L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de’ Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch’esalavan ne’ vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d’un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d’argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz’ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov’era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell’appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L’ansia dell’aspettazione lo pungeva così acutamente ch’egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora sorse nello spirito dell’aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un’ora di intimità. Ella aveva molt’arte nell’accumulare gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po’ indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell’atto un po’ faticoso, per i movimenti de’ muscoli e per l’ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, e da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d’un pallor d’ambra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po’ correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.
Appena ella aveva compiuta l’opera, le legna conflagravano e rendevano un sùbito bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo entrante pe’ vetri lottavano qualche tempo. L’odore del ginepro arso dava al capo uno stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie di follia infantile, alla vista della vampa. Aveva l’abitudine, un po’ crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch’eran ne’ vasi, alla fine d’ogni convegno d’amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita, mettendo i guanti o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell’atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando prima un piede e poi l’altro perché l’amante chino legasse i nastri delle scarpe ancóra disciolti.
Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le imagini del tempo lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia. Tra mezz’ora, certo, ella sarebbe venuta, ella si sarebbe seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni.
Il giorno del gran commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data era rimasta incancellabile nella memoria di Andrea. Egli ora, aspettando, poteva evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza infallibile. La visione del paesaggio nomentano gli si apriva d’innanzi ora in una luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono essere visibili da lontano per un irradiamento che si prolunga dalle loro forme.
La carrozza chiusa scorreva con un rumore eguale, al trotto: le muraglie delle antiche ville patrizie passavano d’innanzi agli sportelli, biancastre, quasi oscillanti, con un movimento continuo e dolce. Di tratto in tratto si presentava un gran cancello di ferro, a traverso il quale vedevasi un sentiero fiancheggiato di alti bussi, o un chiostro di verdura abitato da statue latine, o un lungo portico vegetale dove qua e là raggi di sole ridevano pallidamente.
Elena taceva, avvolta nell’ampio mantello di lontra, con un velo su la faccia, con le mani chiuse nel camoscio. Egli aspirava con delizia il sottile odore di eliotropio esalante dalla pelliccia preziosa, mentre sentiva contro il suo braccio la forma del braccio di lei. Ambedue si credevano lontani dagli altri, soli; ma d’improvviso passava la carrozza nera d’un prelato; o un buttero a cavallo, o una torma di chierici violacei, o una mandra di bestiame.
A mezzo chilometro dal ponte ella disse:
- Scendiamo.
Nella campagna la luce fredda e chiara pareva un’acqua sorgiva; e, come gli alberi al vento ondeggiavano, pareva per un’illusion visuale che l’ondeggiamento si comunicasse a tutte le cose.
Ella disse, stringendosi a lui e vacillando sul terreno aspro: - Io parto stasera. Questa è l’ultima volta…
Poi tacque; poi di nuovo parlò, a intervalli, su la necessità della partenza, su la necessità della rottura, con un accento pieno di tristezza. Il vento furioso le rapiva le parole di su le labbra. Ella seguitava. Egli interruppe, prendendole la mano e con le dita cercando tra i bottoni la carne del polso: - Non più! Non più!
Si avanzavano lottando contro le folate incalzanti. Ed egli, presso alla donna, in quella solitudine alta e grave, si sentì d’improvviso entrar nell’anima come l’orgoglio d’una vita più libera, una sovrabbondanza di forze. - Non partire! Non partire! Io ti voglio ancóra, sempre…
Le nudò il polso e insinuò le dita nella manica, tormentandole la pelle con un moto inquieto in cui era il desiderio di possessi maggiori.
Ella gli volse uno di quegli sguardi che lo ubriacavano come calici di vino. Il ponte era da presso, rossastro, nell’illuminazione del sole. Il fiume pareva immobile e metallico in tutta la lunghezza della sua sinuosità. I giunchi s’incurvavano su la riva, e le acque urtavano leggermente alcune pertiche infisse nella creta per reggere forse le lenze.
Allora egli cominciò ad incitarla con i ricordi. Le parlava de’ primi giorni, del ballo al Palazzo Farnese, della caccia nella campagna del Divino Amore, degli incontri mattutini nella piazza di Spagna lungo le vetrine degli orefici o per la via Sistina tranquilla e signorile, quando ella usciva dal palazzo Barberini seguita dalle ciociare che le offerivano nei canestri le rose. - Ti ricordi? Ti ricordi?
- Sì.
- E quella sera de’ fiori, in principio; quando io venni con tanti fiori… Tu eri sola, accanto alla finestra: leggevi. Ti ricordi?
- Sì, sì.
- Io entrai. Tu ti volgesti appena; tu mi accogliesti duramente. Che avevi? Io non so. Posai il mazzo sopra il tavolino e aspettai. Tu incominciasti a parlare di cose inutili, senza volontà e senza piacere. Io pensai, scorato: « Già ella non mi ama più! » Ma il profumo era grande: tutta la stanza già n’era piena. Io ti veggo ancóra, quando afferrasti con le due mani il mazzo e dentro ci affondasti tutta la faccia, aspirando. La faccia risollevata pareva esangue e gli occhi parevano alterati come da una specie di ebrietà…
- Segui, segui! – disse Elena, con la voce fievole, china sul parapetto, incantata dal fascino delle acque correnti.
- Poi, sul divano: ti ricordi? Io ti ricoprivo il petto, le braccia, la faccia, con i fiori, opprimendoti. Tu risorgevi continuamente, porgendo la bocca, la gola, le palpebre socchiuse. Fra la tua pelle e le mie labbra sentivo le foglie fredde e molli. Se io ti baciavo il collo, tu rabbrividivi in tutto il corpo, e tendevi le mani per tenermi lontano. Oh, allora… Avevi la testa affondata nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, le braccia nude sino al gomito; e nulla era più amoroso e più dolce che il piccolo tremito delle tue mani pallide su le mie tempie… Ti ricordi?
- Sì. Segui!
Egli seguiva, crescendo nella tenerezza. Inebriato delle sue parole, egli quasi perdeva la conscienza di ciò che diceva. Elena, con le spalle volte alla luce, andavasi chinando all’amante. Ambedue sentivano a traverso le vesti il contatto indeciso dei corpi. Sotto di loro, le acque del fiume passavano lente e fredde alla vista; i grandi giunchi sottili, come capigliature, vi si incurvavano entro ad ogni soffio e fluttuavano largamente.
Poi non parlarono più; ma, guardandosi, sentivano negli orecchi un rumore continuo che si prolungava indefinitamente portando seco una parte dell’essere loro, come se qualche cosa di sonoro sfuggisse dall’intimo del loro cervello e si spandesse ad empire tutta la campagna circostante.
Elena, sollevandosi, disse: - Andiamo. Ho sete. Dove si può chiedere acqua?
Si diressero allora verso l’osteria romanesca, passato il ponte. Alcuni carrettieri staccavano i giumenti, imprecando ad alta voce. Il chiaror dell’occaso feriva il gruppo umano ed equino, con viva forza.
Come i due entrarono, nella gente dell’osteria non avvenne alcun moto di meraviglia. Tre o quattro uomini febbricitanti stavano intorno a un braciere quadrato, taciturni e giallastri. Un bovaro, di pel rosso, sonnecchiava in un angolo, tenendo ancóra fra i denti la pipa spenta. Due giovinastri, scarni e biechi, giocavano a carte, fissandosi negli intervalli con uno sguardo pieno d’ardor bestiale. E l’ostessa, una femmina pingue, teneva fra le braccia un bambino, cullandolo pesantemente.
Mentre Elena beveva l’acqua nel bicchiere di vetro, la femmina le mostrava il bambino, lamentandosi. - Guardate, signora mia! Guardate, signora mia!
Tutte le membra della povera creatura erano di una magrezza miserevole; le labbra violacee erano coperte di punti bianchicci; l’interno della bocca era coperto come di grumi lattosi. Pareva quasi che la vita fosse di già fuggita da quel piccolo corpo, lasciando una materia su cui ora le muffe vegetavano. - Sentite, signora mia, le mani come sono fredde. Non può più bere; non può più inghiottire; non può più dormire…
La femmina singhiozzava. Gli uomini febbricitanti guardavano con occhi pieni di una immensa prostrazione. Ai singhiozzi i due giovinastri fecero un atto d’impazienza. - Venite, venite! – disse Andrea ad Elena, prendendole il braccio, dopo aver lasciato sul tavolo una moneta. E la trasse fuori.
Insieme, tornarono verso il ponte. Il corso dell’Aniene ora andavasi accendendo ai fuochi dell’occaso. Una linea scintillante attraversava l’arco; e in lontananza le acque prendevano un color bruno ma più lucido, come se sopra vi galleggiassero chiazze d’olio o di bitume. La campagna accidentata, simile ad una immensità di rovine, aveva una general tinta violetta. Verso l’Urbe il cielo cresceva in rossore. - Povera creatura! – mormorò Elena con suono profondo di misericordia, stringendosi al braccio d’Andrea.
Il vento imperversava. Una torma di cornacchie passò nell’aria accesa, in alto, schiamazzando.
Allora, d’improvviso, una specie di esaltazione sentimentale prese l’anima di quei due, in conspetto della solitudine. Pareva che qualche cosa di tragico e di eroico entrasse nella loro passione. I culmini del sentimento fiammeggiarono sotto l’influenza del tramonto tumultuoso. Elena si arrestò. - Non posso più – ella disse, ansando.
La carrozza era ancóra lontana, immobile, nel punto dove essi l’avevano lasciata. - Ancóra un poco, Elena! Ancóra un poco! Vuoi ch’io ti porti?
Andrea, preso da un impeto lirico infrenabile, si abbandonò alle parole.
« Perché ella voleva partire? Perché ella voleva spezzare l’incanto? i loro destini ormai non erano legati per sempre? Egli aveva bisogno di lei per vivere, degli occhi, della voce, del pensiero di lei… Egli era tutto penetrato da quell’amore; aveva tutto il sangue alterato come da un veleno, senza rimedio. Perché ella voleva fuggire? Egli si sarebbe avviticchiato a lei, l’avrebbe prima soffocata sul suo petto. No, non poteva essere. Mai! Mai! »
Elena ascoltava, a testa bassa, affaticata contro il vento, senza rispondere. Dopo un poco, ella sollevò il braccio per far cenno al cocchiere di avanzarsi. I cavalli scalpitarono. - Fermatevi a Porta Pia – gridò la signora, salendo nella carrozza insieme all’amante.
E con un movimento subitaneo si offerse al desiderio di lui che le baciò la bocca, la fronte, i capelli, gli occhi, la gola, avidamente, rapidamente, senza più respirare. - Elena! Elena!
Un vivo bagliore rossastro entrò nella carrozza, riflesso dalle case color di mattone. Si avvicinava nella strada il trotto sonante di molti cavalli.
Elena, piegandosi su la spalla dell’amante con una immensa dolcezza di sommessione, disse: - Addio, amore! Addio! Addio!
Come ella si sollevò, a destra e a sinistra passarono a gran trotto dieci o dodici cavalieri scarlatti tornanti dalla caccia della volpe. Uno, il duca di Beffi, passando rasente, si curvò in arcione per guardare nello sportello.
Andrea non parlò più. Egli sentiva ora tutto il suo essere mancare in un abbattimento infinito. La puerile debolezza della sua natura, sedata la prima sollevazione, gli dava ora un bisogno di lacrime. Egli avrebbe voluto piegarsi, umiliarsi, pregare, muovere la pietà della donna con le lacrime. Aveva la sensazione confusa e ottusa d’una vertigine; e un freddo sottile gli assaliva la nuca, gli penetrava la radice dei capelli. - Addio – ripeté Elena.
Sotto l’arco della Porta Pia la carrozza si fermava, perché egli discendesse.
Così dunque, aspettando, Andrea rivedeva nella memoria quel giorno lontano; rivedeva tutti i gesti, riudiva tutte le parole. Che aveva fatto egli, appena scomparsa la carrozza di Elena verso le Quattro Fontane? Nulla, in verità, di straordinario. Anche allora, come sempre, appena lontano l’oggetto immediato da cui il suo spirito traeva quella specie di esaltazione fatua, egli aveva riacquistato quasi d’un tratto la tranquillità, la conscienza della vita comune, l’equilibrio. Era salito su una vettura publica per tornare a casa; là s’era messo l’abito nero, come al solito, non dimenticando alcuna particolarità di eleganza; ed era andato a pranzo da sua cugina, come in ogni altro mercoledì, al palazzo Roccagiovine. Tutte le cose dell’esistenza esteriore avevano su lui un gran potere d’oblio, lo occupavano, lo eccitavano al godimento rapido dei piaceri mondani.
Quella sera, infatti, il raccoglimento gli era venuto assai tardi, quando cioè rientrando nella sua casa aveva veduto brillare sopra un tavolo il piccolo pettine di tartaruga dimenticato da Elena due giorni innanzi. Allora, in compenso, tutta la notte, aveva sofferto, e con molti artifici del pensiero aveva acuito il suo dolore.
Ma il momento si approssimava. L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e tre quarti. Egli pensò, con una trepidazione profonda: « Fra pochi minuti Elena sarà qui. Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò? »
L’ansia in lui era verace e l’amore per quella donna era in lui rinato veracemente; ma la espressione verbale e plastica de’ sentimenti in lui era sempre così artificiosa, così lontana dalla semplicità e dalla sincerità, che egli ricorreva per abitudine alla preparazione anche ne’ più gravi commovimenti dell’animo.
Cercò d’imaginare la scena; compose alcune frasi; scelse con gli occhi intorno il luogo più propizio al colloquio. Poi anche si levò per vedere in uno specchio se il suo volto era pallido, se rispondeva alla circostanza. E il suo sguardo, nello specchio, si fermò alle tempie, all’attaccatura dei capelli, dove Elena allora soleva mettere un bacio delicato. Aprì le labbra per mirare la perfetta lucentezza dei denti e la freschezza delle gengive, ricordando che un tempo ad Elena piaceva in lui sopra tutto la bocca. La sua vanità di giovine viziato ed effeminato non trascurava mai nell’amore alcun effetto di grazia o di forma. Egli sapeva, nell’esercizio dell’amore, trarre dalla sua bellezza il maggior possibile godimento. Questa felice attitudine del corpo e questa acuta ricerca del piacere appunto gli cattivavano l’animo delle donne. Egli aveva in sé qualche cosa di Don Giovanni e di Cherubino: sapeva essere l’uomo di una notte erculea e l’amante timido, candido, quasi verginale. La ragione del suo potere stava in questo: che, nell’arte d’amare, egli non aveva ripugnanza ad alcuna finzione, ad alcuna falsità, ad alcuna menzogna. Gran parte della sua forza era nella ipocrisia.
« Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò? » Egli si smarriva, mentre i minuti fuggivano. Egli non sapeva già con quali disposizioni Elena sarebbe venuta.
L’aveva incontrata la mattina innanzi per la via de’ Condotti, mentre ella guardava nelle vetrine. Era tornata a Roma da pochissimi giorni, dopo una lunga assenza oscura. L’incontro improvviso aveva dato ad ambedue una commozione viva; ma la publicità della strada li aveva costretti ad un riserbo cortese, cerimonioso, quasi freddo. Egli le aveva detto, con un’aria grave, un po’ triste, guardandola negli occhi: – Ho tante cose da raccontarvi, Elena. Venite da me, domani? Nulla è mutato nel buen retiro. – Ella aveva risposto, semplicemente: – Bene; verrò. Aspettatemi alle quattro, circa. Ho anch’io qualche cosa da dirvi. Ora lasciatemi.
Ella aveva accettato sùbito l’invito, senza esitazione alcuna, senza metter patti, senza mostrar di dare importanza alla cosa. Una tal prontezza aveva da prima suscitato in Andrea non so qual preoccupazione vaga. Sarebbe ella venuta come un’amica o come un’amante? Sarebbe venuta a riallacciare l’amore o a rompere ogni speranza? In quei due anni che era mai accaduto nell’animo di lei? Andrea non sapeva; ma gli durava ancóra la sensazione avuta dallo sguardo di lei, nella strada, quando egli erasi inchinato a salutarla. Era pur sempre il medesimo sguardo, così dolce, così profondo, così lusinghevole, tra i lunghissimi cigli.
Mancavano due o tre minuti all’ora. L’ansia dell’aspettante crebbe a tal punto ch’egli credeva di soffocare. Andò alla finestra, di nuovo, e guardò verso le scale della Trinità. Elena, un tempo, saliva per quelle scale ai convegni. Mettendo il piede sull’ultimo gradino, si soffermava un istante; poi traversava rapida quel tratto di piazza ch’è d’innanzi alla casa dei Casteldelfino. Si udiva il suo passo un poco ondeggiante risonare sul lastrico, se la piazza era silenziosa.
L’orologio batté le quattro. Giungeva dalla piazza di Spagna e dal Pincio il romore delle vetture. Molta gente camminava sotto gli alberi, d’innanzi alla Villa Medici. Due donne stavano sul sedile di pietra, sotto la chiesa, a guardia di alcuni bimbi che correvano intorno l’obelisco. L’obelisco era tutto roseo, investito dal sole declinante; e segnava un’ombra lunga, obliqua, un po’ turchina. L’aria diveniva rigida, come più s’appressava il tramonto. La città, in fondo, si tingeva d’oro, contro un cielo pallidissimo sul quale già i cipressi del Monte Mario si disegnavano neri.
Andrea trasalì. Vide un’ombra apparire in cima alla piccola scala che costeggia la casa dei Casteldelfino e discende su la piazzetta Mignanelli. Non era Elena; ma una signora che voltò per la via Gregoriana, camminando adagio.
« S’ella non venisse? » dubitò, ritraendosi dalla finestra. E nel ritrarsi dall’aria fredda, sentì più molle il tepore della stanza, più acuto il profumo del ginepro e delle rose, più misteriosa l’ombra delle tende e delle portiere. Pareva che in quel momento la stanza fosse tutta pronta ad accogliere la donna desiderata. Egli pensò alla sensazione che Elena avrebbe avuto entrando. Certo, ella sarebbe stata vinta da quella dolcezza così piena di memorie; avrebbe d’un tratto perduta ogni nozione della realtà, del tempo; avrebbe creduto di trovarsi ad uno de’ convegni abituali, di non aver mai interrotta quella pratica di voluttà, d’esser pur sempre la Elena d’una volta. Se il teatro dell’amore era immutato, perché sarebbe mutato l’amore? Certo, ella avrebbe sentita la profonda seduzione delle cose una volta dilette.
Allora cominciò nell’aspettante una nuova tortura. Gli spiriti acuiti dalla consuetudine della contemplazione fantastica e del sogno poetico dànno alle cose un’anima sensibile e mutabile come l’anima umana; e leggono in ogni cosa, nelle forme, ne’ colori, ne’ suoni, ne’ profumi, un simbolo trasparente, l’emblema d’un sentimento o d’un pensiero; ed in ogni fenomeno, in ogni combinazion di fenomeni credono indovinare uno stato psichico, una significazione morale. Talvolta la visione è così lucida che produce in quegli spiriti un’angoscia: si sentono essi come soffocare dalla pienezza della vita rivelata e si sbigottiscono de’ loro stessi fantasmi.
Andrea vide nell’aspetto delle cose intorno riflessa l’ansietà sua; e come il suo desiderio si sperdeva inutilmente nell’attesa e i suoi nervi s’indebolivano, così parve a lui che l’essenza direi quasi erotica delle cose anche vaporasse e si dissipasse inutilmente. Tutti quegli oggetti, in mezzo a’ quali egli aveva tante volte amato e goduto e sofferto, avevano per lui acquistato qualche cosa della sua sensibilità. Non soltanto erano testimoni de’ suoi amori, de’ suoi piaceri, delle sue tristezze, ma eran partecipi. Nella sua memoria, ciascuna forma, ciascun colore armonizzava con una imagine muliebre, era una nota in un accordo di bellezza, era un elemento in una estasi di passione. Per la natura del suo gusto, egli ricercava negli amori un gaudio molteplice: il complicato diletto di tutti i sensi, l’alta commozione intellettuale, gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità. E poiché egli ricercava con arte, come un estetico, traeva naturalmente dal mondo delle cose molta parte della sua ebrezza. Questo delicato istrione non comprendeva la comedia dell’amore senza gli scenarii.
Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un abilissimo apparecchiatore. Ma nell’artificio quasi sempre egli metteva tutto sé; vi spendeva la ricchezza del suo spirito largamente; vi si obliava così che non di rado rimaneva ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d’un incantatore il quale fosse preso nel cerchio stesso del suo incantesimo.
Tutto, intorno, aveva assunto per lui quella inesprimibile apparenza di vita che acquistano, ad esempio, gli arnesi sacri, le insegne d’una religione, gli strumenti d’un culto, ogni figura su cui si accumuli la meditazione umana o da cui l’imaginazione umana poggi a una qualche ideale altezza. Come una fiala rende dopo lunghi anni il profumo dell’essenza che vi fu un giorno contenuta, così certi oggetti conservavano pur qualche vaga parte dell’amore onde li aveva illuminati e penetrati quel fantastico amante. E a lui veniva da loro una incitazione tanto forte ch’egli n’era turbato talvolta come dalla presenza d’un potere soprannaturale.
Pareva, in vero, ch’egli conoscesse direi quasi la virtualità afrodisiaca latente in ciascuno di quegli oggetti e la sentisse in certi momenti sprigionarsi e svolgersi e palpitare intorno a lui. Allora, s’egli era nelle braccia dell’amata, dava a sé stesso ed al corpo ed all’anima di lei una di quelle supreme feste il cui solo ricordo basta a rischiarare una intiera vita. Ma s’egli era solo, un’angoscia grave lo stringeva, un rammarico inesprimibile, al pensiero che quel grande e raro apparato d’amore si perdeva inutilmente.
Inutilmente! Nelle alte coppe fiorentine le rose, anch’esse aspettanti, esalavano tutta la intima lor dolcezza. Sul divano, alla parete, i versi argentei in gloria della donna e del vino, frammisti così armoniosamente agli indefinibili colori serici nel tappeto persiano del XVI secolo, scintillavano percossi dal tramonto, in un angolo schietto disegnato dalla finestra, e rendevan più diafana l’ombra vicina, propagavano un bagliore ai cuscini sottostanti. L’ombra, ovunque, era diafana e ricca, quasi direi animata dalla vaga palpitazion luminosa che hanno i santuarii oscuri ov’è un tesoro occulto. Il fuoco nel camino crepitava; e ciascuna delle sue fiamme era, secondo l’imagine di Percy Shelley, come una gemma disciolta in una luce sempre mobile. Pareva all’amante che ogni forma, che ogni colore, che ogni profumo rendesse il più delicato fiore della sua essenza, in quell’attimo. Ed ella non veniva! Ed ella non veniva!
Sorse allora nella mente di lui, per la prima volta, il pensiero del marito.
Elena non era più libera. Aveva rinunziato alla bella libertà della vedovanza, passando in seconde nozze con un gentiluomo d’Inghilterra, con un Lord Humphrey Heathfield, alcuni mesi dopo l’improvvisa partenza da Roma. Andrea infatti si ricordava di aver visto l’annunzio del matrimonio in una cronaca mondana, nell’ottobre del mille ottocento ottanta cinque; e d’aver sentito fare su la nuova Lady Helen Heathfield una infinità di commenti per tutte le villeggiature di quell’autunno romano. Anche si ricordava di avere incontrato una decina di volte, nel precedente inverno, quel Lord Humphrey ai sabati della principessa Giustiniani-Bandini e nelle vendite publiche. Era un uomo di quarant’anni, d’una biondezza cinerea, calvo su le tempie, quasi esangue, con due occhi chiari ed acuti, con una grande fronte sporgente solcata di vene. Il suo nome, Heatfield, era ben quello del luogotenente generale che fu l’eroe della celebre difesa di Gibilterra (1779-83), reso immortale anche dal pennello di Joshua Reynolds.
Qual parte aveva quell’uomo nella vita di Elena? Da quali legami, oltre che dalle nozze, era Elena legata a colui? Quali transformazioni aveva operato in lei il contatto materiale e spirituale del marito?
Gli enigmi sorsero d’un tratto nell’animo di Andrea, tumultuariamente. In mezzo al tumulto, gli apparve netta e precisa l’imagine del connubio fisico di que’ due; e il dolore fu così insopportabile ch’egli si levò col balzo istintivo d’un uomo il quale si senta d’improvviso ferire in un membro vitale. Attraversò la stanza, uscì nell’anticamera, origliò alla porta ch’egli aveva lasciata socchiusa. Eran quasi le cinque meno un quarto.
Dopo un poco, egli udì su per le scale un passo, un fruscìo di vesti, un respiro affaticato. Certo, una donna saliva. Tutto il sangue gli si mosse con tal veemenza, che, snervato dalla lunga aspettazione, egli credeva di smarrire le forze e di cadere. Ma pure udì il suono del piede feminile su gli ultimi gradini, un respiro più lungo, il passo sul pianerottolo, su la soglia. Elena entrò. - Oh, Elena! Finalmente.
Era in quelle parole così profonda l’espressione dell’angoscia durata che alla donna apparve su le labbra un’indefinibile sorriso, misto di misericordia e di piacere. Egli le prese la destra, ch’era senza guanto, traendola verso la stanza. Ella ansava ancóra; ma aveva per tutto il volto diffusa una lieve fiamma, sotto il velo nero. - Perdonatemi, Andrea. Ma non ho potuto liberarmi prima d’ora. Tante visite… tanti biglietti da restituire… Sono giornate faticose. Non ne posso più. Come fa caldo qui! Che profumo!
Ella stava ancóra in piedi, nel mezzo della stanza; un po’ titubante e preoccupata, sebbene parlasse rapida e leggera. Un mantello di panno Carmélite, con maniche nello stile dell’Impero tagliate dall’alto in larghi sgonfi, spianate e abbottonate al polso, con un immenso bavero di volpe azzurra per unica guarnitura, le copriva tutta la persona senza toglierle la grazia della snellezza. Ella guardava Andrea, con gli occhi pieni di non so che sorriso tremulo che ne velava l’acuta indagine. Disse: - Voi siete un poco mutato. Non saprei dirvi in che. Avete ora nella bocca, per esempio, qualche cosa di amaro ch’io non conosceva.
Disse queste parole con un tono di familiarità affettuosa. La voce di lei, risonando nella stanza, dava ad Andrea un diletto così vivo ch’egli esclamò: - Parlate, Elena; parlate ancóra!
Ella rise. E domandò: - Perché?
Egli rispose, prendendole la mano: - Voi lo sapete.
Ella ritrasse la mano; e guardò il giovine fin dentro gli occhi. - Io non so più nulla.
- Voi siete dunque mutata?
- Molto mutata.
Già il « sentimento » li traeva ambedue. La risposta di Elena chiariva d’un tratto il problema. Andrea comprese; e, rapidamente ma precisamente, per un fenomeno d’intuizione non raro in certi spiriti esercitati all’analisi dell’essere interiore, intravide l’attitudine morale della visitatrice e lo svolgimento della scena che doveva seguire. Egli però era già tutto invaso dalla malia di quella donna, come una volta. Inoltre, la curiosità lo pungeva forte. Disse: - Non sedete?
- Sì, un momento.
- Là, su la poltrona.
- Ah, la mia poltrona! – ella stava per dire, con un moto spontaneo, poiché l’aveva riconosciuta; ma si trattenne.
Era una seggiola ampia e profonda, ricoperta d’un cuoio antico, sparso di Chimere pallide a rilievo, in sul gusto di quello che ricopre le pareti d’una stanza del palazzo Chigi. Il cuoio aveva preso quella tinta calda e opulenta che ricorda certi fondi di ritratti veneziani, o un bel bronzo conservante appena una traccia di doratura o una scaglia di tartaruga fina da cui trasparisca una foglia d’oro. Un gran cuscino, tagliato in una dalmatica, d’un colore assai disfatto, di quel colore che i setaiuoli fiorentini chiamavano rosa di gruogo, rendeva molle la spalliera.
Elena sedette. Posò su l’orlo della tavola da tè il guanto destro e il portabiglietti ch’era una sottile guaina d’argento liscio con sopra incise due giarrettiere allacciate, recanti un motto. Quindi si tolse il velo, sollevando le braccia per sciogliere il nodo dietro la testa; e l’atto elegante destò qualche onda lucida nel velluto: alle ascelle, lungo le maniche, lungo il busto. Poiché il calore del camino era soverchio, ella si fece schermo con la mano nuda che s’illuminò come un alabastro rosato: gli anelli nel gesto scintillarono. Ella disse: - Coprite il fuoco; vi prego. Brucia troppo.
- Non vi piace più la fiamma? Ed eravate, un tempo, una salamandra! Questo camino è memore…
- Non movete le memorie – ella interruppe. – Coprite dunque il fuoco, e accendete un lume. Io farò il tè.
- Non volete togliervi il mantello?
- No, perché debbo andar via presto. E’ già tardi.
- Ma soffocherete.
Ella si levò, con un piccolo atto d’impazienza. - Aiutatemi, allora.
Andrea sentì, nel toglierle il mantello, il profumo di lei. Non era più quello d’una volta; ma era d’una tal bontà che gli giunse fino ai precordii. - Avete un altro profumo – egli disse, con un accento singolare.
Rispose ella, semplicemente: - Sì. Vi piace?
Andrea, ancóra tenendo il mantello fra le mani, affondò il volto nella pelliccia che ornava il collo e che più quindi era profumata dal contatto della carne e de’ capelli di lei. Poi chiese: - Come si chiama?
- E’ senza nome.
Ella di nuovo sedette su la poltrona, entrando nel chiaror della fiamma. Aveva un abito nero, tutto composto di merletti in mezzo a cui brillavano perline innumerevoli, nere e d’acciaio.
Il crepuscolo moriva contro i vetri. Andrea accese su i candelabri di ferro certe candele attorte, di colore aranciato molto intenso. Poi trasse d’innanzi al caminetto il parafuoco.
Ambedue, in quell’intervallo di silenzio, erano nell’animo perplessi. Elena non aveva la conscienza esatta del momento, né la sicurezza di sé; pur tentando uno sforzo, non riusciva a riafferrare il suo proposito, a raccogliere le sue intenzioni, a riprendere la sua volontà. D’innanzi a quell’uomo a cui un tempo l’aveva stretta una così alta passione, in quel luogo dove ella aveva vissuto la sua più ardente vita, sentiva a poco a poco tutti i pensieri vacillare, dissolversi, dileguarsi. Ormai il suo spirito stava per entrare in quello stato delizioso, direi quasi di fluidità sentimentale, in cui riceve ogni movimento, ogni attitudine, ogni forma dalle vicende esterne, come un vapore aereo dalle mutazioni dell’atmosfera. Esitava, prima di abbandonarvisi.
Andrea disse, piano, quasi umile: - Va bene, così?
Ella gli sorrise, senza rispondere, poiché quelle parole le avevano dato un diletto indefinibile, quasi un tremolio di dolcezza a sommo del petto. Incominciò la sua opera delicata. Accese la lampada sotto il vaso dell’acqua; aprì la scatola di lacca, dov’era conservato il tè, e mise nella porcellana una quantità misurata d’aroma; poi preparò due tazze. I suoi gesti erano lenti e un poco irresoluti, come di chi operando abbia l’animo rivolto ad altro oggetto; le sue mani bianche e purissime avevano nel muoversi una leggerezza quasi di farfalle, non parendo toccare le cose ma appena sfiorarle; dai suoi gesti, dalle sue mani, da ogni lieve ondulamento del suo corpo usciva non so che tenue emanazion di piacere e andava a blandire il senso dell’amante.
Andrea, seduto da presso, la guardava con gli occhi un poco socchiusi, bevendo per le pupille il fascino voluttuoso che nasceva da lei. Era come se ogni moto divenisse per lui tangibile idealmente. Quale amante non ha provato questo inesprimibile gaudio, in cui par quasi che la potenza sensitiva del tatto si affini così da avere la sensazione senza la immediata materialità del contatto?
Ambedue tacevano. Elena s’era abbandonata sul cuscino: aspettava che l’acqua bollisse. Guardando la fiamma azzurra della lampada, toglieva dalle dita gli anelli, e se li rimetteva di continuo, smarrita in un’apparenza di sogno. Non era un sogno, ma come una rimembranza vaga, ondeggiante, confusa, fuggevole. Tutte le memorie dell’amor passato le risorgevano nello spirito, ma senza chiarezza: e le davano una espressione incerta ch’ella non sapeva se fosse un piacere o un dolore. Pareva come quando da molti fiori estinti, de’ quali ciascuno ha perduto ogni singolarità di colori e di effluvi, nasce una comune esalazione in cui e’ possibile riconoscere i diversi elementi. Pareva ch’ella portasse in sé l’ultimo alito dei ricordi già spirati, l’ultima traccia delle gioie già scomparse, l’ultimo risentimento della felicità già morta, qualche cosa di simile a un vapor dubbio da cui emergessero imagini senza nome, senza contorno, interrotte. Ella non sapeva se fosse un piacere o un dolore; ma a poco a poco quell’agitazione misteriosa, quella inquietudine indefinibile aumentavano e le gonfiavano il cuore di dolcezza e di amarezza. I presentimenti oscuri, i segreti rimpianti, i timori superstiziosi, le aspirazioni combattute, i dolori soffocati, i sogni travagliati, i desiderii non appagati, tutti quei torbidi elementi che componevano l’interior vita di lei ora si rimescolavano e tempestavano.
Ella taceva, tutta raccolta in sé. Mentre il suo cuore quasi traboccava, ella godeva accumularvi ancóra col silenzio la commozione. Parlando, ella l’avrebbe dispersa.
Il vaso dell’acqua incominciò a levare il bollore pianamente.
Andrea su la sedia bassa, tenendo il gomito poggiato al ginocchio e il mento nella palma, guardava ora la bella creatura con tale intensità ch’ella, pur non volgendosi, sentiva su la sua persona quella persistenza e ne aveva quasi un vago malessere fisico. Andrea, guardandola, pensava: « Io ho posseduto questa donna, un giorno. » Egli ripeteva a sé stesso l’affermazione, per convincersi; e faceva, per convincersi, uno sforzo mentale, richiamava alla memoria una qualche attitudine di lei nel piacere, cercava di rivederla fra le sue braccia. La certezza del possesso gli sfuggiva. Elena gli pareva una donna nuova, non mai goduta, non mai stretta.
Ella era, in verità, ancor più desiderabile che una volta. L’enigma quasi direi plastico della sua bellezza era ancor più oscuro e attirante. La sua testa dalla fronte breve, dal naso dritto, dal sopracciglio arcuato, d’un disegno così puro, così fermo, così antico, che pareva essere uscita dal cerchio d’una medaglia siracusana, aveva negli occhi e nella bocca un singolar contrasto di espressione: quell’espressione passionata, intensa, ambigua, sopraumana, che solo qualche moderno spirito, impregnato di tutta la profonda corruzione dell’arte, ha saputo infondere in tipi di donna immortali come Monna Lisa e Nelly O’ Brien.
« Altri ora la possiede » pensava Andrea, guardandola. « Altre mani la toccano, altre labbra la baciano. » E, mentre egli non giungeva a formar nella fantasia l’imagine dell’unione di sé con lei, vedeva nuovamente invece, con implacabile precisione, l’altra imagine. E una smania l’invadeva, di sapere, di scoprire, d’interrogare, acutissima.
Elena s’era chinata al tavolo, poiché il vapore fuggiva, per la commessura del coperchio, dal vaso bollente. Versò appena un poco d’acqua sul tè; poi mise due pezzi di zucchero in una sola tazza; poi versò sul tè altra acqua; poi spense la fiamma azzurra. Ella fece tutto questo con una cura quasi tenera, ma senza mai volgersi ad Andrea. L’interno tumulto risolvevasi ora in un intenerimento così molle ch’ella si sentiva chiudere la gola e inumidire gli occhi; e non poteva resistere. Tanti pensieri contrarii, tante contrarie agitazioni e alterazioni dell’animo si raccoglievano ora in una lacrima.
Ella, per un gesto, urtò il portabiglietti d’argento, che cadde sul tappeto. Andrea lo raccolse, e guardò le due giarrettiere incise. Portava ciascuna un motto sentimentale: From Dreamland – A stranger hither; Dal Paese del Sogno – Straniera qui.
Com’egli levava gli occhi, Elena gli offerì la tazza fumante, con un sorriso un poco velato dalla lacrima.
Vide egli quel velo; e innanzi a quell’inaspettato segno di tenerezza fu invaso da un tale impeto d’amore e di riconoscenza che posò la tazza, s’inginocchiò, prese la mano d’Elena, sopra vi mise la bocca. - Elena! Elena!
Le parlava a voce bassa, in ginocchio, così da vicino che pareva volesse beverne l’alito. L’ardore era sincero, mentre le parole talvolta mentivano. « Egli l’amava, l’aveva sempre amata, non aveva mai mai mai potuto dimenticarla! aveva sentito, rincontrandola, tutta la sua passione insorgere con tal violenza che n’aveva avuto quasi terrore: una specie di terrore ansioso, come s’egli avesse intravisto, in un lampo, lo sconvolgimento di tutta la sua vita. » - Tacete! Tacete! – disse Elena, con il volto atteggiato di dolore, pallidissima.
Andrea seguitava, sempre in ginocchio, accendendosi nell’imaginazione del sentimento. « Egli aveva sentito trascinar via da lei, in quella fuga improvvisa, la maggior e miglior parte di sé. Dopo, egli non sapeva dirle tutta la miseria dei suoi giorni, l’angoscia de’ suoi rimpianti, l’assidua implacabile divorante sofferenza interiore. La tristezza era per lui in fondo a tutte le cose. La fuga del tempo gli era un supplizio insopportabile. Non tanto egli rimpiangeva i giorni felici quanto si doleva de’ giorni che ora passavano inutilmente per la felicità. Quelli almeno gli avevan lasciato un ricordo: questi gli lasciavano un rammarico profondo, quasi un rimorso… La sua vita si consumava in sé stessa, portando in sé la fiamma inestinguibile d’un sol desiderio, l’incurabile disgusto d’ogni altro godimento. Talvolta lo assalivano impeti di cupidigia quasi rabbiosi, disperati ardori verso il piacere; ed era come una ribellion violenta del cuore non saziato, come un sussulto della speranza che non si rassegnava a morire. Talvolta anche gli pareva d’esser ridotto a nulla; e rabbrividiva innanzi ai grandi abissi vacui del suo essere: di tutto l’incendio della sua giovinezza non gli restava che un pugno di cenere. Talvolta anche, a simiglianza d’uno di que’ sogni che si dileguano su l’alba, tutto il suo passato, tutto il suo presente si dissolvevano; si distaccavano dalla sua conscienza e cadevano, come una spoglia fragile, come una veste vana. Egli non si ricordava più di nulla, come un uomo escito da una lunga infermità, come un convalescente stupefatto. Egli alfine obliava; sentiva l’anima sua entrar dolcemente nella morte… Ma, d’improvviso, su da quella specie di tranquillità obliosa scaturiva un nuovo dolore e l’idolo abbattuto risorgeva più alto come un germe indistruttibile. Ella, ella era l’idolo che seduceva in lui tutte le volontà del cuore, rompeva in lui tutte le forze dell’intelletto, teneva in lui tutte le più segrete vie dell’anima chiuse ad ogni altro amore, ad ogni altro dolore, ad ogni altro sogno, per sempre, per sempre… »
Andrea mentiva; ma la sua eloquenza era così calda, la sua voce era così penetrante, il tócco delle sue mani era così amoroso, che Elena fu invasa da una infinita dolcezza. - Taci! – ella disse. – Io non debbo ascoltarti; io non sono più tua; io non potrò essere tua più mai. Taci! Taci!
- No, ascoltami.
- Non voglio. Addio. Bisogna ch’io vada. Addio, Andrea. E’ già tardi, lasciami.
Ella sviluppò la mano dalla stretta del giovine; e, superando ogni interno languore, fece atto di levarsi. - Perché dunque sei venuta? – chiese egli, con la voce un po’ roca, impedendole quell’atto.
Sebbene la violenza fosse lievissima, ella corrugò i sopraccigli, ed esitò prima di rispondere. - Son venuta – ella rispose, con una certa lentezza misurata, guardando l’amante negli occhi – son venuta perché tu m’hai chiamata. Per l’amore d’una volta, per il modo con cui quell’amore fu rotto, per il lungo silenzio oscuro della lontananza, io non avrei potuto senza durezza ricusare l’invito. E poi, io voleva dirti quel che t’ho detto: ch’io non sono più tua, che non potrò essere tua più mai. Volevo dirti questo, lealmente, per evitare a me e a te qualunque inganno doloroso, qualunque pericolo, qualunque amarezza, nell’avvenire. Hai inteso?
Andrea chinò il capo, quasi su le ginocchia di lei, in silenzio. Ella gli toccò i capelli, col gesto un tempo familiare. - E poi – seguitò, con una voce che mise a lui un brivido in tutte le fibre – e poi… volevo dirti ch’io ti amo, ch’io ti amo non meno d’una volta, che ancóra tu sei l’anima dell’anima mia, e che io voglio essere la tua sorella più cara, la tua amica più dolce. Hai inteso?
Andrea non si mosse. Ella, prendendo le tempie di lui fra le sue mani, gli sollevò la fronte; lo costrinse a guardarla negli occhi. - Hai inteso? – ripeté, con una voce anche più tenera e più sommessa.
I suoi occhi, all’ombra de’ lunghi cigli, parevano come suffusi d’un qualche olio purissimo e sottilissimo. La sua bocca, un poco aperta, aveva nel labbro superiore un piccolo tremito. - No; tu non mi amavi, tu non mi ami! – ruppe infine Andrea, togliendosi dalle tempie le mani di lei e traendosi indietro, poiché sentiva già nelle vene il fuoco insinuante ch’esalavano anche involontariamente quelle pupille e provava più acre il dolore d’aver perduto il possesso materiale della bellissima donna. – Tu non mi amavi! Tu, allora avesti cuore d’uccidere l’amor tuo, d’improvviso, quasi a tradimento, mentre ti dava la sua ebrezza più forte. Tu mi fuggisti, tu mi abbandonasti, tu mi lasciasti solo, sbigottito, tutto doloroso, a terra, mentre io ero ancóra accecato di promesse. Tu non mi amavi, tu non mi ami! Dopo una lontananza così lunga, piena di misteri, muta e inesorabile; dopo una così lunga attesa, in cui ho consunto il fiore della mia vita a nutrire una tristezza che m’era cara perché mi veniva da te; dopo tanta felicità e dopo tanta sciagura, ecco, tu rientri in un luogo dove ogni cosa per noi custodisce un ricordo ancóra vivo, e mi dici soavemente: « Io non sono più tua. Addio. » Ah, tu non mi ami!
- Ingrato! Ingrato! – esclamò Elena, ferita dalla voce quasi irosa del giovine. – Che sai tu di quel ch’è accaduto, di quel ch’io ho sofferto? Che sai?
- Io non so nulla, io non voglio nulla sapere – rispose Andrea, duramente, involgendola d’uno sguardo un po’ torbido, in fondo a cui tralucevano i suoi desideri esasperati. – Io so che tu fosti mia, un giorno, tutta quanta, con un abbandono senza ritegno, con una voluttà senza misura, come non mai alcuna altra donna; e so che né il mio spirito né la mia carne dimenticheranno mai quella ebrezza…
- Taci!
- Che fa a me la tua pietà di sorella? Tu, contro il tuo volere, ma la offri guardandomi con occhi d’amante, toccandomi con mani malsicure. Troppe volte ho veduto i tuoi occhi spengersi nel gaudio; troppe volte le tue mani m’han sentito rabbrividire. Io ti desidero.
Incitato dalle sue stesse parole, egli la strinse forte ai polsi ed appressò la sua faccia a quella di lei così ch’ella ebbe in su la bocca il caldo alito. - Io ti desidero, come non mai – seguitò egli, cercando d’attirarla al suo bacio, circondandole con un braccio il busto. – Ricórdati! Ricórdati!
Elena si levò respingendolo. Tremava tutta. - Non voglio. Intendi?
Egli non intendeva. Si riavvicinava ancóra, con le braccia tese, per prenderla: pallidissimo, risoluto. - Soffriresti tu – gridò ella con la voce un po’ soffocata, non potendo patire la violenza – soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo?
Ella aveva profferita quella domanda crudele, senza pensare. Ora, con gli occhi molto aperti, guardava l’amante: ansiosa e quasi sbigottita, come chi per salvarsi abbia vibrato un colpo senza misurarne la forza, e tema di aver ferito troppo nel profondo.
L’ardore di Andrea cadde d’un tratto. E gli si dipinse sul volto un dolor così grave che la donna n’ebbe al cuore una fitta.
Andrea disse, dopo un intervallo di silenzio: - Addio.
In quella sola parola era l’amarezza di tutte le altre parole ch’egli aveva ricacciate indietro.
Elena rispose dolcemente: - Addio. Perdonami.
Ambedue sentirono la necessità di chiudere, per quella sera, il colloquio periglioso. L’uno assunse una forma di cortesia esteriore quasi esagerata. L’altra divenne anche più dolce, quasi umile; e l’agitava un tremito incessante.
Prese ella di su la sedia il suo mantello. Andrea l’aiutò, con maniere premurose. Come ella non giungeva a mettere un braccio in una manica, Andrea la guidò, appena toccandola; quindi le porse il cappello e il velo. - Volete andare di là, allo specchio?
- No, grazie.
Ella andò verso la parete, a fianco del caminetto, ove pendeva un piccolo specchio antico dalla cornice ornata di figure scolpite con uno stile così agile e franco che parevano, piuttosto che nel legno, formate in un oro malleabile. Era un’assai leggiadra cosa, uscita certo dalle mani d’un delicato quattrocentista per una Mona Amorrosisca o per una Laldomine. Molte volte, nel tempo felice, Elena s’era messo il velo d’innanzi a quella lastra offuscata e maculata che aveva apparenza d’un’acqua torba, un poco verdastra. Ora, si risovveniva.
Quando vide la sua imagine apparire in quel fondo, ebbe un’impressione singolare. Un’onda di tristezza, più densa, le traversò lo spirito. Ma non parlò.
Andrea la guardava, con occhi intenti.
Come fu pronta, ella disse: - Sarà molto tardi.
- Non molto. Saranno le sei, forse.
- Io ho licenziata la mia carrozza – ella soggiunse. – Vi sarei tanto grata se mi faceste prendere una vettura chiusa.
- Permettete ch’io vi lasci qui sola, un momento? Il mio domestico è fuori.
Ella assentì. - Date voi stesso l’indirizzo al vetturino, vi prego: Albergo del Quirinale.
Egli uscì, chiudendo dietro di sé la porta della stanza. Ella rimase sola.
Rapidamente, volse gli occhi intorno, abbracciò con uno sguardo indefinibile tutta la stanza, si fermò alle coppe dei fiori. Le pareti le sembravano più vaste, la volta le sembrava più alta. Guardando, ella aveva la sensazione come d’un principio di vertigine. Non avvertiva più il profumo; ma certo l’aria doveva essere ardente e grave come in una serra. L’imagine di Andrea le appariva in una specie di balenio intermittente; le sonava negli orecchi qualche onda vaga della voce di lui. Stava ella per aver male? – Pure, che delizia chiudere gli occhi e abbandonarsi a quel languore!
Scotendosi, andò verso la finestra, l’aprì, respirò il vento. Rianimata, si volse di nuovo alla stanza. Le fiamme pallide delle candele oscillavano agitando leggere ombre su le pareti. Il camino non aveva più vampa, ma i tizzoni illuminavano in parte le figure sacre del parafuoco fatto d’un frammento di vetrata ecclesiastica. La tazza di tè era rimasta su l’orlo del tavolo, fredda, intatta. Il cuscino della poltrona conservava ancóra l’impronta del corpo ch’eravisi affondato. Tutte le cose intorno esalavano una melancolia indistinta che affluiva e s’addensava al cuor della donna. Il peso cresceva su quel debole cuore, diveniva un’oppressione dura, un affanno insopportabile. - Mio Dio! Mio Dio!
Ella avrebbe voluto fuggire. Una folata di vento più viva gonfiò le tende, agitò le fiammelle, sollevò un fruscìo. Ella trasalì, con un brivido; e quasi involontariamente chiamò: - Andrea!
La sua voce, quel nome nel silenzio, le diedero uno strano sussulto, come se la voce, il nome non fossero partiti dalla sua bocca. – Perché Andrea indugiava? – Ella si mise in ascolto. Non giungeva che il rumor sordo, cupo, confuso della vita urbana, nella sera di San Silvestro. Su la piazza della Trinità de’ Monti non passava alcuna vettura. Come il vento a tratti soffiava forte, ella richiuse la finestra: intravide la cima dell’obelisco, nera sul cielo stellato.
Forse Andrea non aveva trovato sùbito la vettura coperta, in piazza Barberini. Ella aspettò, seduta sul divano, cercando di quietare la folle agitazione, evitando di guardarsi nell’anima, forzando la sua attenzione alle cose esteriori. Attirarono i suoi occhi le figure vitree del parafuoco, appena illuminate dai tizzoni semispenti. Più sopra, su la sporgenza del caminetto, da una della coppe cadevano le foglie d’una grande rosa bianca che si disfaceva a poco a poco, languida, molle, con qualche cosa di feminino, direi quasi di carnale. Le foglie, concave, si posavano delicatamente sul marmo, simili a falde di neve nella caduta.
« Quanto, allora, pareva soave alle dita quella neve odorante! » ella pensò. « Tutte sfogliate, le rose conspargevano i tappeti, i divani, le sedie; ed ella rideva, felice, in mezzo alla devastazione; e l’amante, felice, erale ai piedi. »
Ma udì fermarsi una carrozza d’innanzi alla porta, nella strada; e si levò, scotendo la povera testa, come per cacciar via quella specie di ottusità che la fasciava. Sùbito dopo, rientrò Andrea, ansante. - Perdonatemi – disse. – Ma, non avendo trovato il portiere, sono sceso fino in piazza di Spagna. La vettura è giù che aspetta.
- Grazie – fece Elena guardandolo timidamente a traverso il velo nero.
Egli era serio e pallido, ma calmo. - Mumps arriverà forse domani – soggiunse ella, con una voce tenue. – Vi scriverò un biglietto, per dirvi quando potrò vedervi.
- Grazie – fece Andrea.
- Addio, dunque – ella riprese, tendendogli la mano.
- Volete che vi accompagni fin giù alla strada? Non c’è nessuno.
- Sì, accompagnatemi.
Ella guardavasi a torno, un poco esitante. - Avete dimenticato nulla? – chiese Andrea.
Ella guardò i fiori. Ma rispose: - Ah sì, il portabiglietti.
Andrea corse a prenderlo sul tavolo del tè. Porgendolo a lei, disse: - A stranger hither!
- No, my dear. A friend.
Elena pronunziò questa risposta con la voce molto animata, vivacemente. Poi, d’un tratto, con un sorriso tra supplichevole e lusinghevole, misto di temenza e di tenerezza, su cui tremolò l’orlo del velo che giungeva fino al labbro superiore lasciando tutta libera la bocca: - Give me a rose.
Andrea andò a ciascun vaso; e tolse tutte le rose, stringendole in un fascio ch’egli a stento reggeva tra le mani. Alcune caddero, altre si sfogliarono. - Erano per voi, tutte – egli disse, senza guardare l’amata.
Ed Elena si volse per uscire, col capo chino, in silenzio, seguita da lui.
Discesero le scale, sempre in silenzio. Egli le vedeva la nuca, così fresca e delicata, dove di sotto al nodo del velo i piccoli riccioli neri si mescolavano alla pelliccia cinerea. - Elena! – chiamò, a voce bassa, non potendo più vincere la struggente passione che gli gonfiava il cuore.
Ella si rivolse, mettendosi l’indice su le labbra per indicargli di tacere, con un gesto dolente che pregava, mentre gli occhi le lucevano. Affrettò il passo, salì nella vettura, si sentì posare su le ginocchia le rose. - Addio! Addio!
E, come la vettura si mosse, ella s’abbandonò al fondo, sopraffatta, rompendo in lacrime senza freno, straziando le rose con le povere mani convulse.