, Francesca – disse Elena. prendendo congedo dall’Ateleta. – A domani.
  • Così presto?
  • Mi aspettano in casa Van Huffel. Ho promesso di andare.
  • Peccato! Canterà, ora, Mary Dyce.
  • Addio. A domani.
  • Prendi. E addio. Cugino amabile, accompagnatela.
    La marchesa le diede un mazzo di violette doppie; e si volse poi ad incontrar la principessa Issè, graziosamente. Mary Dyce, vestita di rosso, alta e ondeggiante come una fiamma, incominciava a cantare.
  • Sono tanto stanca! – mormorò Elena, appoggiandosi ad Andrea. – Chiedete, vi prego, la mia pelliccia.
    Egli prese la pelliccia dal servo che glie la porgeva. Aiutando la dama a indossarla, le sfiorò l’omero con le dita; e sentì ch’ella rabbrividiva. Tutta l’anticamera era piena di valletti in livree diverse, che s’inchinavano. La voce soprana di Mary Dyce portava le parole d’una Romanza di Robert Schumann: « Ich kann’s nicht fassen, nicht glauben… »
    Scendevano in silenzio. Il servo era andato innanzi a fare avanzare la carrozza fino a piè della scala. Udivasi rintronare lo scalpitìo de’ cavalli sotto l’androne sonoro. Ad ogni scalino, Andrea sentiva il premere lieve del braccio di Elena che s’abbandonava un poco, tenendo il capo sollevato, anzi alquanto piegato indietro, con gli occhi socchiusi.
  • Nel salire, vi seguiva la mia ammirazione sconosciuta. Nel discendere vi accompagna il mio amore – le disse Andrea, sommessamente, quasi umilmente, ponendo tra le ultime parole una pausa esitante.
    Ella non rispose. Ma portò alle nari il mazzo delle viole ed aspirò il profumo. Nell’atto, l’ampia manica del mantello scivolò lungo il braccio, oltre il gomito. La vista di quella viva carne, uscente di fra la pelliccia come una massa di rose bianche fuor della neve, accese ancor più ne’ sensi del giovine la brama, per la singolar procacità che il nudo feminile acquista allor quando è mal celato da una veste folta e grave. un piccolo fremito gli moveva le labbra; ed egli tratteneva a stento le parole desiose.
    Ma la carrozza era pronta a piè della scala, e il servo era allo sportello.
  • Casa Von Huffel – ordinò la duchessa, montando, aiutata dal conte.
    Il servo s’inchinò, lasciando lo sportello; ed occupò il suo posto. I cavalli scalpitavano forte, levando faville.
  • Badate! – gridò Elena, tendendo al giovine la mano; e i suoi occhi e i suoi diamanti scintillavano nell’ombra.
    « Essere con lei, là nell’ombra e cercare con la bocca il suo collo fra la pelliccia profumata! » Egli avrebbe voluto dirle:
  • Prendetemi con voi!
    I cavalli scalpitavano.
  • Badate! – ripeté Elena.
    Egli le baciò la mano, premendo, come per lasciarle su la cute un’impronta di passione. Quindi chiuse lo sportello. E, al colpo, la carrozza partì rapidamente, con un alto rimbombo per tutto l’androne, uscendo nel Fòro.

Il Piacere. Libro Primo [1]

 L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de’ Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.

Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch’esalavan ne’ vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d’un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d’argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz’ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov’era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell’appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L’ansia dell’aspettazione lo pungeva così acutamente ch’egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora sorse nello spirito dell’aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un’ora di intimità. Ella aveva molt’arte nell’accumulare gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po’ indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell’atto un po’ faticoso, per i movimenti de’ muscoli e per l’ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, e da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d’un pallor d’ambra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po’ correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.
Appena ella aveva compiuta l’opera, le legna conflagravano e rendevano un sùbito bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo entrante pe’ vetri lottavano qualche tempo. L’odore del ginepro arso dava al capo uno stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie di follia infantile, alla vista della vampa. Aveva l’abitudine, un po’ crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch’eran ne’ vasi, alla fine d’ogni convegno d’amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita, mettendo i guanti o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell’atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando prima un piede e poi l’altro perché l’amante chino legasse i nastri delle scarpe ancóra disciolti.
Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le imagini del tempo lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia. Tra mezz’ora, certo, ella sarebbe venuta, ella si sarebbe seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni.
Il giorno del gran commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data era rimasta incancellabile nella memoria di Andrea. Egli ora, aspettando, poteva evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza infallibile. La visione del paesaggio nomentano gli si apriva d’innanzi ora in una luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono essere visibili da lontano per un irradiamento che si prolunga dalle loro forme.
La carrozza chiusa scorreva con un rumore eguale, al trotto: le muraglie delle antiche ville patrizie passavano d’innanzi agli sportelli, biancastre, quasi oscillanti, con un movimento continuo e dolce. Di tratto in tratto si presentava un gran cancello di ferro, a traverso il quale vedevasi un sentiero fiancheggiato di alti bussi, o un chiostro di verdura abitato da statue latine, o un lungo portico vegetale dove qua e là raggi di sole ridevano pallidamente.
Elena taceva, avvolta nell’ampio mantello di lontra, con un velo su la faccia, con le mani chiuse nel camoscio. Egli aspirava con delizia il sottile odore di eliotropio esalante dalla pelliccia preziosa, mentre sentiva contro il suo braccio la forma del braccio di lei. Ambedue si credevano lontani dagli altri, soli; ma d’improvviso passava la carrozza nera d’un prelato; o un buttero a cavallo, o una torma di chierici violacei, o una mandra di bestiame.
A mezzo chilometro dal ponte ella disse:

  • Scendiamo.
    Nella campagna la luce fredda e chiara pareva un’acqua sorgiva; e, come gli alberi al vento ondeggiavano, pareva per un’illusion visuale che l’ondeggiamento si comunicasse a tutte le cose.
    Ella disse, stringendosi a lui e vacillando sul terreno aspro:
  • Io parto stasera. Questa è l’ultima volta…
    Poi tacque; poi di nuovo parlò, a intervalli, su la necessità della partenza, su la necessità della rottura, con un accento pieno di tristezza. Il vento furioso le rapiva le parole di su le labbra. Ella seguitava. Egli interruppe, prendendole la mano e con le dita cercando tra i bottoni la carne del polso:
  • Non più! Non più!
    Si avanzavano lottando contro le folate incalzanti. Ed egli, presso alla donna, in quella solitudine alta e grave, si sentì d’improvviso entrar nell’anima come l’orgoglio d’una vita più libera, una sovrabbondanza di forze.
  • Non partire! Non partire! Io ti voglio ancóra, sempre…
    Le nudò il polso e insinuò le dita nella manica, tormentandole la pelle con un moto inquieto in cui era il desiderio di possessi maggiori.
    Ella gli volse uno di quegli sguardi che lo ubriacavano come calici di vino. Il ponte era da presso, rossastro, nell’illuminazione del sole. Il fiume pareva immobile e metallico in tutta la lunghezza della sua sinuosità. I giunchi s’incurvavano su la riva, e le acque urtavano leggermente alcune pertiche infisse nella creta per reggere forse le lenze.
    Allora egli cominciò ad incitarla con i ricordi. Le parlava de’ primi giorni, del ballo al Palazzo Farnese, della caccia nella campagna del Divino Amore, degli incontri mattutini nella piazza di Spagna lungo le vetrine degli orefici o per la via Sistina tranquilla e signorile, quando ella usciva dal palazzo Barberini seguita dalle ciociare che le offerivano nei canestri le rose.
  • Ti ricordi? Ti ricordi?
  • Sì.
  • E quella sera de’ fiori, in principio; quando io venni con tanti fiori… Tu eri sola, accanto alla finestra: leggevi. Ti ricordi?
  • Sì, sì.
  • Io entrai. Tu ti volgesti appena; tu mi accogliesti duramente. Che avevi? Io non so. Posai il mazzo sopra il tavolino e aspettai. Tu incominciasti a parlare di cose inutili, senza volontà e senza piacere. Io pensai, scorato: « Già ella non mi ama più! » Ma il profumo era grande: tutta la stanza già n’era piena. Io ti veggo ancóra, quando afferrasti con le due mani il mazzo e dentro ci affondasti tutta la faccia, aspirando. La faccia risollevata pareva esangue e gli occhi parevano alterati come da una specie di ebrietà…
  • Segui, segui! – disse Elena, con la voce fievole, china sul parapetto, incantata dal fascino delle acque correnti.
  • Poi, sul divano: ti ricordi? Io ti ricoprivo il petto, le braccia, la faccia, con i fiori, opprimendoti. Tu risorgevi continuamente, porgendo la bocca, la gola, le palpebre socchiuse. Fra la tua pelle e le mie labbra sentivo le foglie fredde e molli. Se io ti baciavo il collo, tu rabbrividivi in tutto il corpo, e tendevi le mani per tenermi lontano. Oh, allora… Avevi la testa affondata nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, le braccia nude sino al gomito; e nulla era più amoroso e più dolce che il piccolo tremito delle tue mani pallide su le mie tempie… Ti ricordi?
  • Sì. Segui!
    Egli seguiva, crescendo nella tenerezza. Inebriato delle sue parole, egli quasi perdeva la conscienza di ciò che diceva. Elena, con le spalle volte alla luce, andavasi chinando all’amante. Ambedue sentivano a traverso le vesti il contatto indeciso dei corpi. Sotto di loro, le acque del fiume passavano lente e fredde alla vista; i grandi giunchi sottili, come capigliature, vi si incurvavano entro ad ogni soffio e fluttuavano largamente.
    Poi non parlarono più; ma, guardandosi, sentivano negli orecchi un rumore continuo che si prolungava indefinitamente portando seco una parte dell’essere loro, come se qualche cosa di sonoro sfuggisse dall’intimo del loro cervello e si spandesse ad empire tutta la campagna circostante.
    Elena, sollevandosi, disse:
  • Andiamo. Ho sete. Dove si può chiedere acqua?
    Si diressero allora verso l’osteria romanesca, passato il ponte. Alcuni carrettieri staccavano i giumenti, imprecando ad alta voce. Il chiaror dell’occaso feriva il gruppo umano ed equino, con viva forza.
    Come i due entrarono, nella gente dell’osteria non avvenne alcun moto di meraviglia. Tre o quattro uomini febbricitanti stavano intorno a un braciere quadrato, taciturni e giallastri. Un bovaro, di pel rosso, sonnecchiava in un angolo, tenendo ancóra fra i denti la pipa spenta. Due giovinastri, scarni e biechi, giocavano a carte, fissandosi negli intervalli con uno sguardo pieno d’ardor bestiale. E l’ostessa, una femmina pingue, teneva fra le braccia un bambino, cullandolo pesantemente.
    Mentre Elena beveva l’acqua nel bicchiere di vetro, la femmina le mostrava il bambino, lamentandosi.
  • Guardate, signora mia! Guardate, signora mia!
    Tutte le membra della povera creatura erano di una magrezza miserevole; le labbra violacee erano coperte di punti bianchicci; l’interno della bocca era coperto come di grumi lattosi. Pareva quasi che la vita fosse di già fuggita da quel piccolo corpo, lasciando una materia su cui ora le muffe vegetavano.
  • Sentite, signora mia, le mani come sono fredde. Non può più bere; non può più inghiottire; non può più dormire…
    La femmina singhiozzava. Gli uomini febbricitanti guardavano con occhi pieni di una immensa prostrazione. Ai singhiozzi i due giovinastri fecero un atto d’impazienza.
  • Venite, venite! – disse Andrea ad Elena, prendendole il braccio, dopo aver lasciato sul tavolo una moneta. E la trasse fuori.
    Insieme, tornarono verso il ponte. Il corso dell’Aniene ora andavasi accendendo ai fuochi dell’occaso. Una linea scintillante attraversava l’arco; e in lontananza le acque prendevano un color bruno ma più lucido, come se sopra vi galleggiassero chiazze d’olio o di bitume. La campagna accidentata, simile ad una immensità di rovine, aveva una general tinta violetta. Verso l’Urbe il cielo cresceva in rossore.
  • Povera creatura! – mormorò Elena con suono profondo di misericordia, stringendosi al braccio d’Andrea.
    Il vento imperversava. Una torma di cornacchie passò nell’aria accesa, in alto, schiamazzando.
    Allora, d’improvviso, una specie di esaltazione sentimentale prese l’anima di quei due, in conspetto della solitudine. Pareva che qualche cosa di tragico e di eroico entrasse nella loro passione. I culmini del sentimento fiammeggiarono sotto l’influenza del tramonto tumultuoso. Elena si arrestò.
  • Non posso più – ella disse, ansando.
    La carrozza era ancóra lontana, immobile, nel punto dove essi l’avevano lasciata.
  • Ancóra un poco, Elena! Ancóra un poco! Vuoi ch’io ti porti?
    Andrea, preso da un impeto lirico infrenabile, si abbandonò alle parole.
    « Perché ella voleva partire? Perché ella voleva spezzare l’incanto? i loro destini ormai non erano legati per sempre? Egli aveva bisogno di lei per vivere, degli occhi, della voce, del pensiero di lei… Egli era tutto penetrato da quell’amore; aveva tutto il sangue alterato come da un veleno, senza rimedio. Perché ella voleva fuggire? Egli si sarebbe avviticchiato a lei, l’avrebbe prima soffocata sul suo petto. No, non poteva essere. Mai! Mai! »
    Elena ascoltava, a testa bassa, affaticata contro il vento, senza rispondere. Dopo un poco, ella sollevò il braccio per far cenno al cocchiere di avanzarsi. I cavalli scalpitarono.
  • Fermatevi a Porta Pia – gridò la signora, salendo nella carrozza insieme all’amante.
    E con un movimento subitaneo si offerse al desiderio di lui che le baciò la bocca, la fronte, i capelli, gli occhi, la gola, avidamente, rapidamente, senza più respirare.
  • Elena! Elena!
    Un vivo bagliore rossastro entrò nella carrozza, riflesso dalle case color di mattone. Si avvicinava nella strada il trotto sonante di molti cavalli.
    Elena, piegandosi su la spalla dell’amante con una immensa dolcezza di sommessione, disse:
  • Addio, amore! Addio! Addio!
    Come ella si sollevò, a destra e a sinistra passarono a gran trotto dieci o dodici cavalieri scarlatti tornanti dalla caccia della volpe. Uno, il duca di Beffi, passando rasente, si curvò in arcione per guardare nello sportello.
    Andrea non parlò più. Egli sentiva ora tutto il suo essere mancare in un abbattimento infinito. La puerile debolezza della sua natura, sedata la prima sollevazione, gli dava ora un bisogno di lacrime. Egli avrebbe voluto piegarsi, umiliarsi, pregare, muovere la pietà della donna con le lacrime. Aveva la sensazione confusa e ottusa d’una vertigine; e un freddo sottile gli assaliva la nuca, gli penetrava la radice dei capelli.
  • Addio – ripeté Elena.
    Sotto l’arco della Porta Pia la carrozza si fermava, perché egli discendesse.
    Così dunque, aspettando, Andrea rivedeva nella memoria quel giorno lontano; rivedeva tutti i gesti, riudiva tutte le parole. Che aveva fatto egli, appena scomparsa la carrozza di Elena verso le Quattro Fontane? Nulla, in verità, di straordinario. Anche allora, come sempre, appena lontano l’oggetto immediato da cui il suo spirito traeva quella specie di esaltazione fatua, egli aveva riacquistato quasi d’un tratto la tranquillità, la conscienza della vita comune, l’equilibrio. Era salito su una vettura publica per tornare a casa; là s’era messo l’abito nero, come al solito, non dimenticando alcuna particolarità di eleganza; ed era andato a pranzo da sua cugina, come in ogni altro mercoledì, al palazzo Roccagiovine. Tutte le cose dell’esistenza esteriore avevano su lui un gran potere d’oblio, lo occupavano, lo eccitavano al godimento rapido dei piaceri mondani.
    Quella sera, infatti, il raccoglimento gli era venuto assai tardi, quando cioè rientrando nella sua casa aveva veduto brillare sopra un tavolo il piccolo pettine di tartaruga dimenticato da Elena due giorni innanzi. Allora, in compenso, tutta la notte, aveva sofferto, e con molti artifici del pensiero aveva acuito il suo dolore.
    Ma il momento si approssimava. L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e tre quarti. Egli pensò, con una trepidazione profonda: « Fra pochi minuti Elena sarà qui. Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò? »
    L’ansia in lui era verace e l’amore per quella donna era in lui rinato veracemente; ma la espressione verbale e plastica de’ sentimenti in lui era sempre così artificiosa, così lontana dalla semplicità e dalla sincerità, che egli ricorreva per abitudine alla preparazione anche ne’ più gravi commovimenti dell’animo.
    Cercò d’imaginare la scena; compose alcune frasi; scelse con gli occhi intorno il luogo più propizio al colloquio. Poi anche si levò per vedere in uno specchio se il suo volto era pallido, se rispondeva alla circostanza. E il suo sguardo, nello specchio, si fermò alle tempie, all’attaccatura dei capelli, dove Elena allora soleva mettere un bacio delicato. Aprì le labbra per mirare la perfetta lucentezza dei denti e la freschezza delle gengive, ricordando che un tempo ad Elena piaceva in lui sopra tutto la bocca. La sua vanità di giovine viziato ed effeminato non trascurava mai nell’amore alcun effetto di grazia o di forma. Egli sapeva, nell’esercizio dell’amore, trarre dalla sua bellezza il maggior possibile godimento. Questa felice attitudine del corpo e questa acuta ricerca del piacere appunto gli cattivavano l’animo delle donne. Egli aveva in sé qualche cosa di Don Giovanni e di Cherubino: sapeva essere l’uomo di una notte erculea e l’amante timido, candido, quasi verginale. La ragione del suo potere stava in questo: che, nell’arte d’amare, egli non aveva ripugnanza ad alcuna finzione, ad alcuna falsità, ad alcuna menzogna. Gran parte della sua forza era nella ipocrisia.
    « Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò? » Egli si smarriva, mentre i minuti fuggivano. Egli non sapeva già con quali disposizioni Elena sarebbe venuta.
    L’aveva incontrata la mattina innanzi per la via de’ Condotti, mentre ella guardava nelle vetrine. Era tornata a Roma da pochissimi giorni, dopo una lunga assenza oscura. L’incontro improvviso aveva dato ad ambedue una commozione viva; ma la publicità della strada li aveva costretti ad un riserbo cortese, cerimonioso, quasi freddo. Egli le aveva detto, con un’aria grave, un po’ triste, guardandola negli occhi: – Ho tante cose da raccontarvi, Elena. Venite da me, domani? Nulla è mutato nel buen retiro. – Ella aveva risposto, semplicemente: – Bene; verrò. Aspettatemi alle quattro, circa. Ho anch’io qualche cosa da dirvi. Ora lasciatemi.
    Ella aveva accettato sùbito l’invito, senza esitazione alcuna, senza metter patti, senza mostrar di dare importanza alla cosa. Una tal prontezza aveva da prima suscitato in Andrea non so qual preoccupazione vaga. Sarebbe ella venuta come un’amica o come un’amante? Sarebbe venuta a riallacciare l’amore o a rompere ogni speranza? In quei due anni che era mai accaduto nell’animo di lei? Andrea non sapeva; ma gli durava ancóra la sensazione avuta dallo sguardo di lei, nella strada, quando egli erasi inchinato a salutarla. Era pur sempre il medesimo sguardo, così dolce, così profondo, così lusinghevole, tra i lunghissimi cigli.
    Mancavano due o tre minuti all’ora. L’ansia dell’aspettante crebbe a tal punto ch’egli credeva di soffocare. Andò alla finestra, di nuovo, e guardò verso le scale della Trinità. Elena, un tempo, saliva per quelle scale ai convegni. Mettendo il piede sull’ultimo gradino, si soffermava un istante; poi traversava rapida quel tratto di piazza ch’è d’innanzi alla casa dei Casteldelfino. Si udiva il suo passo un poco ondeggiante risonare sul lastrico, se la piazza era silenziosa.
    L’orologio batté le quattro. Giungeva dalla piazza di Spagna e dal Pincio il romore delle vetture. Molta gente camminava sotto gli alberi, d’innanzi alla Villa Medici. Due donne stavano sul sedile di pietra, sotto la chiesa, a guardia di alcuni bimbi che correvano intorno l’obelisco. L’obelisco era tutto roseo, investito dal sole declinante; e segnava un’ombra lunga, obliqua, un po’ turchina. L’aria diveniva rigida, come più s’appressava il tramonto. La città, in fondo, si tingeva d’oro, contro un cielo pallidissimo sul quale già i cipressi del Monte Mario si disegnavano neri.
    Andrea trasalì. Vide un’ombra apparire in cima alla piccola scala che costeggia la casa dei Casteldelfino e discende su la piazzetta Mignanelli. Non era Elena; ma una signora che voltò per la via Gregoriana, camminando adagio.
    « S’ella non venisse? » dubitò, ritraendosi dalla finestra. E nel ritrarsi dall’aria fredda, sentì più molle il tepore della stanza, più acuto il profumo del ginepro e delle rose, più misteriosa l’ombra delle tende e delle portiere. Pareva che in quel momento la stanza fosse tutta pronta ad accogliere la donna desiderata. Egli pensò alla sensazione che Elena avrebbe avuto entrando. Certo, ella sarebbe stata vinta da quella dolcezza così piena di memorie; avrebbe d’un tratto perduta ogni nozione della realtà, del tempo; avrebbe creduto di trovarsi ad uno de’ convegni abituali, di non aver mai interrotta quella pratica di voluttà, d’esser pur sempre la Elena d’una volta. Se il teatro dell’amore era immutato, perché sarebbe mutato l’amore? Certo, ella avrebbe sentita la profonda seduzione delle cose una volta dilette.
    Allora cominciò nell’aspettante una nuova tortura. Gli spiriti acuiti dalla consuetudine della contemplazione fantastica e del sogno poetico dànno alle cose un’anima sensibile e mutabile come l’anima umana; e leggono in ogni cosa, nelle forme, ne’ colori, ne’ suoni, ne’ profumi, un simbolo trasparente, l’emblema d’un sentimento o d’un pensiero; ed in ogni fenomeno, in ogni combinazion di fenomeni credono indovinare uno stato psichico, una significazione morale. Talvolta la visione è così lucida che produce in quegli spiriti un’angoscia: si sentono essi come soffocare dalla pienezza della vita rivelata e si sbigottiscono de’ loro stessi fantasmi.
    Andrea vide nell’aspetto delle cose intorno riflessa l’ansietà sua; e come il suo desiderio si sperdeva inutilmente nell’attesa e i suoi nervi s’indebolivano, così parve a lui che l’essenza direi quasi erotica delle cose anche vaporasse e si dissipasse inutilmente. Tutti quegli oggetti, in mezzo a’ quali egli aveva tante volte amato e goduto e sofferto, avevano per lui acquistato qualche cosa della sua sensibilità. Non soltanto erano testimoni de’ suoi amori, de’ suoi piaceri, delle sue tristezze, ma eran partecipi. Nella sua memoria, ciascuna forma, ciascun colore armonizzava con una imagine muliebre, era una nota in un accordo di bellezza, era un elemento in una estasi di passione. Per la natura del suo gusto, egli ricercava negli amori un gaudio molteplice: il complicato diletto di tutti i sensi, l’alta commozione intellettuale, gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità. E poiché egli ricercava con arte, come un estetico, traeva naturalmente dal mondo delle cose molta parte della sua ebrezza. Questo delicato istrione non comprendeva la comedia dell’amore senza gli scenarii.
    Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un abilissimo apparecchiatore. Ma nell’artificio quasi sempre egli metteva tutto sé; vi spendeva la ricchezza del suo spirito largamente; vi si obliava così che non di rado rimaneva ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d’un incantatore il quale fosse preso nel cerchio stesso del suo incantesimo.
    Tutto, intorno, aveva assunto per lui quella inesprimibile apparenza di vita che acquistano, ad esempio, gli arnesi sacri, le insegne d’una religione, gli strumenti d’un culto, ogni figura su cui si accumuli la meditazione umana o da cui l’imaginazione umana poggi a una qualche ideale altezza. Come una fiala rende dopo lunghi anni il profumo dell’essenza che vi fu un giorno contenuta, così certi oggetti conservavano pur qualche vaga parte dell’amore onde li aveva illuminati e penetrati quel fantastico amante. E a lui veniva da loro una incitazione tanto forte ch’egli n’era turbato talvolta come dalla presenza d’un potere soprannaturale.
    Pareva, in vero, ch’egli conoscesse direi quasi la virtualità afrodisiaca latente in ciascuno di quegli oggetti e la sentisse in certi momenti sprigionarsi e svolgersi e palpitare intorno a lui. Allora, s’egli era nelle braccia dell’amata, dava a sé stesso ed al corpo ed all’anima di lei una di quelle supreme feste il cui solo ricordo basta a rischiarare una intiera vita. Ma s’egli era solo, un’angoscia grave lo stringeva, un rammarico inesprimibile, al pensiero che quel grande e raro apparato d’amore si perdeva inutilmente.
    Inutilmente! Nelle alte coppe fiorentine le rose, anch’esse aspettanti, esalavano tutta la intima lor dolcezza. Sul divano, alla parete, i versi argentei in gloria della donna e del vino, frammisti così armoniosamente agli indefinibili colori serici nel tappeto persiano del XVI secolo, scintillavano percossi dal tramonto, in un angolo schietto disegnato dalla finestra, e rendevan più diafana l’ombra vicina, propagavano un bagliore ai cuscini sottostanti. L’ombra, ovunque, era diafana e ricca, quasi direi animata dalla vaga palpitazion luminosa che hanno i santuarii oscuri ov’è un tesoro occulto. Il fuoco nel camino crepitava; e ciascuna delle sue fiamme era, secondo l’imagine di Percy Shelley, come una gemma disciolta in una luce sempre mobile. Pareva all’amante che ogni forma, che ogni colore, che ogni profumo rendesse il più delicato fiore della sua essenza, in quell’attimo. Ed ella non veniva! Ed ella non veniva!
    Sorse allora nella mente di lui, per la prima volta, il pensiero del marito.
    Elena non era più libera. Aveva rinunziato alla bella libertà della vedovanza, passando in seconde nozze con un gentiluomo d’Inghilterra, con un Lord Humphrey Heathfield, alcuni mesi dopo l’improvvisa partenza da Roma. Andrea infatti si ricordava di aver visto l’annunzio del matrimonio in una cronaca mondana, nell’ottobre del mille ottocento ottanta cinque; e d’aver sentito fare su la nuova Lady Helen Heathfield una infinità di commenti per tutte le villeggiature di quell’autunno romano. Anche si ricordava di avere incontrato una decina di volte, nel precedente inverno, quel Lord Humphrey ai sabati della principessa Giustiniani-Bandini e nelle vendite publiche. Era un uomo di quarant’anni, d’una biondezza cinerea, calvo su le tempie, quasi esangue, con due occhi chiari ed acuti, con una grande fronte sporgente solcata di vene. Il suo nome, Heatfield, era ben quello del luogotenente generale che fu l’eroe della celebre difesa di Gibilterra (1779-83), reso immortale anche dal pennello di Joshua Reynolds.
    Qual parte aveva quell’uomo nella vita di Elena? Da quali legami, oltre che dalle nozze, era Elena legata a colui? Quali transformazioni aveva operato in lei il contatto materiale e spirituale del marito?
    Gli enigmi sorsero d’un tratto nell’animo di Andrea, tumultuariamente. In mezzo al tumulto, gli apparve netta e precisa l’imagine del connubio fisico di que’ due; e il dolore fu così insopportabile ch’egli si levò col balzo istintivo d’un uomo il quale si senta d’improvviso ferire in un membro vitale. Attraversò la stanza, uscì nell’anticamera, origliò alla porta ch’egli aveva lasciata socchiusa. Eran quasi le cinque meno un quarto.
    Dopo un poco, egli udì su per le scale un passo, un fruscìo di vesti, un respiro affaticato. Certo, una donna saliva. Tutto il sangue gli si mosse con tal veemenza, che, snervato dalla lunga aspettazione, egli credeva di smarrire le forze e di cadere. Ma pure udì il suono del piede feminile su gli ultimi gradini, un respiro più lungo, il passo sul pianerottolo, su la soglia. Elena entrò.
  • Oh, Elena! Finalmente.
    Era in quelle parole così profonda l’espressione dell’angoscia durata che alla donna apparve su le labbra un’indefinibile sorriso, misto di misericordia e di piacere. Egli le prese la destra, ch’era senza guanto, traendola verso la stanza. Ella ansava ancóra; ma aveva per tutto il volto diffusa una lieve fiamma, sotto il velo nero.
  • Perdonatemi, Andrea. Ma non ho potuto liberarmi prima d’ora. Tante visite… tanti biglietti da restituire… Sono giornate faticose. Non ne posso più. Come fa caldo qui! Che profumo!
    Ella stava ancóra in piedi, nel mezzo della stanza; un po’ titubante e preoccupata, sebbene parlasse rapida e leggera. Un mantello di panno Carmélite, con maniche nello stile dell’Impero tagliate dall’alto in larghi sgonfi, spianate e abbottonate al polso, con un immenso bavero di volpe azzurra per unica guarnitura, le copriva tutta la persona senza toglierle la grazia della snellezza. Ella guardava Andrea, con gli occhi pieni di non so che sorriso tremulo che ne velava l’acuta indagine. Disse:
  • Voi siete un poco mutato. Non saprei dirvi in che. Avete ora nella bocca, per esempio, qualche cosa di amaro ch’io non conosceva.
    Disse queste parole con un tono di familiarità affettuosa. La voce di lei, risonando nella stanza, dava ad Andrea un diletto così vivo ch’egli esclamò:
  • Parlate, Elena; parlate ancóra!
    Ella rise. E domandò:
  • Perché?
    Egli rispose, prendendole la mano:
  • Voi lo sapete.
    Ella ritrasse la mano; e guardò il giovine fin dentro gli occhi.
  • Io non so più nulla.
  • Voi siete dunque mutata?
  • Molto mutata.
    Già il « sentimento » li traeva ambedue. La risposta di Elena chiariva d’un tratto il problema. Andrea comprese; e, rapidamente ma precisamente, per un fenomeno d’intuizione non raro in certi spiriti esercitati all’analisi dell’essere interiore, intravide l’attitudine morale della visitatrice e lo svolgimento della scena che doveva seguire. Egli però era già tutto invaso dalla malia di quella donna, come una volta. Inoltre, la curiosità lo pungeva forte. Disse:
  • Non sedete?
  • Sì, un momento.
  • Là, su la poltrona.
  • Ah, la mia poltrona! – ella stava per dire, con un moto spontaneo, poiché l’aveva riconosciuta; ma si trattenne.
    Era una seggiola ampia e profonda, ricoperta d’un cuoio antico, sparso di Chimere pallide a rilievo, in sul gusto di quello che ricopre le pareti d’una stanza del palazzo Chigi. Il cuoio aveva preso quella tinta calda e opulenta che ricorda certi fondi di ritratti veneziani, o un bel bronzo conservante appena una traccia di doratura o una scaglia di tartaruga fina da cui trasparisca una foglia d’oro. Un gran cuscino, tagliato in una dalmatica, d’un colore assai disfatto, di quel colore che i setaiuoli fiorentini chiamavano rosa di gruogo, rendeva molle la spalliera.
    Elena sedette. Posò su l’orlo della tavola da tè il guanto destro e il portabiglietti ch’era una sottile guaina d’argento liscio con sopra incise due giarrettiere allacciate, recanti un motto. Quindi si tolse il velo, sollevando le braccia per sciogliere il nodo dietro la testa; e l’atto elegante destò qualche onda lucida nel velluto: alle ascelle, lungo le maniche, lungo il busto. Poiché il calore del camino era soverchio, ella si fece schermo con la mano nuda che s’illuminò come un alabastro rosato: gli anelli nel gesto scintillarono. Ella disse:
  • Coprite il fuoco; vi prego. Brucia troppo.
  • Non vi piace più la fiamma? Ed eravate, un tempo, una salamandra! Questo camino è memore…
  • Non movete le memorie – ella interruppe. – Coprite dunque il fuoco, e accendete un lume. Io farò il tè.
  • Non volete togliervi il mantello?
  • No, perché debbo andar via presto. E’ già tardi.
  • Ma soffocherete.
    Ella si levò, con un piccolo atto d’impazienza.
  • Aiutatemi, allora.
    Andrea sentì, nel toglierle il mantello, il profumo di lei. Non era più quello d’una volta; ma era d’una tal bontà che gli giunse fino ai precordii.
  • Avete un altro profumo – egli disse, con un accento singolare.
    Rispose ella, semplicemente:
  • Sì. Vi piace?
    Andrea, ancóra tenendo il mantello fra le mani, affondò il volto nella pelliccia che ornava il collo e che più quindi era profumata dal contatto della carne e de’ capelli di lei. Poi chiese:
  • Come si chiama?
  • E’ senza nome.
    Ella di nuovo sedette su la poltrona, entrando nel chiaror della fiamma. Aveva un abito nero, tutto composto di merletti in mezzo a cui brillavano perline innumerevoli, nere e d’acciaio.
    Il crepuscolo moriva contro i vetri. Andrea accese su i candelabri di ferro certe candele attorte, di colore aranciato molto intenso. Poi trasse d’innanzi al caminetto il parafuoco.
    Ambedue, in quell’intervallo di silenzio, erano nell’animo perplessi. Elena non aveva la conscienza esatta del momento, né la sicurezza di sé; pur tentando uno sforzo, non riusciva a riafferrare il suo proposito, a raccogliere le sue intenzioni, a riprendere la sua volontà. D’innanzi a quell’uomo a cui un tempo l’aveva stretta una così alta passione, in quel luogo dove ella aveva vissuto la sua più ardente vita, sentiva a poco a poco tutti i pensieri vacillare, dissolversi, dileguarsi. Ormai il suo spirito stava per entrare in quello stato delizioso, direi quasi di fluidità sentimentale, in cui riceve ogni movimento, ogni attitudine, ogni forma dalle vicende esterne, come un vapore aereo dalle mutazioni dell’atmosfera. Esitava, prima di abbandonarvisi.
    Andrea disse, piano, quasi umile:
  • Va bene, così?
    Ella gli sorrise, senza rispondere, poiché quelle parole le avevano dato un diletto indefinibile, quasi un tremolio di dolcezza a sommo del petto. Incominciò la sua opera delicata. Accese la lampada sotto il vaso dell’acqua; aprì la scatola di lacca, dov’era conservato il tè, e mise nella porcellana una quantità misurata d’aroma; poi preparò due tazze. I suoi gesti erano lenti e un poco irresoluti, come di chi operando abbia l’animo rivolto ad altro oggetto; le sue mani bianche e purissime avevano nel muoversi una leggerezza quasi di farfalle, non parendo toccare le cose ma appena sfiorarle; dai suoi gesti, dalle sue mani, da ogni lieve ondulamento del suo corpo usciva non so che tenue emanazion di piacere e andava a blandire il senso dell’amante.
    Andrea, seduto da presso, la guardava con gli occhi un poco socchiusi, bevendo per le pupille il fascino voluttuoso che nasceva da lei. Era come se ogni moto divenisse per lui tangibile idealmente. Quale amante non ha provato questo inesprimibile gaudio, in cui par quasi che la potenza sensitiva del tatto si affini così da avere la sensazione senza la immediata materialità del contatto?
    Ambedue tacevano. Elena s’era abbandonata sul cuscino: aspettava che l’acqua bollisse. Guardando la fiamma azzurra della lampada, toglieva dalle dita gli anelli, e se li rimetteva di continuo, smarrita in un’apparenza di sogno. Non era un sogno, ma come una rimembranza vaga, ondeggiante, confusa, fuggevole. Tutte le memorie dell’amor passato le risorgevano nello spirito, ma senza chiarezza: e le davano una espressione incerta ch’ella non sapeva se fosse un piacere o un dolore. Pareva come quando da molti fiori estinti, de’ quali ciascuno ha perduto ogni singolarità di colori e di effluvi, nasce una comune esalazione in cui e’ possibile riconoscere i diversi elementi. Pareva ch’ella portasse in sé l’ultimo alito dei ricordi già spirati, l’ultima traccia delle gioie già scomparse, l’ultimo risentimento della felicità già morta, qualche cosa di simile a un vapor dubbio da cui emergessero imagini senza nome, senza contorno, interrotte. Ella non sapeva se fosse un piacere o un dolore; ma a poco a poco quell’agitazione misteriosa, quella inquietudine indefinibile aumentavano e le gonfiavano il cuore di dolcezza e di amarezza. I presentimenti oscuri, i segreti rimpianti, i timori superstiziosi, le aspirazioni combattute, i dolori soffocati, i sogni travagliati, i desiderii non appagati, tutti quei torbidi elementi che componevano l’interior vita di lei ora si rimescolavano e tempestavano.
    Ella taceva, tutta raccolta in sé. Mentre il suo cuore quasi traboccava, ella godeva accumularvi ancóra col silenzio la commozione. Parlando, ella l’avrebbe dispersa.
    Il vaso dell’acqua incominciò a levare il bollore pianamente.
    Andrea su la sedia bassa, tenendo il gomito poggiato al ginocchio e il mento nella palma, guardava ora la bella creatura con tale intensità ch’ella, pur non volgendosi, sentiva su la sua persona quella persistenza e ne aveva quasi un vago malessere fisico. Andrea, guardandola, pensava: « Io ho posseduto questa donna, un giorno. » Egli ripeteva a sé stesso l’affermazione, per convincersi; e faceva, per convincersi, uno sforzo mentale, richiamava alla memoria una qualche attitudine di lei nel piacere, cercava di rivederla fra le sue braccia. La certezza del possesso gli sfuggiva. Elena gli pareva una donna nuova, non mai goduta, non mai stretta.
    Ella era, in verità, ancor più desiderabile che una volta. L’enigma quasi direi plastico della sua bellezza era ancor più oscuro e attirante. La sua testa dalla fronte breve, dal naso dritto, dal sopracciglio arcuato, d’un disegno così puro, così fermo, così antico, che pareva essere uscita dal cerchio d’una medaglia siracusana, aveva negli occhi e nella bocca un singolar contrasto di espressione: quell’espressione passionata, intensa, ambigua, sopraumana, che solo qualche moderno spirito, impregnato di tutta la profonda corruzione dell’arte, ha saputo infondere in tipi di donna immortali come Monna Lisa e Nelly O’ Brien.
    « Altri ora la possiede » pensava Andrea, guardandola. « Altre mani la toccano, altre labbra la baciano. » E, mentre egli non giungeva a formar nella fantasia l’imagine dell’unione di sé con lei, vedeva nuovamente invece, con implacabile precisione, l’altra imagine. E una smania l’invadeva, di sapere, di scoprire, d’interrogare, acutissima.
    Elena s’era chinata al tavolo, poiché il vapore fuggiva, per la commessura del coperchio, dal vaso bollente. Versò appena un poco d’acqua sul tè; poi mise due pezzi di zucchero in una sola tazza; poi versò sul tè altra acqua; poi spense la fiamma azzurra. Ella fece tutto questo con una cura quasi tenera, ma senza mai volgersi ad Andrea. L’interno tumulto risolvevasi ora in un intenerimento così molle ch’ella si sentiva chiudere la gola e inumidire gli occhi; e non poteva resistere. Tanti pensieri contrarii, tante contrarie agitazioni e alterazioni dell’animo si raccoglievano ora in una lacrima.
    Ella, per un gesto, urtò il portabiglietti d’argento, che cadde sul tappeto. Andrea lo raccolse, e guardò le due giarrettiere incise. Portava ciascuna un motto sentimentale: From Dreamland – A stranger hither; Dal Paese del Sogno – Straniera qui.
    Com’egli levava gli occhi, Elena gli offerì la tazza fumante, con un sorriso un poco velato dalla lacrima.
    Vide egli quel velo; e innanzi a quell’inaspettato segno di tenerezza fu invaso da un tale impeto d’amore e di riconoscenza che posò la tazza, s’inginocchiò, prese la mano d’Elena, sopra vi mise la bocca.
  • Elena! Elena!
    Le parlava a voce bassa, in ginocchio, così da vicino che pareva volesse beverne l’alito. L’ardore era sincero, mentre le parole talvolta mentivano. « Egli l’amava, l’aveva sempre amata, non aveva mai mai mai potuto dimenticarla! aveva sentito, rincontrandola, tutta la sua passione insorgere con tal violenza che n’aveva avuto quasi terrore: una specie di terrore ansioso, come s’egli avesse intravisto, in un lampo, lo sconvolgimento di tutta la sua vita. »
  • Tacete! Tacete! – disse Elena, con il volto atteggiato di dolore, pallidissima.
    Andrea seguitava, sempre in ginocchio, accendendosi nell’imaginazione del sentimento. « Egli aveva sentito trascinar via da lei, in quella fuga improvvisa, la maggior e miglior parte di sé. Dopo, egli non sapeva dirle tutta la miseria dei suoi giorni, l’angoscia de’ suoi rimpianti, l’assidua implacabile divorante sofferenza interiore. La tristezza era per lui in fondo a tutte le cose. La fuga del tempo gli era un supplizio insopportabile. Non tanto egli rimpiangeva i giorni felici quanto si doleva de’ giorni che ora passavano inutilmente per la felicità. Quelli almeno gli avevan lasciato un ricordo: questi gli lasciavano un rammarico profondo, quasi un rimorso… La sua vita si consumava in sé stessa, portando in sé la fiamma inestinguibile d’un sol desiderio, l’incurabile disgusto d’ogni altro godimento. Talvolta lo assalivano impeti di cupidigia quasi rabbiosi, disperati ardori verso il piacere; ed era come una ribellion violenta del cuore non saziato, come un sussulto della speranza che non si rassegnava a morire. Talvolta anche gli pareva d’esser ridotto a nulla; e rabbrividiva innanzi ai grandi abissi vacui del suo essere: di tutto l’incendio della sua giovinezza non gli restava che un pugno di cenere. Talvolta anche, a simiglianza d’uno di que’ sogni che si dileguano su l’alba, tutto il suo passato, tutto il suo presente si dissolvevano; si distaccavano dalla sua conscienza e cadevano, come una spoglia fragile, come una veste vana. Egli non si ricordava più di nulla, come un uomo escito da una lunga infermità, come un convalescente stupefatto. Egli alfine obliava; sentiva l’anima sua entrar dolcemente nella morte… Ma, d’improvviso, su da quella specie di tranquillità obliosa scaturiva un nuovo dolore e l’idolo abbattuto risorgeva più alto come un germe indistruttibile. Ella, ella era l’idolo che seduceva in lui tutte le volontà del cuore, rompeva in lui tutte le forze dell’intelletto, teneva in lui tutte le più segrete vie dell’anima chiuse ad ogni altro amore, ad ogni altro dolore, ad ogni altro sogno, per sempre, per sempre… »
    Andrea mentiva; ma la sua eloquenza era così calda, la sua voce era così penetrante, il tócco delle sue mani era così amoroso, che Elena fu invasa da una infinita dolcezza.
  • Taci! – ella disse. – Io non debbo ascoltarti; io non sono più tua; io non potrò essere tua più mai. Taci! Taci!
  • No, ascoltami.
  • Non voglio. Addio. Bisogna ch’io vada. Addio, Andrea. E’ già tardi, lasciami.
    Ella sviluppò la mano dalla stretta del giovine; e, superando ogni interno languore, fece atto di levarsi.
  • Perché dunque sei venuta? – chiese egli, con la voce un po’ roca, impedendole quell’atto.
    Sebbene la violenza fosse lievissima, ella corrugò i sopraccigli, ed esitò prima di rispondere.
  • Son venuta – ella rispose, con una certa lentezza misurata, guardando l’amante negli occhi – son venuta perché tu m’hai chiamata. Per l’amore d’una volta, per il modo con cui quell’amore fu rotto, per il lungo silenzio oscuro della lontananza, io non avrei potuto senza durezza ricusare l’invito. E poi, io voleva dirti quel che t’ho detto: ch’io non sono più tua, che non potrò essere tua più mai. Volevo dirti questo, lealmente, per evitare a me e a te qualunque inganno doloroso, qualunque pericolo, qualunque amarezza, nell’avvenire. Hai inteso?
    Andrea chinò il capo, quasi su le ginocchia di lei, in silenzio. Ella gli toccò i capelli, col gesto un tempo familiare.
  • E poi – seguitò, con una voce che mise a lui un brivido in tutte le fibre – e poi… volevo dirti ch’io ti amo, ch’io ti amo non meno d’una volta, che ancóra tu sei l’anima dell’anima mia, e che io voglio essere la tua sorella più cara, la tua amica più dolce. Hai inteso?
    Andrea non si mosse. Ella, prendendo le tempie di lui fra le sue mani, gli sollevò la fronte; lo costrinse a guardarla negli occhi.
  • Hai inteso? – ripeté, con una voce anche più tenera e più sommessa.
    I suoi occhi, all’ombra de’ lunghi cigli, parevano come suffusi d’un qualche olio purissimo e sottilissimo. La sua bocca, un poco aperta, aveva nel labbro superiore un piccolo tremito.
  • No; tu non mi amavi, tu non mi ami! – ruppe infine Andrea, togliendosi dalle tempie le mani di lei e traendosi indietro, poiché sentiva già nelle vene il fuoco insinuante ch’esalavano anche involontariamente quelle pupille e provava più acre il dolore d’aver perduto il possesso materiale della bellissima donna. – Tu non mi amavi! Tu, allora avesti cuore d’uccidere l’amor tuo, d’improvviso, quasi a tradimento, mentre ti dava la sua ebrezza più forte. Tu mi fuggisti, tu mi abbandonasti, tu mi lasciasti solo, sbigottito, tutto doloroso, a terra, mentre io ero ancóra accecato di promesse. Tu non mi amavi, tu non mi ami! Dopo una lontananza così lunga, piena di misteri, muta e inesorabile; dopo una così lunga attesa, in cui ho consunto il fiore della mia vita a nutrire una tristezza che m’era cara perché mi veniva da te; dopo tanta felicità e dopo tanta sciagura, ecco, tu rientri in un luogo dove ogni cosa per noi custodisce un ricordo ancóra vivo, e mi dici soavemente: « Io non sono più tua. Addio. » Ah, tu non mi ami!
  • Ingrato! Ingrato! – esclamò Elena, ferita dalla voce quasi irosa del giovine. – Che sai tu di quel ch’è accaduto, di quel ch’io ho sofferto? Che sai?
  • Io non so nulla, io non voglio nulla sapere – rispose Andrea, duramente, involgendola d’uno sguardo un po’ torbido, in fondo a cui tralucevano i suoi desideri esasperati. – Io so che tu fosti mia, un giorno, tutta quanta, con un abbandono senza ritegno, con una voluttà senza misura, come non mai alcuna altra donna; e so che né il mio spirito né la mia carne dimenticheranno mai quella ebrezza…
  • Taci!
  • Che fa a me la tua pietà di sorella? Tu, contro il tuo volere, ma la offri guardandomi con occhi d’amante, toccandomi con mani malsicure. Troppe volte ho veduto i tuoi occhi spengersi nel gaudio; troppe volte le tue mani m’han sentito rabbrividire. Io ti desidero.
    Incitato dalle sue stesse parole, egli la strinse forte ai polsi ed appressò la sua faccia a quella di lei così ch’ella ebbe in su la bocca il caldo alito.
  • Io ti desidero, come non mai – seguitò egli, cercando d’attirarla al suo bacio, circondandole con un braccio il busto. – Ricórdati! Ricórdati!
    Elena si levò respingendolo. Tremava tutta.
  • Non voglio. Intendi?
    Egli non intendeva. Si riavvicinava ancóra, con le braccia tese, per prenderla: pallidissimo, risoluto.
  • Soffriresti tu – gridò ella con la voce un po’ soffocata, non potendo patire la violenza – soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo?
    Ella aveva profferita quella domanda crudele, senza pensare. Ora, con gli occhi molto aperti, guardava l’amante: ansiosa e quasi sbigottita, come chi per salvarsi abbia vibrato un colpo senza misurarne la forza, e tema di aver ferito troppo nel profondo.
    L’ardore di Andrea cadde d’un tratto. E gli si dipinse sul volto un dolor così grave che la donna n’ebbe al cuore una fitta.
    Andrea disse, dopo un intervallo di silenzio:
  • Addio.
    In quella sola parola era l’amarezza di tutte le altre parole ch’egli aveva ricacciate indietro.
    Elena rispose dolcemente:
  • Addio. Perdonami.
    Ambedue sentirono la necessità di chiudere, per quella sera, il colloquio periglioso. L’uno assunse una forma di cortesia esteriore quasi esagerata. L’altra divenne anche più dolce, quasi umile; e l’agitava un tremito incessante.
    Prese ella di su la sedia il suo mantello. Andrea l’aiutò, con maniere premurose. Come ella non giungeva a mettere un braccio in una manica, Andrea la guidò, appena toccandola; quindi le porse il cappello e il velo.
  • Volete andare di là, allo specchio?
  • No, grazie.
    Ella andò verso la parete, a fianco del caminetto, ove pendeva un piccolo specchio antico dalla cornice ornata di figure scolpite con uno stile così agile e franco che parevano, piuttosto che nel legno, formate in un oro malleabile. Era un’assai leggiadra cosa, uscita certo dalle mani d’un delicato quattrocentista per una Mona Amorrosisca o per una Laldomine. Molte volte, nel tempo felice, Elena s’era messo il velo d’innanzi a quella lastra offuscata e maculata che aveva apparenza d’un’acqua torba, un poco verdastra. Ora, si risovveniva.
    Quando vide la sua imagine apparire in quel fondo, ebbe un’impressione singolare. Un’onda di tristezza, più densa, le traversò lo spirito. Ma non parlò.
    Andrea la guardava, con occhi intenti.
    Come fu pronta, ella disse:
  • Sarà molto tardi.
  • Non molto. Saranno le sei, forse.
  • Io ho licenziata la mia carrozza – ella soggiunse. – Vi sarei tanto grata se mi faceste prendere una vettura chiusa.
  • Permettete ch’io vi lasci qui sola, un momento? Il mio domestico è fuori.
    Ella assentì.
  • Date voi stesso l’indirizzo al vetturino, vi prego: Albergo del Quirinale.
    Egli uscì, chiudendo dietro di sé la porta della stanza. Ella rimase sola.
    Rapidamente, volse gli occhi intorno, abbracciò con uno sguardo indefinibile tutta la stanza, si fermò alle coppe dei fiori. Le pareti le sembravano più vaste, la volta le sembrava più alta. Guardando, ella aveva la sensazione come d’un principio di vertigine. Non avvertiva più il profumo; ma certo l’aria doveva essere ardente e grave come in una serra. L’imagine di Andrea le appariva in una specie di balenio intermittente; le sonava negli orecchi qualche onda vaga della voce di lui. Stava ella per aver male? – Pure, che delizia chiudere gli occhi e abbandonarsi a quel languore!
    Scotendosi, andò verso la finestra, l’aprì, respirò il vento. Rianimata, si volse di nuovo alla stanza. Le fiamme pallide delle candele oscillavano agitando leggere ombre su le pareti. Il camino non aveva più vampa, ma i tizzoni illuminavano in parte le figure sacre del parafuoco fatto d’un frammento di vetrata ecclesiastica. La tazza di tè era rimasta su l’orlo del tavolo, fredda, intatta. Il cuscino della poltrona conservava ancóra l’impronta del corpo ch’eravisi affondato. Tutte le cose intorno esalavano una melancolia indistinta che affluiva e s’addensava al cuor della donna. Il peso cresceva su quel debole cuore, diveniva un’oppressione dura, un affanno insopportabile.
  • Mio Dio! Mio Dio!
    Ella avrebbe voluto fuggire. Una folata di vento più viva gonfiò le tende, agitò le fiammelle, sollevò un fruscìo. Ella trasalì, con un brivido; e quasi involontariamente chiamò:
  • Andrea!
    La sua voce, quel nome nel silenzio, le diedero uno strano sussulto, come se la voce, il nome non fossero partiti dalla sua bocca. – Perché Andrea indugiava? – Ella si mise in ascolto. Non giungeva che il rumor sordo, cupo, confuso della vita urbana, nella sera di San Silvestro. Su la piazza della Trinità de’ Monti non passava alcuna vettura. Come il vento a tratti soffiava forte, ella richiuse la finestra: intravide la cima dell’obelisco, nera sul cielo stellato.
    Forse Andrea non aveva trovato sùbito la vettura coperta, in piazza Barberini. Ella aspettò, seduta sul divano, cercando di quietare la folle agitazione, evitando di guardarsi nell’anima, forzando la sua attenzione alle cose esteriori. Attirarono i suoi occhi le figure vitree del parafuoco, appena illuminate dai tizzoni semispenti. Più sopra, su la sporgenza del caminetto, da una della coppe cadevano le foglie d’una grande rosa bianca che si disfaceva a poco a poco, languida, molle, con qualche cosa di feminino, direi quasi di carnale. Le foglie, concave, si posavano delicatamente sul marmo, simili a falde di neve nella caduta.
    « Quanto, allora, pareva soave alle dita quella neve odorante! » ella pensò. « Tutte sfogliate, le rose conspargevano i tappeti, i divani, le sedie; ed ella rideva, felice, in mezzo alla devastazione; e l’amante, felice, erale ai piedi. »
    Ma udì fermarsi una carrozza d’innanzi alla porta, nella strada; e si levò, scotendo la povera testa, come per cacciar via quella specie di ottusità che la fasciava. Sùbito dopo, rientrò Andrea, ansante.
  • Perdonatemi – disse. – Ma, non avendo trovato il portiere, sono sceso fino in piazza di Spagna. La vettura è giù che aspetta.
  • Grazie – fece Elena guardandolo timidamente a traverso il velo nero.
    Egli era serio e pallido, ma calmo.
  • Mumps arriverà forse domani – soggiunse ella, con una voce tenue. – Vi scriverò un biglietto, per dirvi quando potrò vedervi.
  • Grazie – fece Andrea.
  • Addio, dunque – ella riprese, tendendogli la mano.
  • Volete che vi accompagni fin giù alla strada? Non c’è nessuno.
  • Sì, accompagnatemi.
    Ella guardavasi a torno, un poco esitante.
  • Avete dimenticato nulla? – chiese Andrea.
    Ella guardò i fiori. Ma rispose:
  • Ah sì, il portabiglietti.
    Andrea corse a prenderlo sul tavolo del tè. Porgendolo a lei, disse:
  • A stranger hither!
  • No, my dear. A friend.
    Elena pronunziò questa risposta con la voce molto animata, vivacemente. Poi, d’un tratto, con un sorriso tra supplichevole e lusinghevole, misto di temenza e di tenerezza, su cui tremolò l’orlo del velo che giungeva fino al labbro superiore lasciando tutta libera la bocca:
  • Give me a rose.
    Andrea andò a ciascun vaso; e tolse tutte le rose, stringendole in un fascio ch’egli a stento reggeva tra le mani. Alcune caddero, altre si sfogliarono.
  • Erano per voi, tutte – egli disse, senza guardare l’amata.
    Ed Elena si volse per uscire, col capo chino, in silenzio, seguita da lui.
    Discesero le scale, sempre in silenzio. Egli le vedeva la nuca, così fresca e delicata, dove di sotto al nodo del velo i piccoli riccioli neri si mescolavano alla pelliccia cinerea.
  • Elena! – chiamò, a voce bassa, non potendo più vincere la struggente passione che gli gonfiava il cuore.
    Ella si rivolse, mettendosi l’indice su le labbra per indicargli di tacere, con un gesto dolente che pregava, mentre gli occhi le lucevano. Affrettò il passo, salì nella vettura, si sentì posare su le ginocchia le rose.
  • Addio! Addio!
    E, come la vettura si mosse, ella s’abbandonò al fondo, sopraffatta, rompendo in lacrime senza freno, straziando le rose con le povere mani convulse.

Il Piacere. A Francesco Paolo Michetti

 Questo libro, composto nella tua casa dall’ospite bene accetto, viene a te come un rendimento di grazie, come un ex-voto.

Nella stanchezza della lunga e grave fatica, la tua presenza m’era fortificante e consolante come il mare. Nei disgusti che seguivano il doloroso e capzioso artifizio dello stile, la limpida semplicità del tuo ragionamento m’era esempio ed emendazione. Ne’ dubbii che seguivano lo sforzo dell’analisi, non di rado una tua sentenza profonda m’era di lume.
A te che studii tutte le forme e tutte le mutazioni dello spirito come studii tutte le forme e tutte le mutazioni delle cose, a te che intendi le leggi per cui si svolge l’interior vita dell’uomo come intendi le leggi del disegno e del colore, a te che sei tanto acuto conoscitor di anime quanto grande artefice di pittura io debbo l’esercizio e lo sviluppo della più nobile tra le facoltà dell’intelletto: debbo l’abitudine dell’osservazione e debbo, in ispecie, il metodo. Io sono ora, come te, convinto che c’è per noi un solo oggetto di studii: la Vita.
Siamo, in verità, assai lontani dal tempo in cui, mentre tu nella Galleria Sciarra eri intento a penetrare i segreti del Vinci e del Tiziano, io ti rivolgeva un saluto di rime sospiranti

all’Ideale che non ha tramonti,
alla Bellezza che non sa dolori!

Ben, però, un vóto di quel tempo s’è compiuto. Siam tornati insieme alla dolce patria, alla tua « vasta casa ». Non gli arazzi medìcei pendono alle pareti, né convengono dame ai nostri decameroni, né i coppieri e i levrieri di Paolo Veronese girano intorno alle mense, né i frutti soprannaturali empiono i vasellami che Galeazzo Maria Sforza ordinò a Maffeo di Clivate. Il nostro desiderio è men superbo: e il nostro vivere è più primitivo, forse anche più omerico e più eroico se valgono i pasti lungo il risonante mare, degni d’Ajace, che interrompono i digiuni laboriosi.
Sorrido quando penso che questo libro, nel quale io studio, non senza tristezza, tanta corruzione e tanta depravazione e tanta sottilità e falsità e crudeltà vane, è stato scritto in mezzo alla semplice e serena pace della tua casa, fra gli ultimi stornelli della messe e le prime pastorali della neve, mentre insieme con le mie pagine cresceva la cara vita del tuo figliuolo.
Certo, se nel mio libro è qualche pietà umana e qualche bontà, rendo mercede al tuo figliuolo. Nessuna cosa intenerisce e solleva quanto lo spettacolo d’una vita che si schiude. Perfino lo spettacolo dell’aurora cede a quella meraviglia.
Ecco, dunque, il volume. Se, leggendolo, l’occhio ti corra più oltre e veda tu Giorgio porgerti le mani e dal tondo viso riderti, come nella divina strofe di Catullo, semihiante labello, interrompi la lettura. E le piccole calcagna rosee, dinanzi a te, premano le pagine dov’è rappresentata tutta la miseria del Piacere; e quel premere inconsapevole sia simbolo e augurio.
Ave, Giorgio. Amico e maestro, gran mercé.

Dal Convento: secondo Carmine, 1889.

G. d’A.