Nel nascere io fui come imbavagliato dalla morte; sicché non diedi grido. né pur avrei potuto trarre il primo respiro a vivere se mani esperte e pronte non avesser rotto i nodi e lacera quella sorta di tonica spegnitrice.
Dipoi ne’ primi anni dell’infanzia portai al collo chiusa entro un breve quella ligatura insolita che l’antichissima superstizione della mia gente reputava propizia.
La cornice della mia casa natale sportava in fuori tanto che le rondini l’avean rilavorata con la loro arte argigliosa soprapponendo alle gole ai gusci agli ovoli ai dentelli alle altre modanature senza grazia l’opera de’ nidi vivente. e quanto acconcia materia all’opera davano le ripe della Pescara, forse più duttile e tegnente di quella che orla l’isola di Philae dove certo aveano le artefici eletto alla vicenda il portico della prima corte nel tempio d’Iside.
Or come, se tra fiume e gocciolatoio il mestiero ferveva e strideva senza pausa, come poteva io resistere all’estro di sgattaiolare lesto per le scale di quel secondo piano? ch’era spesso deserto perché a uso di foresteria in prospetto del Corso nomato da un altro Gabriele: dall’eroico Manthoné. alla camera più ampia e signorile era rimasto il nome di un viaggiatore da Strasburgo dotto in chimica e in mineralogia, che ospite di Don Antonio mio nonno paterno vi morì. i famigli la chiamavan camera di Monzù Fridèl, non senza un’aura di spavento. e di quella appunto avevo io fatto il mio paradiso per que’ suoi tre poggiuoli sporgenti con le lor ringhiere di ferro panciute sotto l’aereo fregio di argilla.
La volta a conca, il pavimento di pietre vive la rendevano tanto sonora che le risse delle rondini echeggiate vi prolungavano bombi e stianti e tintinni del più chiaro argento. ben mi venne un giorno, per santo Cetteo, pe’ san Ciattè, l’estro di rissare in contrasto involando dagli armadii i nostri bacili d’argento e scagliandoli su la pietra liscia come se pazzo giocassi alle ruzzole, e poi raccattandoli e riscagliandoli ancóra a grandi strida finché dalle case di rimpetto e dalla strada si levò il vocìo dello sbalordimento.
Rimangono nella memoria de’ miei prossimi il mio strazio convulso il mio pianto disperato il mio orrore senza perdóno quando Rafaele il fattore con una lunga canna puntuta distrusse i nidi che avevano incretato tutti i voltoni della cantina come una enorme bugnereccia. né men penosa forse dura nella lor memoria quell’ora quando io strappai al mio piccolo cavallo sardo nomato Aquilino i crini che la mia sorella Ernesta voleva con me usare per cappii contro le covatrici della gronda.
Ma ella un giorno mi mostrò, in un sorriso di ambiguo dispetto, il suo pugno chiuso. s’indugiò a malizia; poi l’aperse. aveva nella palma una perla artefatta? era un ovo di rondinella.
Crollai la testa; mi allontanai di corsa. chiudevo le porte dietro di me, per ingannarla. dopo giri e rigiri, aguatando origliando con cautela felina mi arrischiai a salire il primo ramo delle scale. mi sentii nella condizione che in quegli anni compiva in me la pienezza della perfezione. ero una giovine belva che una creatura del mio sangue aveva provocato. tutta la mia audacia e tutta la mia scaltrezza si tendevano in un proposito solo. la falsa perla dalla palma della mia sorella era balzata al mio viso raddoppiandosi, e incastonandosi nelle mie palpebre. bisognava che – serbando intatto entro me il sentimento generato dalla strage di sotto i voltoni della cella vinaria e del mio rimorso nello strappare i cappii alla criniera di Aquilino – bisognava che senza fare alcun male io rapissi l’ovo di rondine in un de’ nidi; e che, come in un gioco istantaneo, io ridiscendessi per mostrarlo col medesimo gesto alla mia sorella dispettosa.
Soffermato sul pianerottolo, considerai la necessità di sfuggire all’attenzione della mia zia Rosalba primogenita germana del mio padre. ella aveva appunto le sue stanze nella parte del secondo piano opposta alla foresteria. il suo uscio di scala era chiuso.
Su gli ultimi gradini io fui non so che rapidità senza peso. ansante mi arrestai nel mezzo della camera luminosa come stupito e percosso da tanta chiarezza; ché l’istinto del mio atto furtivo mi pareva chiedere l’ombra. tutte le vetrate de’ poggiuoli erano aperte. la garrissa mi comprimevo il petto con le due mani per contenere il palpito e l’alito. poi mi sedetti e mi presi tra le due mani la fronte a riflettere. di botto mi levai nell’accorgermi di star seduto sur un panchetto senza spalliera tutto di faggio anche il piano e tanto alto che le gambe nude mi penzolavano. a salire sul ferro della ringhiera mi ci voleva proprio quello.
Scelsi il poggiuolo a manca. tutto guardai fuorché il lastrico di Gabriele Manthoné. riconobbi che ritto sul ferro non ero certo di giungere con la mia statura e con la man levata al primo nido, al men distante. tirai giù quel regolo che fa giocare le assicelle delle persiane per lasciar passare più o men di luce. m’ebbi a destra una specie di scala a piuoli, mettiamo scala di Giacobbe per angeli e arcangeli. a crescere un po’ più mi bastava poggiarvi la punta del piede o in estremo aggrapparmi.
Trascinato il panchetto acconcio, vi montai sopra. di là dai tetti a manca scorsi la zona turchina dell’Adriatico. ma nell’abbassare lo sguardo vidi alle finestre di rimpetto, specie a quelle della casa di Brina, donne curiose che stavano osservando il mio maneggio. giù nel Corso i bottegai escivano dalle loro soglie a guatare e comentare. le voci aumentavano, si cangiavano in grida di sbigottimento e di allarme, com’io salivo imperterrito sul ferro della ringhiera aiutandomi con le assi della persiana. le rondini stridivano a saetta rasente i miei capelli. mi giungeva di fra il clamore il nome benedetto della mia madre. mi scoppiava nel capo un rombo di morte.
A un tratto mi sentii afferrare le gambe da braccia convulse e trarre giù nella stanza e messo a giacere sul pavimento con gemiti singulti scongiuri tremiti di morte.
Nella vertigine travidi la faccia stravolta e squallida della zia Rosalba, che boccheggiava nell’anelito mescolando sopra me pianto e sudore di morte.
Travidi l’altra mia zia Maria, la divota, promessa al monastero, che in ginocchio pregava baciando il suo crocifisso d’ebano e d’argento anche da me baciato per lei tante volte in coricare e in levare.
E tutto disparve quando sentii che giungeva la mia madre, quando il mio tramortimento fu trafitto da un grido più acuto e più straziante di quello da lei gettato alla sua fede nel punto di generarmi. e come io so? certezza dell’anima ignara.
Ella sola aveva osato sollevarmi, quasi riaddentrarmi nel suo amore, ribattezzarmi nel suo pianto.
E sopraggiunse allora il mio padre, il violento, l’irrefrenabile. l’ansito del gran torace poteva più d’ogni grido. aveva la bocca tumida di rimproccio. il primo suo impeto era di percuotere. il suo amore e il suo terrore si atteggiavano al castigo.
La sua donna mi serrava al petto esausto, fisa guardandolo, fisa e muta.
Ah, perché non conosco io quello sguardo di lei fra i tanti suoi che fecero e fanno il mio vero cielo?
Eppure credo di ricordarmene, credo di averlo conosciuto.
Davanti a quello sguardo il mio padre vacillò, piombò in ginocchio, scoppiò in singhiozzi.
Ella tese la mano verso di lui a toccargli il capo. ella gli asciugò le lacrime sul volto gonfio. dopo tanto patimento tanta ingiustizia tanta offesa, ella lo riaccolse nella sua purità e nella sua misericordia. in me e per me, senza parlare, riamò colui che sapeva comporre il mio presepe, curare le mie gabbie, parlare ai suoi cani e ai suoi cavalli con il mio stesso modo che li faceva miei.
Ero stato conteso alla morte? o m’era donata una seconda vita?
Non so, non saprò mai, se non da una divinazione religiosa. era presente il Fato indomito? era presente Nostro Signore?
Non so. non si svela il mio astro: forse perché io non lo seguo.
Eravamo tre creature e una creatura sola, come nell’attimo remoto della creazione; ma in oscurità o in chiarezza consapevoli della seconda natività. il pianto del mio padre e della mia madre mi lavavano come in un novo fonte. ero il loro figlio, il figlio di tutto il sangue loro, l’apice delle due volontà che si sapevano congiunte sol per trasfondersi in me e per moltiplicarsi in me di là da una speranza ch’era già smisurata. l’una e l’altro diversi, a me diversi entrambi: e tuttavia somigliavo la lor diversità, e pienamente nella somiglianza mi compivo.
Ma chi era presente? chi vide? chi mai potrà ridire?
Presente era tuttavia la morte che il gran palpito uno e triplice non aveva respinto. era là, evocata dalla condoglianza dei famigli accorsi, dal compianto strepitoso che è nel costume della mia terra come il vócero in alcuna isola tirrena. e il popolo raccolto vociava sotto i veroni chiedendo ch’io fossi mostrato. e il crocifisso della chietina più alto rimaneva su la curva ambascia a scongiuro. e le rondini implacabili dardeggiavano un nuvolo repentino.
Ansavo, tramortivo, smarrivo l’ultima conoscenza. fui sollevato dalle braccia del mio padre lievemente, portato alla ringhiera, mostrato al popolo ebro di presagi, già smanioso di foggiare il mio mito indigeno.
Bianco fui disteso sul letto bianco tutto parve bianco di là dalla vita, anche il suono delle campane e il giubilo dei semplici sminuendo.
Alla vertigine successe il delirio. e dopo seppi che tra le parole strane ricorreva frequente, accompagnata dal vaneggiare delle dita sul lenzuolo, questa: ‘la perla… la perla…’
Non si alleviò l’impronta mortuaria, né pur si scolorò.
Non in me, né pur in mia madre sempre vigile e attentissima; che non dominava la sua perpetua inquietudine. sembrava che da quel giorno ogni mia più breve assenza le appenasse il respiro. nelle sue mani che mi toccavano si rinnovellava quel sentimento di perdizione inginocchiata e di trepido riacquisto. ogni notte d’improvviso svegliandosi veniva a piedi scalzi nella mia stanza attigua e restava china a indagare il mio sonno o accostava la guancia al mio cuore per ascoltarlo.
Quando tornavo a casa ella inventava a trattenermi un suo incantamento simile a una melodia accompagnata dalle inclinazioni del capo su l’una spalla e su l’altra. incantato imitavo io quel suo modo, e intonavo il mio parlare al suo parlare; cosicché la mia voce si faceva sempre più bella. le sue domande mi formavano: ora correggendo un de’ miei lineamenti interni, or rischiarando un incavo oscuro. come nella sera della ferita al pollice sinistro, ella segnava gli stadii del mio ascendere verso me verace. e, come in quella sera, ella indagava il fascino del rischio collegato al mio spirito non altramente che alle mie arterie il polso. ma, quando il rischio non è mortale, non è se non un fantasma femineo. non per ottener tutto ma per ottenere una qualunque più lieve cosa è necessario ogni volta dare la vita come posta del gioco, sentirsi e mostrarsi ogni volta pronto a morire per un fiore scempio come per la più alta causa. ogni bene, e pur l’ombra del bene, si compera con la moneta che nel diritto ha la volontà di vivere e nel rovescio la volontà di morire, non dissimili di figura e di rilievo ma coniate d’un sol conio di bonissimo acciaio. e ora penso che l’imagine mi falla; perché il segreto è nel togliere ogni peso alla vita e alla morte, ogni peso alle polpe e all’ossa, alla palata di terra e alla ghirlanda implicita, al cranio chiomoso e alla polvere sordida. tanto la moneta più pesa e tanto è più vile.
Confuso m’era allora quel che oggi m’è distinto. ma perché sono certo che la mia madre allora comprendeva e sapeva, vedeva e temeva? più volte io progenito di mastri marinai avevo restituito al mio mare la pesca informe in affanno; che si dileguava nell’attimo traendomi con le pinne brevi all’infinito. ogni volta il mio istinto era scisso da quel guizzo di libertà; e ogni volta agognavo il mio elemento a me non manifesto.
Che cosa avrei potuto nascondere alla veggenza della mia illuminata? ben sapeva ella com’io salissi di nascosto quasi ogni giorno alla camera grande de’ tre poggiuoli; e come non mi valesse divieto né serrame.
Ella mi propose di accompagnarla alla sua città di Ortona per passar con lei qualche settimana nell’antico palagio de’ suoi maggiori. fui lieto e grato. partimmo.
Per bevere dal suo sorriso il sorso della somma bontà, le dicevo: ‘sono Gabriele d’Annunzio? o Nuntius de Benedictis, come dice Don Giovanni di Fossacesia maestro mio?’
Taluno sa che in Ortona il giudeo Jeronimo Soncino negli anni della salute 1518 istituì una stamperia dotandola di caratteri greci ebraici arabici e latini; e ch’ei stampò fra altri testi la ‘Batracomiomachìa’. ma pochissimi sanno che il precursore cristiano Plato de Benedictis, ben sei lustri innanzi, fra gli anni 1487 e 1495, aveva inciso caratteri di suo stile e stampato con arte stupenda una serie di testi: veri incunaboli, gloriosi esemplari nelle primizie della Rinascita, recati al novero di trentatre oggi conosciuti e studiati. dall’iniziatore Plato de Benedictis non dunque discende a me per li rami l’amore di quell’arte? e non forse l’avo m’era a fianco quando per notti e giorni io vegliavo l’opera degli stampatori nell’Officina bodoniana o quando rievocavo i chiari spiriti nelle case d’Aldo romano e d’Andrea Asolano suo suocero per rimettere in onore la grazia ineguale del corsivo aldino imprimendo io stesso in Vinegia sei quaterni e un quinterno?
Ben conveniva che lo studio di un’altra arte mi fosse trasmesso per li rami dal pittore Francesco de Benedictis alunno di Guido Reni, nato nel mio dì natale 18 marzo [1607], autore dei vasti affreschi nella chiesa napoletana di Donnaregina, tra’ quali è mirabile quello dell’Assunzione. posseggo di lui un preziosissimo tondo di basso rilievo, che comprende gran numero di figure in una ordinanza; dov’ei mostra la sua scaltra arditezza nell’occupare intiero con istorie mitiche il cerchio simile a uno scudo omerico, eccellendo per la novità delle attitudini nel Giudizio di Paride e per l’audace veemenza in una Corsa di quadrighe lanciata a traverso una stretta di monti.
Lascio che la malinconia veli un’altra imagine, forse dubbia anche senza velo. ‘come a te folle di deità può disconvenire questa discendenza dal Pazzo di Cristo?’ mi dimandò in un vespero umbro il più candido de’ miei amici primi: Annibale da Todi proposto nella chiesa delle Clarisse. mi appoggiai alla sua spalla, mi sostenni in lui che tanto era men robusto di me. dalla sua pietà mi sentivo ancor più conturbato. e, non potendo non volendo parlare, gli comunicavo col peso del cuore la mia volontà di accostarmi al sepolcro, di premere l’osso della mia fronte nella pietra.
ossa b. jacoponi de benedictis
tvdertini fr. ordinis minorvm
qvi stvltvs propter christvm
nova mvndvm arte delvsit
et cœlvm rapvit.
obdormivit in domino
die xxv decembris anno mcccvi.
Legati ci lasciò l’amicizia nel condurci lungo le muraglie, in silenzio. ma un ricordo d’infanzia alfine mi schiuse le labbra. e dissi come, al tempo ch’io fui chiuso nel collegio della Cicogna, fosse trovata in una cappella della cattedrale di Prato l’effigie di Jacopone dipinta a fresco in su la fine del trecento, e nel secento coperta di bianco. riportata in tela io la vidi in una delle stanze capitolari; e la rivedo in questo vespro. ha raggi intorno al capo; e tiene con la sinistra sul petto un libro aperto ov’io rileggo questi versi:
ke farai frate japone
hor se’ givnto al paraone.
‘Gabriele,’ parlò sommesso Annibale da Todi, più stringendosi al mio braccio, nel cogliere l’un de’ versi, ‘or se’ giunto al paragone.’ mi sapeva egli infelice e in periglio, malcontento e salvatico.
Eravamo presso le vaste rovine del tempio primevo che forse fu di Gradivo.
‘Et Gradivi colam celso de colle Tudertem’ io dissi per secondare la consuetudine latina della nostra amicizia di eruditi giammai sazii di latinità. né mi tenni dal rievocare il simulacro del Mavorte tudertino, che – consule Planco – eravamo andati a cercare nella sala de’ Bronzi in Vaticano, quando i nostri studii universitarii ci consentivano di deviare spesso dalla Biblioteca per ismarrirci nel Braccio nuovo. credevo stupirlo citando con perfetta esattezza l’umbro idioma dell’iscrizione: ‘Ahal Trutidis dunum dede’. ma pronto egli soggiunse nel suo latino: ‘Ahala Trutidius donum dedit. è una offerta.’
Senza gaiezza io gli dissi: ‘fratello, rifacciamo il cammino verso il sepolcro del Pazzo. ma prima raccogli un pugno di questa polvere cieca. fammene dono. e non temere per me.’
Pronto egli nel dare mi rivolse due parole accostate dal metro del mio contiguo Ovidio: ‘Nato victori’.
Non è da spiriti lievi giocare così con i sembianti del fato e con le rispondenze del numero. soltanto all’amicizia pura è dato, in mezzo a’ lepóri e ai motteggi, in fondo ai colloquii lieti e tristi, intendere l’ineffabile senza tender l’orecchio.
Vastissima era la casa d’Ortona, di architettura massiccia, tra il monastero e il fortilizio, tutta atrii anditi vestiboli cortili adornati di logge giardinetti murati corridoi lunghi a spartitura di stanze quasi di celle. bianca era in gran parte con infisse qua e là nelle pareti le maioliche di Castelli, i piatti preziosissimi dei Grue, dei Fuina, dei Cappelletti,
D’improvviso la regola del monastero e del fortilizio era infranta senza rimedio. ma confesso che mi turbavo e intimorivo quando, nel passare davanti a una porta chiusa con nella lunetta la mano dell’apostolo di dubitanza, il mio zio indulgente faceva cenno di tacere e di andare adagio.
Chi viveva in quella clausura solenne? non m’avevan mai lasciato vedere il patriarca della casata: non avo né bisavo ma trisàvolo: zi’ Mingo, donno Mingo. alle mie dimande spaurite la mia madre non rispondeva se non col dito su la bocca imponendomi di tacere.
Molto mi careggiava l’altro parentado, specie quel degli Onofrii più affini; che possedevano i più bei piatti di Francescantonio Grue e rivendicavano col titolo il feudo di Paganica per le opere d’arte conservate nella villa ducale, specie per lo stupendo marmo greco dissepolto dalle rovine del tempio di Eracle: forse statua della naiade nomata Vera.
‘Vera!’ sospirava la badessa Onufria ponendomi la santa mano sul capo scapigliato. ‘unica è Vera la Vergine Madre del Figliuol di Dio e di tutti i miseri mortali. e l’annunziò l’angelo del tuo nome, ché di nome pien d’annunzio sei tu nomato, o figliuol mio.’
Nel suo parlatorio mi sentivo mansuefatto. e non ero mai sazio di certa pasta monacale bianca e lieve come l’ostia, chiamata ‘vipere’ in Ortona, forse perché lunga e serpentina. né mi saziavo de’ suoi ragionari sinuosi come il garbo delle sue labbra, che nel penetrarmi addentro imprimevano alle persuasioni le forme dei sogni. credo che i miei occhi nel socchiudersi e nel dilatarsi le testimoniassero un comprendimento superiore all’età mia, perché le piacque indugiarsi ne’ Misteri adorabili, dal giorno ch’ella mi donò una corona di ametiste e mi vide sobbalzare a un tratto nel punto di ammaestrarmi: ‘gli ultimi cinque misteri del santo Rosario son detti Gloriosi.’ ansavo di cosa arcana in cosa arcana, perdendo il soffio e recuperandolo, ora vacuo or traboccante.
Dal parlatorio comune ella mi ammise nell’intimo della vita monastica: in privilegio di nepote. mi accoglieva talvolta nel segreto della cella quando s’adoperava a sapere le cose occulte e le venture con le sue arti divinatorie, se bene la divinazione sia stata sempre condannata dalla Chiesa. non dava alle diverse specie i nomi che ora io so, a volta a volta investigando l’acqua di fonte la cenere di forno la farina di biada le interiora del cefalo i cangianti della triglia le foglie della salvia il fumo del belgiuino. guardavo attonito e pavido il suo volto mutarsi come per un succedersi di maschere pitiche fra banda e soggólo. mi prese le mani, me le voltò; e si mise ad esaminare i segni nell’una e nell’altra palma, mentre su le sue labbra vedevo disegnarsi parole non proferite. aguzzava ed eludeva la mia smania di sapere. accostandole per il lungo insieme a giumella, non restava di leggerle. prendendo di su l’inginocchiatoio un suo dittico d’avorio, disse: ‘vedi? non sono elle come queste due tavolette? non sono come due pagine che si chiudano insieme? nell’una si compendia a miracolo il Vecchio, nell’altra il Nuovo Testamento.’ iteravo io le dimande quasi in angoscia. ‘vedi? come io leggo in questo dittico d’avorio i decreti sacri, così leggo in questo di ossi le linee della tua vita.’ a me incerto e smarrito, che della mia dubitanza mi appellavo al patrocinio di san Tommé, Onufria oppose: ‘non dubitante ma ignorante sei. l’ignoranza nega il mistero perché non sa discernere i gradi del lume. tu sei mistero a te stesso, o figlio. qui, in questo tuo dittico vivente, son rivelati con brevi segni i segreti del tuo cuore e in bene e in male.’
M’apparì bellissima qual m’era apparsa nell’imaginazione la Vera degli Onofrii, la naiade inaridita. plena deo veramente, ora sedeva nella predella dell’inginocchiatoio levigata dall’assiduità della preghiera. et ella non si addiede che il gesto della mia mano sciogliendosi era mosso dalla sùbita follia di toglierle le bende e di nudarle il volto, e di scapigliarla; perché una ciocca di capelli fulvi le sfuggiva dalla tempia soggolata.
‘Ridammi anche quella palma’ disse. ‘che ora tu sii tanto pallido è cosa buona; ma forse impallidirai anche più, Gabriele. che in questo dittico vivente si palesi il mistero di nostra vita e di nostra salute, o figlio, una prova grande incontrastabile, che si potrebbe chiamar palmare, l’attesta com’è vero Iddio. questi segni sono cancellati dalla morte. spariscono nel punto del trapasso. non son più da leggere, non più da interpretare, pochi attimi dopo l’ultimo spiro.’
Mi pareva che ultimo fosse il mio. non respiravo più. l’ambascia mi serrava la gola. disperatamente gridai: ‘anche dalle palme dei Santi?’
Onufria non rispose. levò le braccia come due vanni per nascondervi il viso illuminato. la campana maggiore di San Tommé sonava a rintocchi. lo scilocco fischiava nelle sartie del porto di Arrigo e di Federigo. insorgevano nell’angustia di quelle quattro mura. ‘voglio uscire, voglio uscire di qui! voglio andare, andare alla ventura. aprimi.’ chiamavo a gran voce la conversa che soleva accompagnarmi. ‘Flavia! Flavia!’ la badessa Onufria rimaneva nascosta dalle sue ali su l’inginocchiatoio, bellissima: umano mistero, mistero divino? aura di santità, aura di perdimento? io avevo nove anni, e già mille anime, già mille forme. ‘Flavia!’
La conversa aprì. stette perplessa. io la urtai, la sospinsi. ritrovai l’adito. sbigottii la portinaia. freneticamente bevvi la bufera. scorsi il mare, il sartiame, l’alberatura, la lanterna. le più diverse imagini si avvicendavano con una rapidità fulminea nella mia demenza. la salsedine m’enfiava le nari. il mio dèmone nautico, quel della mia schiatta e della mia sorte, m’impugnava per piantarmi su lo sperone di prua. le raffiche mi risoffiavano in gola le vecchie canzoni del tempo degli Ungheri, delle bande di Fra Moriale, dei pirati saraceni: quelle che mi facevo cantare dai pescatori di paranze, dai manovrieri di golette e di brigantini: quelle del tempo di Corrado Lupo, di Marco Sciarra, di Pialì bassà.
Allarme, allarme, la campane sóne.
Li turche so’ sbarcate a la marine…
Con un anelito che sembrava nitrito scopersi la massa bianca della casa materna: monastero e fortilizio: mentre la conversa si affannava a raggiungermi, calando già la sera laggiù su la punta della Penna, sul castello del Vasto, su la foce del Sangro.
Mi fermai davanti alla porta mastra che avea socchiusi i battenti massicci di quercia chiodata. una torcia fiammeggiava struggendosi nel braccio di ferro: segno insolito. che era accaduto?
Mi raggiunse ansante e sudante la conversa, livida e supplichevole. mi trattenne la mano che spingeva un de’ battenti, singhiozzando, balbettando. ma che era accaduto? chi poteva tenermi lontano? perché?
‘Donno Mingo’ ella ripeteva in confuso, con gesti convulsi, ‘Mingo…’
Allora compresi che il gran vegliardo era trapassato.
Risolutamente varcai la soglia, riafferrando con la branca la donna di Onufria, quando ella accennava ad allontanarsi. volevo impedirle di precedermi, di avvertire, di mentire. sentivo in me una padronanza smisurata. traversando gli atrii gli anditi i vestiboli i cortili, sentivo il grande spazio bianco ampliarmi il torace, annobilire tutte le mie fibre e tutti i miei pensieri, farmi degno di reggere il peso di quella mia volontà spiritale. ma chi era presente? se tuttavia presente era la morte di quell’ora inginocchiata e lacrimante, anche la mia madre era là senza udire senza vedere senza parlare. ma chi mi conduceva?
Quasi trascinando la donna di Onufria, giunsi a quella porta che m’avea veduto tante volte camminare ammutolito. spinsi e curvai Flavia a piè del letto funebre. rimasi sospeso in non so quale delle sfere create ne’ secoli dai fondatori di religioni. non avevo luce in me e non avevo tenebra; e non comandamento se non quel di me stesso. né che in vero fosse di me io era sicuro; ma gli obbedivo.
In tanta terribilità di ricordi evidentissima, il solo dubbio è nella luce. non so, non potrò mai dire se nella stanza ardesse una lampada, ardessero ceri. né potrò significare in che modo io mi accostassi al letto. ero più spoglio di conoscenza che quando Onufria leggeva nel mio dittico d’ossa.
Il cadavere del vegliardo immemorabile giaceva supino, dalla consunzione ridotto alla levità d’un fastello di rami d’ulivo benedetti nella sua chiesa gentilizia di Palena sotto lo sguardo della beata Florisenda. il volto niveo simigliava in trasparenza la coltre di bucherame cipriano che lo copriva dalla cintola in giù, senza origine anch’ella. con quel moto d’inspirazione che è nelle piante oscure, quasi inesprimibile assorbere, le mani attrassero i miei cigli senza battito e per entro a’ miei cigli tutto me. udii allora il nome di Onufria chiamato dalla mia voce ch’io non riconobbi. ‘tu sei mistero a te stesso, o figlio.’
Congiunte erano le mani e intessute al limite del petto con un groppo cieco poco distante da quell’altro nodo che la vita serra sul primo gemito.
‘Onufria!’ e il nome mi si spegneva nell’angoscia. e divinavo una forma prostrata a’ miei piedi: forse la donna della divinatrice, o la morte presente.
Osai porre la mia mano sul groppo, con il rigido sforzo di chi la stende sul fuoco a prova dell’animo. ne ricevetti il gelo insino ai precordii.
Con un novo sforzo osai costringere l’animo a sciogliere il nodo, a disgiungere le dita esangui, ad appianare le palme esanimi, per sapere per sapere per sapere: per accertarmi che i segni erano scomparsi. più resisteva quel gelo astretto; mentre le mie palme bruciavano come marchiate di non so che contrassegno con un ferro rovente.
‘Onufria!’ venni meno. mi piegai sul margine. piombai nel fondo.
Non seppi più nulla.
Son tentato di chiamare studii della morte questi eventi della mia fanciullezza, che come tanti altri miei studii inconsueti confluirono a quell’abbondanza cui dovetti il mio diritto legittimo di assumere l’impresa della Cornucopia e di moltiplicarla.
Non orrore non terrore non algore mi lasciaron nello spirito questi incontri e accostamenti ma quasi una dimestichezza pudica una familiarità pacifica una sicura confidenza.
Avevo nove anni. a quindici m’avvenne di voler morire.
A Bologna, in un vespro d’ottobre, col mio padre entrai nella chiesa di Santa Maria della Vita, ch’era tutta parata di damasco rosso, per la musica sacra. ei sedette sur una panca, e io mi diedi a vagare sotto le due cupole. tutti i ceri non erano accesi, e l’ombra mi agitava e mi spaventava. di sotto all’organo scorsi una scala cupa che discendeva a un cancello chiuso verso la via. superai lo spavento e discesi, pensando che laggiù in una nicchia fonda potesse trovarsi la grande Deposizione di terracotta che la mia zia Maria chietina m’avea mostrata in una buona stampa.
C’era.
Intravidi, nell’ombra d’una specie di grotta, non so che agitazione impetuosa di dolore. piuttosto che intravedere, mi sembrò esser percosso da un vento di spasimo, da un nembo di sciagura, da uno schianto di passione ferale.
Ecco che mi si rivelava la presenza del Cristo, come già la presenza della morte.
Era di carne e d’ossa il cruciato? o era di terra e di fornace? non sapevo di che sostanza fosse.
Stava supino, rigido, coi piedi eretti, incrostati di grumi risecchi; che dovean essere le grossezze del mastice messo lì a restaurare la rottura, nerigni, trafitti dal chiodo che aveva lasciato non il foro ma uno squarcio aspro. distese teneva le braccia, conserte nell’anguinaia le mani. annerata era la faccia ma la barba era ingrommata di non so che bianchiccio.
Dementate dal dolore le Marie, una presso il capezzale tendeva la mano aperta come per non vedere il volto amato; e il grido e il singulto le contraevano la bocca, le corrugavano la fronte il mento il collo.
Quella era la vita, quella era la morte, un orrore unico entrambe. il mio padre mi riconduceva alla prigione, veniva egli medesimo a rinchiudermi, perché dalla mia dottrina fosse chiarita la mia miseria, perché il cruciato mi promettesse alla sua simiglianza. ero di terra ancóra formabile, a quindici anni, al limitare dell’adolescenza; e già mi rappresentavo a me come terra cruenta, come formato grumo.
‘No, non voglio. no, non voglio’ diniegava entro me la mia paura. e sùbito la mia madre diveniva presente, come nell’ora del nido, come nell’ora della rondine: presente con uno de’ suoi gran gesti suscitati dalla discordia dall’ingiustizia dalla difesa dalla maledizione.
‘Dov’è il mio padre? dov’è ora il mio padre? bisogna ch’io mi rifugi nel buio, in un buio più rimoto.’
Quella non era alcuna delle Marie. giungeva di lungi, dopo un’ora o un millennio d’ambascia, in atto di precipitarsi come sopra un bene agognato. il suo amore e il suo dolore sembravano smaniosi di possedere, di balzare oltre ogni estremo, di ridurla unica nell’unico. le bende svolazzanti le facevano alata la testa; i lembi del manto impigliati ai cubiti le sbattevano indietro come vanni. la bocca era dilatata dall’ululo, rappresi erano gli occhi dal pianto, distorte le dita.
‘Trafugami! difendimi! o riprendimi nel tuo grembo.’
Ella non poteva. la mia disperata certezza s’agguagliava alla immobilità della tragedia cristiana. al mio grido strozzato non poteva rispondere la voce di salute.
Mi addentrai nello strazio.
La visione sublime e truce era a contatto del vicolo lurido, a contatto dell’ignominia plebea.
Di fronte, nel vicolo, s’apriva una beccheria rossa.
Il beccaio, quando aveva in bottega carne infetta da vendere e voleva frodare i gabellieri, la nascondeva a’ piedi del Deposto, gettava nella nicchia della Pietà i quarti di bove graveolenti, le viscere putride. e là, per la porta socchiusa di legno verdastro come la cancrena secca, accorrevano tutti i gatti del vicinato e imperversavano, sotto la lampana fioca dalla moccolaia, dalla moccolaia che putiva nel fetore; strisciavano lungo i muri umidicci, su per la scala grassa; si arroncigliavano urlando contro l’urlo impietrato.
Se mi rimaneva un guizzo d’animo, bramavo che mi si spegnesse come la lampana senza più olio.
Non volli più vedere, non più sostenni e la vista e la pena. la carne rossa, la carne da macello e da frodo, era là contro la terracotta grigia per la tanta polvere che vi si accumulava e vi s’incrostava in secoli d’incuria.
Vacillando e ansimando cercai un precipizio scuro come una fossa vuota per gettarmi giù. dementato io era come quel gruppo di passione convulso. caddi, mi rialzai. sanguinai dai ginocchi, dalla fronte, dai denti. nella fossa campanaria penzolavano le funi, i péneri delle corde unte e consunte: funi del cielo? morii. morii senza morire.
Il tuono dell’organo rintronò sul mio capo, improvviso come lo scoppio del temporale; e l’atrio ne tremò come se il nembo del dolore si rinforzasse a scrollarlo.
Risalii la scala; rientrai nella chiesa; cercai mio padre che si sbigottì rivedendomi così pallido e anelante. ‘che hai fatto? che hai fatto? Gabriele, Gabriele mio, dove sei stato? fai sangue.’ m’asciugava la fronte, mi premeva le gengive.
Gli baciai le mani, gli bagnai di lacrime le mani. ‘non mi parlare. lasciami serrato a te. sono vivo. sono il tuo figlio, il tuo, il tuo. ancóra mi rifai, come quella volta. tienimi qui con te. non ti spaventare che tanto forte mi batta il cuore.’
Il battito veemente del mio cuore m’assordava così che non distinsi le prime note del mottetto. mi serravo le costole, mi premevo il petto, per costringere il battito a rallentarsi. mi parve che l’ansia mi fosse come attratta dai mantici dell’organo e s’involasse con l’aria mandata nelle canne. il mio respiro passava nella tempera de’ suoni. le mie ossa mi parevano vuote di midolla e fatte cave per esser più sonore, per meglio vibrare, per meglio obbedire al gioco dei registri e delle pedaliere.
Tanto mi serravo al mio padre, ch’egli di tratto in tratto per placarmi accarezzava le mie tempie, insinuava le dita nel folto de’ miei riccioli. ‘non ti dar pena. padre, padre mio. sii benedetto, sii benedetto. e benedetta quella che è lontana, laggiù, nella nostra casa. lasciami stanotte con te, lasciami ridormire accanto a te. non mi condurre alla prigione. fino a domani!’
Riudivo la mia voce in me come la melodia de’ miei colloquii con quella. ero divenuto uno strumento nelle mani del musico invisibile. ero come se il Palestrina inventasse per la prima volta attraverso di me il suo mottetto sublime ‘Peccantem me quotidie’. era come se il Palestrina prendesse in me la mia angoscia mortale e purificasse il soffio tempestante dall’opera di Nicolò dell’Arca, e ne facesse la sua armonia tragica, ne facesse la sua lamentazione virile. Peccantem me quotidie.
‘O padre, mio padre, tu non sai. ma saprai.’
In quel punto io nacqui alla musica, ebbi la mia natività nella musica infinita, ebbi nella musica la mia natività e la mia sorte.
In una comunione di pianto s’era iniziata la mia vita seconda. un’altra incominciava, per la discorde concordia delle medesime virtù, più viva e più vera della mia seconda e della mia prima.
Spesso nell’aula toscana, nello studio latino, avevo cercato di rappresentare alla mia imaginazione gli aspetti delle Parche, i loro volti, le arie le vesti le pieghe. nigrae sorores? erano a me bianche, e di quella specie di bellezza a me più affine e più cara. mi rimembra. al mio sensibile pedagogo io dissi che il Pensieroso aveva il viso di una delle Parche: il viso stigio: ah non immite non invido non empio; e che la torcitrice aveva il viso dell’Aurora; e non il viso della Notte avea l’altra.
Ben essa, immortalmente giovine e myrionyma, parvemi presiedere alla mia terza favola. dedotto e attorto dalle dita della Musica mi parve il mio stame, dopo quell’ora.
In quell’ora, in quella chiesa parata di porpora, in quel senso mistico che fluttua tra l’estremo della carne e il limitare dell’anima, veracemente sentii dedurre e condurre il mio filo di porpora dalle dita della Musica, e non per diletto e non per blandizia e non per oblio, sì per elezione di dolore e per vocazione di martirio.
Nel risalire la scala tetra dopo lo squasso inatteso che a me demente aveva provato la resistenza della mia radice inespugnabile, la durezza della mia stirpe ribelle alla mia volontà di stroncarla e annientarla, io mi sentivo come snaturato. non lo spirito della dimanda m’era stranio ma fin il modo vocale del dimandare, l’accento umano di chi interroga e implora, di chi aspetta e paventa.
Le imaginazioni prendevano sostanza e forma; così che la mia ossatura assisa era al confronto men salda, e più e più vaniva nella musica. nella stanza di quel mio consanguineo che dopo altri quindici anni in un mio folto libro dovea rivivere sotto il nome di Demetrio Aurispa, spetrato ora vibrava su le mie ginocchia, contro il mio petto. toccavo i tasti per interpretarmi. l’organo massimo si trasfondeva tutto nelle mie canne, e più grandeggiava.
Perché la mia infelicità di creatura incompiuta;
perché l’irreligioso travaglio delle mie divinazioni e ricordazioni indivise;
perché il ratto verso la salvezza eterna preceduto da una specie di stupore e di sopore sensuali;
perché quella vicenda istantanea di perdimento e di rinascimento, quella fede istintiva nel dolore che ci crea di sopra a noi medesimi e di là da noi medesimi e sempre più oltre;
perché infine tutte quelle apparenze indistinte non ancor disgiunte dai gagliardi rilievi dell’arte magna,
perché mi furono così compiutamente rivelate e significate in quel mottetto del Palestrina, che è lo scorcio di una tragedia riescito con una semplicità ancor più potente di quella del plasticatore ossesso?
Non so, né saprò. sapere non mi giova, non mi vale. non dimandai: non a me, non alla mia origine.
Baciai più volte le mani del mio padre. solo gli ripeteva il mio amore ereditato: ‘tienimi accanto. sii benedetto.’
Egli pronunziò il mio nome, soltanto il mio nome, nel suo modo ch’era diverso da quel della sua donna paziente e invitta: ‘Gabriele.’
Da lui mi discendeva il nome ‘pien d’annunzio’.
Più tardi fra i rimedii d’amore misurati dal poeta latino mio conterraneo m’avvenne di ricorrere cinque volte al farmaco letale, al sonno senza sogni. l’ombra e l’esempio di Demetrio m’eran divenuti omai familiari.
Il vesani pectoris ardor, quello che sorpassa le più ignee figure del mito e della poesia, mi fu noto. Le superstizioni della mia gente sabella accendevano la credenza negli ippomani della maga tessalica o colchica. compresi che a stupefare e intormentire gli attossicati furibondi fossero in uso i vasti fragori, gli strepiti del Tiaso, gli ululi delle Bassaridi, le più truci discordanze tebane.
In una canicola maligna io ero stato costretto dagli eventi a ritrarmi in terra d’Abruzzi, a rifugiarmi nella casa ospitale di un amico che solo in tutti i miei anni potei chiamare altamente mei dimidium animi. che mi ricambiava l’affetto, quando gli portai un de’ primi esemplari egli mi pregò di lasciargli il tempo di leggere per darmi il suo schietto giudizio. tornai dopo alcuni giorni. egli aperse il volume, parve rischiararlo del suo vasto sorriso, fiutò le pagine, e disse: ‘odora di sperma.’ aveva divinato la causa della mia inquietudine erotica: la troppo lunga castità osservata in un paese che nel cerchio di trenta o quaranta miglia non offeriva se non infette bagasce o spossate genitrici di almen venti figliuoli. giudicò il libro con severo acume. in fine mi consigliò, con gaia ironia, che nel comporre la mia seconda prosa di romanzi io non pregiassi men del calamaio una piccola amica taciturna stupida e fresca. veramente egli disse nel suo italiano giocoso: una vaccarella.
Ora nel Convento di Francesco Michetti pittore e pittagorico io mi proponevo appunto di comporre la mia seconda prosa. ero impaziente di scrivere. scrivere era già per me una necessità vitale, un officio essenziale del mio spirito. con fierezza giovenile mostravo nella prima falange del dito medio il callo della penna. ma, nell’eccesso del patire, mi avvenne d’insanguinarmi le nocche battendole contro la parete della mia cella; m’avvenne di urtare la fronte al muro e di cadere giù stordito, non senza pericolo di restarvi. la violenza fisica interrompeva la demenza, come il fragore barbarico parea spegnere lascivi faces pectoris.
Sul primo de’ fogli vergini commisurati alla mole del novo libro scrissi tre lettere funerarie: una a mia madre, l’altra a Barbara Leoni, la terza a Francesco Michetti: risoluto di uccidermi.
Il mio ospite era lungi dal sospettare la causa del mio tormento. egli l’attribuiva all’agitazione dell’artista sotto la condanna di superar sé stesso, ben sapendo qual carnefice duro sia l’attesa. e quella sera di luglio, venuto su dalla sua casa di tufo edificata su la spiaggia al frangente del flutto, mise le sue coraggiose mani fraterne sul cumulo de’ fogli. dolce e rude mi fece: ‘Gabriele, Gabriele, bisogna incominciare. bisogna. quando incominci?’
Io risposi netto: ‘domani.’
Soggiunse: ‘bene. domani è Sant’Anna.’
Nel punto del commiato, io gli feci: ‘lascia ch’io t’accompagni.’
Scendemmo nell’orto odoroso di aranci, fiorito di oleandri. ci mettemmo giù pel sentiere di lauri a mezzo del colle. poco mancava al plenilunio. gli ulivi dell’alto variavano al vento freschetto che saliva dal mare.
Mi trattenne pel braccio il mio amico facendomi il segno del silenzio. cantava l’usignolo maestro. me ne ricordo: era l’usignolo che poi cantò in una pagina dell’‘Innocente’.
Ascoltavamo, non con due anime ma con le due metà di un’anima sola. era l’ultima ora della nostra armonia. il cuore mi si gonfiò di tanta pietà che non potei più contenere il pianto. i miei singhiozzi pesarono sul petto del mio fratello caro.
Allora egli fu percosso da un sinistro baleno. ‘che hai?’ mi sollevò il mento, mi guardò in faccia. ‘Gabriele, che hai? dimmi la verità. parla.’
La mia bocca m’era sigillata.
‘Gabriele mio, non ti lascio. ora io ti riaccompagno. torniamo al Convento.’
Rientrammo nella cella penosa. mi fece sedere nella sedia di abeto rozza, simile a quelle che nella settimana di Passione il sacrestano tiene incatenate per darle a prezzo nella contesa della bacchettoneria. era la mia sedia di fatica.
Egli sedette su la mia branda. e non restava di fissarmi con que’ suoi splendidi occhi di corsiere arabo.
‘Ancóra la femmina? non l’opera’ disse col suo dispregio di misogino. ‘voglio sapere. parla. o mi costringi a rimaner qui senza termine. mi conosci. ti conosco. hai venticinque anni. so quel che porti dietro quella tua fronte contusa. cozzi col muro? so quel che scriveranno quelle tue dita spellate. fai le pugna col muro? io ti difenderò con tutte le armi, fratello.’
Nessuna voce d’uomo da me udita, nel contenere la pena profonda, ebbe mai quella calda potenza non di alito ma di animo. sol pari a quella sua voce era quel suo sacramento di sicurtà.
I vetri erano aperti. toccava il colmo la bellezza della notte. il respiro del mare disegnava la curva del colle quasi labbro cheto. e io pensavo come nulla valesse nell’infinito quella pura elevazione umana in quell’ignudo asilo.
‘Non mi guardar più con quegli occhi. miserabile sono. mi vergogno come d’un male perverso. ma non posso più nasconderti nulla. non ti nascondo più nulla.’
‘Ti puoi fidar di me, come di te ora mi fido, Gabriele. parla.’
Mi confessai. dissi tutto: l’incontro improvviso di Barbarella nella via romana, la sua bellezza patetica e sensuale, il suo morbo contratto nelle nozze, la turpitudine del marito, l’audacia di costui nell’estorcere e nel frodare, gli impedimenti iniqui alla separazione legittima; e tutta la mia passione non medicabile, l’impossibilità di rinunziare a lei, l’impossibilità di seguire ogni consiglio ragionevole, la necessità di averla meco senza indugi, di là da tutti i divieti, o di morire.
‘Intendi? tu stesso non puoi impedirmi di sottrarmi al supplizio. questo è l’amore. il non poter vivere senza una creatura, la sola: e non distinguo l’anima dalla carne, anzi dichiaro la carne, anzi la pongo sopra tutto: questo è l’amore, soltanto questo.’
Il mio fratello era muto e fiso. considerava, deliberava. gli s’empiva d’ombra nella fronte la grande ruga verticale: il solco di Leonardo.
Non persuasioni, non ammonizioni, non predicazioni.
Disse risoluto: ‘comprendo. avrai la tua donna. tu mi giuri che da questa notte rimarrai qui ad aspettare il mio ritorno, senza smanie, senza affanni, senza meschinità. io parto domattina per Roma, con quel che stimo utile al compimento e che ora ti suggerisco e ti chiedo. nel più breve tempo ti condurrò la tua donna, te la darò libera nelle mani. di quel che sia per seguire non mi curo né temo. ti parla il tuo pari. hai udito? guardami dritto negli occhi. rispondimi che accetti e che mi giuri.’
‘Ti guardo. accetto. ti giuro. rimango ad aspettarti, in fede immobile. troppo m’inalzi nel dirti mio pari. tuo pari io non sono; ma vorrò essere, ma sarò.’
‘Giurami allora su questo mucchio di fogli intatti dove la tua opera vive come la statua nel masso informe di Michelangelo.’
‘Ti giuro. ma in un de’ primi fogli avevo scritto per te le parole del commiato estremo. ecco. non leggere ora. in disparte leggerai. abbracciamoci.’
‘Sacramento di sicurtà.’
‘Sacramento di fedeltà.’
E le promesse furono adempiute. l’ospite ammirabile mi cercò e trovò l’eremo rustico sul promontorio adriatico.
Così Barbara Leoni
Dura nel contado laggiù la leggenda degli amanti che s’eran precipitati a picco dal promontorio su la scogliera nerastra, come testimonii amici affermano.
Incredulo io volli udirla dalla fede chietina d’un figliuolo o d’un nipote o di non so qual parente del vecchio Cola di Cinzio.
Non l’occhio aguzzo di Cola aveva il superstite dell’eremo. raccontava la storia a modo suo, con l’accento d’un favolatore d’inverno che non avesse dinanzi a sé gli ulivi contorti ma gli alari di ferro martellato.
‘Ella supplicava, folle di terrore, divincolandosi. sperava di trattenerlo, d’impietosirlo.
– Un minuto! ascolta! ti amo. perdonami. perdonami.
Ella balbettava parole incoerenti, disperata, sentendosi vincere, perdendo terreno, vedendo la morte.
– Assassino! – urlò allora furibonda.
E si difese con le unghie, con i morsi, come una fiera.
– Assassino! – urlò sentendosi afferrare per i capelli, stramazzando al suolo su l’orlo dell’abisso, perduta.
Il cane latrava contro il viluppo.
Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell’ora nel profondo dell’anima un odio supremo.
E precipitarono nella morte avvinti.’
Tromma larì lirà llarì llallèra
tromma larì lirà, vvivà ll’amore!
‘Cominciò a versare tante lacrime, che mirabile cosa furono a riguardare’ lessi in un novellatore toscano che a quando a quando palpita fuor delle clausole. e mi piacquero le ultime cinque parole.
Piangere non sanno tutte le creature che sanno patire.
Mirabile cosa a riguardare è il suo pianto; ma dato a ben pochi è il dono di riguardare. anche nello strazio più fiero, il suo pianto non ha alcun suono; e non ha quasi apparenza. come può la lacrima sgorgare senza partirsi dall’intimo?
Talvolta nel riguardare pensavo a certe piante caduche di terra lontana che sole danno l’imagine visibile della perpetuità. l’unico fiore culmina dopo mezzo secolo di cupa verdezza e di tardo travaglio, come la meditazione aduna i pensieri e li cerne e li monda finché possa renderne palese quel solo che per essere eccelso è tanto lieve. così nell’incognito suolo vegeta una pianta fruttifera di favoloso aspetto che non genera i suoi frutti ma li serba entro una specie di custodia simile a un vasto guscio comune – secondo il mito di Erodoto? o di Marco Polo? – e in un tempo di rituale misura lascia apparire al suo apice una essenza di virtù celebrata in un poema indo.
Quando la prima lacrima stilla da’ suoi occhi ed esita ne’ lunghi cigli, non fa ella alcun gesto per asciugarla. leva la mano verso la tempia: con le sue dita spande su la tempia leggermente l’acqua del cuore, come per lei – certo per lei – la disse il mistico dell’evo di Dante prima dell’esilio.
Con quel gesto ella mi vela in quest’ora la sua imagine. son tentato di morire perché pianga; e perché sappia quanto io l’abbia amata e l’ami.
Avevo composto nel mio scrittoio ricco degli scanni, dei leggii, degli armarii di Santa Maria Novella, sopra la lunga tavola perugina – stupendo esempio del robur invictum – che rimpiango di contro alla iniquità de’ miei usurieri emuli di Giovanni Buiamonte, composto avevo il primo de’ miei Romanzi del Melagrano. non mai con tanto sana e pura mente avevo trattato la prosa come in quel libro che contiene le pagine della Brenta, le pagine dei Vetrai, quelle dei levrieri nel giardino Gradenigo. per alcune settimane la mia compagna dalle belle mani visse accanto al mio lavoro; seduta sur uno scanno di cantoria lesse a una a una le pagine ancor calde; spesso non si ardiva di entrare divinando dallo stridere della penna il tormento dell’artiere, ma la sua passione rimaneva in piedi dietro l’uscio a origliare: quasi a sentir la sua più alta bellezza trasfigurarsi in una spiritale sostanza, più fulgida del vetro spirato dall’entusiasmo di Dardi Seguso.
Come dunque la rettile bassezza di poche femmine inghilesi todesche e francesche poté più tardi prevalere con l’insinuarle ombre di vilipendio?
Soggiornando a Oxford in un ritiro domenicano, ella mi mandò con una bontà rassegnata e accorata una lettera di addio.
Quanto quanto l’amassi ignoravo io medesimo in fondo. perdere Perdita mi sembrò d’improvviso una sciagura senza rimedio. anche una volta mi abbandonò la volontà di vivere, in mezzo ai più temerarii disegni, ai più rischiosi piaceri.
Ero a Roma co’ miei cavalli per la stagione delle cacce nell’Agro. abitavo in prossimità della piazza di Spagna. seguivo nella mia mente una di quelle rinnovazioni che si van determinando appunto ne’ mesi di scioperaggine e di svario. fin da’ primi studii nessun giorno di sgobbo mi fu mai fertile come una settimana di ozio. per ciò potevo abbandonarmi alla ventura, nel rapido infittire de’ germogli.
‘Il mondo parve diminuito di valore’ era scritto nel libro che commemora la morte di Riccardo Wagner. si rivelava nel trattar tutte le cose delicate e deliziose del mondo.
Qual grazia – pensavo – saprebbe ora toccare i primi fiori di mandorlo in punto di sfogliarsi su l’acqua della Barcaccia, sotto la colonna dell’Immacolata, pe’ gradini della Trinità?
Risposi. confidai il mio destino alle regie poste. affrettai il mio messaggio mortuario verso la contea nemica dove la monaca Rosmunda Clifford peccò nelle braccia del Plantageneto e dove ora le papere anglicane abiuranti starnazzavano contro il falso arcangelo nelle chiare fresche acque della Isis o della Cherwell.
Volevo finire. deliberato ero di insorgere contro i soprusi della sorte vile. e pur non m’eran distanti le primavere melodiose d’Isaotta Blanzesmano, di Donna Francesca, di Donna Clara, di Eliana, di Oriana. mi pareva che pur ieri indulgessi alla fluida vena e alla rima sonante, alla romanza e al rondò.
Dolcemente muor febbraio
in un biondo suo colore.
Tutta al sol come un rosaio
la gran piazza aulisce in fiore…
L’obelisco pur fiorito
pare, quale un roseo stelo;
in sue vene di granito
ei gioisce in mezzo al cielo…
Domani, o fra tre giorni, sarò nel solito abeto – pensavo – ma intanto monto in sella per la caccia e vado al convegno di Centocelle. lancerò Ellinor contro la più grossa maceria e contro la più alta filagna. più tardi andrò da Sevilla giudeo musulmano a vedere i tappeti che gli arrivano di Bockara, e mangerò una scatola di lucumi con Orietta. fra i trattati ascetici di scandalo, che drizzavano i peli nella calvizie del mio editore, v’era un Trattato della Infedeltà. bisogna spezzare la maschera della fedeltà come quella della verginità. eccitato fu in Oxford un focolare di gelosia con un mantice domenicano?
Una sorta di acredine beffarda sprizzava dalla disperazione inutile, fendeva la distanza ostile. innumerevoli sono le parole che non rispondono ad alcun sentimento reale, ad alcuna figura ideale. ma non v’è menzogna sillabica più confusa e più diffusa di questa: la fedeltà. ha il suono scenico delle false catene. chi mostra di trascinarle ben sa come sien più lubriche di quelle pastoie che illasciviscono certe danze malesi. tralascio i gruppi canoviani della Storia scolastica. alludo agli amanti fedeli: genìa inesistente. non v’è coppia fedele per amore. io sono infedele per amore, anzi per arte d’amore quando amo a morte.
Nell’anno più fervido di dedizione e di opera, nel paese degli scarpelli e delle schegge che primo il suo mal di lontananza chiamò Settignano di Desiderio, la donna nomade consumava il suo respiro nell’imminenza delle dipartite. ella era intesa a più vivere e più sentire in ogni ora. non sapevamo se nel più vivere e più sentire culminasse la mia dottrina o la sua ansietà. io vivevo nel suo sguardo come la pirausta nella fornace. ogni mio atto parea sorpreso come in un getto istantaneo. diminuito di valore non era il mondo, in assenza di lei, ma il mio grado di umanità. credeva ella essere incantata, e m’incantava. tanto il suo sentimento era fresco che non di rado la sua attenzione assumeva gli aspetti dell’infanzia attenta, adorabili. i miei modi di mordere un frutto, di ber l’acqua da un bicchiere simile a un ghiacciuolo trasparente, d’inginocchiarmi a cercare nell’erba la violetta scempia o il trifoglio di quattro foglie; i miei modi di mettere da parte la pagina scritta col timore che l’ultima riga umida d’inchiostro mi tingesse di sangue, la pausa palpitante, la scelta della seguente pagina bianca da annerire; la mia cura meticolosa nell’attizzare le legna del camino al brivido dell’alba, nello strofinare il noce scolpito per ravvivar pulimento e lustro in ogni rilievo, nel cercarmi furtivo la tasca de’ calzoni utile alla medaglia o alla placchetta di bronzo per arricchirne del mio calore appassionato la patina che già saporitissima mi sentivo in bocca; la mia emozione nel dissellare il cavallo, dopo quattr’ore di cammino severo, per tema della fiaccatura; e la mia tenerezza nell’accostare la mia gota al suo collo mobile di baleni nervosi; e la mia delicatezza nell’ottenere che almen da me tollerasse la brusca sotto il ventre smilzo: tutte queste cose parevano incantarla mentr’ella m’incantava.
Per vedermi nell’atto di esaminare le cigne e gli staffili prima di montare in sella, Perdita s’indugiava su la scaletta coperta di edera. le saliva di là della cintola il folto dell’edera scuro, quasi le si abbarbicasse addosso legandola al ferro della ringhiera.
‘Dove vai?’
‘Sempre alla ventura.’
‘Ma da che parte?’
‘Non dimandare.’
Era la risposta di Silvia alla Sirenetta nel drama ov’ella già era apparita sublime con le mani monche e una ciocca imbiancata.
Per la via vecchia fiesolana andavo ai Robbia di Sant’Ansano? scendevo al cancello d’una villa chiusa in bossoli esatti dove m’attendevano le due sorelle sonatrici di virginale e di liuto alunne di Arnold Dolmetsch, esperte in giochi perversi. ‘on fait toujours beaucoup de progrès en enseignant.’
Rientravo dopo tre ore, impaziente. dal viale chiamavo l’unica mia compagna, gridavo l’amore, col più tenero de’ nomi eletti: ‘Ghisola! Ghisolabella!’
Gettando la briglia balzavo su la ghiaia. ‘Ghisola!’ ero folle di lei, oblioso, incolpevole. l’infedeltà fugace dava all’amore una novità inebriante: la sovrana certezza. m’adiravo contro ogni indugio nel bagnarmi. ‘Ghisola, ti amo, ti amo, per sempre te sola. aspettami, aspettami tu, se io non posso più aspettare.’
Attonita, ignara, quasi paurosa, ella diceva: ‘ma che hai? che hai?’ tra parole interrotte, tra sprazzi di riso che davano candore e splendore alla febbre, mi parve di riudire il motto di folgore: ‘la follia non è più ricca di te.’
Veramente per due giorni turbinai nella demenza equestre.
Il suo volto appariva e spariva dietro le dita consunte a spandere su la tempia l’acqua del cuore.
Dal rombo di tutto il mio sangue apprendevo a morire di non morire.
Nel terzo giorno la lontananza fu solcata da una meteora accecante. ‘aspettami.’
Per accogliere il miracolo tutta la mia casa fu un padiglione di mandorli mutilati.
La guerra – quella da me guerreggiata nel mio spazio spirituale ch’ebbe fiumi più sanguigni dell’Isonzo, vette più ardue dell’Ermada e del Grappa, termini più distanti dell’Albio – fu veramente una disfida senza guanto fra me e la morte. non io soltanto continuavo a soffrir di morire senza morire ma tutti gli Italiani attendevano con una fede unanime che alfine il fato si dimostrasse giusto alla mia infelicità dandomi il compimento giusto nella battaglia o di terra o di mare o di cielo. era bello che un sol sentimento di giustizia, e non di pietà, legasse un popolo intero.
Avevo già perduto l’occhio destro nella prima impresa di Trieste. il sinistro era minacciato. accendevo senza consenso la lampada azzurra per spiare il viso del dottore nell’esame cotidiano, per sorprendere l’indizio infausto, per non attendere la prova del volo su Parenzo, per trapassare dal buio nel buio.
Quando Umberto Cagni venne al mio letto di ferito, forse risorto dalla canzone di gesta, forse dall’acredine di quella mia lontana invidia disperata, io gli dissi: ‘siediti, Cagni. pensa che ritrovi qui il buio che c’era ai pozzi di Bumeliana in quella notte d’ottobre. ti aspettavo.’ egli veniva a pacificarmi. sì rude e veloce uomo di guerra egli era tutto intento a non turbare, tanto il suo passo si facea leggero, tanto leggeri si faceano i suoi gesti. e io gli gridavo: ‘ci mettesti due ore a tagliarti l’osso del dito con quel paio di forbici atroci che fecero scappar fuori della tenda polare Simone Canepa. ebbene, io l’ho qui sotto il mio guanciale quel tuo paio di forbici.’ avevo le fiale di stricnina nella dose prescritta alla mia tolleranza anch’ella transumana: di otto milligrammi.
Mi sollevai su’ gomiti, mi strappai le fasce. gli cercai la mano mutilata. per trovarla accesi la lampada della paura a capo del letto. vidi illividito dalla luce lugubre il mio fratello della mia medesima età. ma certo io ero verde d’invidia e di furia tra quelle cortine molli. ero schiacciato dalla tenda polare, fra i resti del povero cane scoiato.
La mattina dopo, lucidissimo seppi condurre un inganno di ulisside quando la timida infermiera trasse dalla fiala il farmaco e mi punse. quando m’accorsi che il liquido era quasi tutto intromesso, con un sobbalzo brusco respinsi la siringa e simulai un’ira morbosa contro la donna affermando che l’iniezione era mancata e che bisognava ricominciare. con tanta risolutezza la soverchiai ch’ella non osò pur di fiatare. vuotò la seconda fiala, e per la seconda volta mi punse. sapevo che ne’ casi comuni la dose mortale è di dieci milligrammi. io ne avevo frodato sedici.
Restai solo, supino, immobile nell’aspettazione. dopo qualche tempo m’irrigidii, m’inarcai dalla nuca ai talloni. con una lucidità mentale che mi parve convertisse il mio cranio in una casside tutta cristallo di rocca, assistetti al mio avvelenamento. di cristallo mi furono anche i globi nelle orbite. i miei piedi contratti calcarono il limite che non cedette.
Orbo, dopo la prova aerea di Parenzo, tornai alla battaglia menomato di vista ma cresciuto di temerità perché il pericolo non poteva più minacciarmi se non da un lato solo. ebbi quasi onta che il mio petto s’inazzurrasse di nastri e si inargentasse di stelle quando non considerai il pericolo neppur da questo lato.
Fra tanti giovani spiriti che si nutrono della mia liberalità, che da’ miei libri e da’ miei esempii hanno appreso i modi del più vivere e del più sentire – pensavo – non è alcuno che comprenda la mia necessità di finire e che l’affretti co’ suoi voti?
Non perdonavo alla vita l’angustia ond’ero oppresso. alla mia età l’Alighieri era sul limitare della morte, il Bonaparte l’avea già varcato, se Giorgio Barbarelli e Vincenzo Bellini s’eran rivelati e s’erano spenti a trent’anni. la turpe vecchiezza non umiliava la potenza né la grazia.
Sempre alla mia malinconia sonò quella voce che arieggiava l’inizio di un canto sùbito chiuso dalla sola figura delle labbra come da una cadenza sospesa. ‘che posso darti? che vuoi? io lo so. tutto; è vero? tu vuoi tutto. ah, se io potessi! ma nessuno mai potrà darti nulla che ti valga in terra, o amico.’
Mi torna stasera dal padiglione di mandorli la donna di quell’accento, che in una sera ancor più lontana mi portò quel libretto di cuoio bruno con impresso il segno dell’Ospizio di Fontebuona. e cercò una pagina. e una pausa misurò quel che ella non aveva proferito. poi mi lesse: ‘come è fatta questa anima così forte, così inferma, così piccola, così grande, che cerca le secrete cose e contempla le più alte? come dunque è fatta questa che tante sa dell’altre cose e non sa come ella sia fatta?’ poi nell’ombra delle sue ciglia chine mi lesse ancóra: ‘non essendo a te medesimo dissimile, non di meno dissimigliantemente tocchi le dissimiglianti cose.’ e ancóra mi lesse, mutando un gioco di suoni in una lode segreta o in una condanna palese: ‘tu hai in te numero e non puoi essere annoverato, però che se’ misurevolmente senza misura.’
Ma non è vero che ‘io fui Pan’ se non nell’ode citata in un de’ miei libri più belli.
Nel tempo de’ miei studii per scrivere ‘Il fuoco’ scopersi in un fondachetto d’antiquario libraio sul fianco della basilica dalla parte dell’Orologio un di que’ maravigliosi libercoli del Secento erudito simili a un catalogo, a un favolello, a un orbis doctrinarum. v’eran i nomi de’ settecento strumenti scomparsi con gli inventori. v’erano sette orchestre inaudite; e ciascuna veramente aveva per la sorda risonanza la sua fossa funerea. pensavo allora al Bestiario d’Orfeo raccolto dall’ansia della smisurata Musica. pensavo che i teschi e gli scheletri di tutti gli animali magati dal Tracio fossero convertiti in istrumenti soprannaturali, come la testudo cyllenia, come la chinea vinciana.
Per dove erano sparsi, per quali province, per quali piagge quei tanti sepolcri che chiudevano in eterno gli inventori e le invenzioni? le ossa umane disgiunte e i legni i metalli gli avorii congegnati? come avrei potuto, in un camposanto in una cappella in un pavimento di lapidi sopra un carnaio passando assorto, come avrei potuto non divinare l’artefice sepolto con essa la voce vera del vero amor suo ridotta al silenzio arcano?
Prima di morire m’è dolce rivivere quegli attimi. mi soffermo, ascolto, esploro, fin che intorno a me non si spazii la solitudine che ho dentro me. la forza che m’è necessaria a compiere quel che voglio non mi verrà mai meno. poi riesco a scoperchiare l’arca. e lo scheletro del morto è ricoperto dalla sua pelle, e il morto è cinto d’una ghirlanda appena impallidita, come quel dinasta nella mia rimembranza dell’ipogeo tebano; e gli è allato lo strumento incognito che si tace con lui.
Il secondo de’ Romanzi del Melagrano è incompiuto. non apparirà in luce tra le mie opere postume.
Per più d’un anno io ho ricoverato la mia infelicità nel mio occhio spento che il demone retìnico ha riacceso d’una vita primordiale, ha popolato di mondi sconosciuti, affollato di esseri e di stirpi senza storia senza destino senza orizzonte. ho assistito a un assiduo travaglio accompagnato da una inquietudine insana.
Un maestro de’ maestri, ocularius medicus, mi aveva ammonito: ‘se volete dar pace alla vostra vista e alla vostra visione vi bisogna consentire che l’occhio leso, materialmente per volontà vostra conservato nell’orbita con grave pericolo dell’altro, vi sia estratto. è omai cieco senza speranza ma di una cecità che vive di là dalla retina: di una cecità che vive della vostra più profonda vita cerebrale esprimendola con segni di continuo variati, interpretandola con figure luminose di origine a voi medesimo ignota, registrandola con non so che scrittura geroglifica inspirata da un mistero ove si addensano e si dissolvono tutti i vostri misteri e quelli de’ vostri maggiori e quelli della vostra discendenza. un altro uomo, assistendo a un tale travaglio direi quasi cosmogonico, impazzirebbe. voi siete sempre più avido di questi spettacoli appariti a voi solo. so che non siete credente ma – come nel “Trionfo della Morte” – mistico senza dio. bene compresi il vostro pensiero – simbolo o enimma – quando mi scriveste che nelle formazioni e trasformazioni luminose del vostro occhio voi vivete la vostra vita futura.’
Vecchio guercio tentennone, io resterò dunque senza fine sospeso al mio nervo ottico, e senza denti riderò del vanesio che volle non soltanto divenire quel che era ma abolire interamente i suoi confini e rivivere tutte le vite, riesperimentare tutte le esperienze, togliere a tutti il meglio di ciascuno per atteggiarlo ed esaltarlo nella sua unica volontà.
Pur essendo così vasto e sempre teso in tanto diversi sforzi, io abomino la strettezza del mio vivere, odio il mio vivere chiamato inimitabile, maledico l’ingiustizia che mi mozza e tronca, mi altera e mutila, mi storce e frange. mi piacque nondimeno esser giudicato ‘capace di tutto’ quando mostravo di sapere che gli ordini morali seguono i gradi di latitudine, che le regole e i codici sono transitorii, che le verità sono cadevoli e cedevoli, che la sola misura dell’energia è il rischio, che la rinunzia e l’obedienza sono le due orecchie dell’abiezione.
Una sera, in un albergo di Lucerna, a una mensa comune, sconosciuto udii alcune viaggiatrici di mezza età e di vario pelo affermare con prove inoppugnabili che Gabriele d’Annunzio aveva davvero ucciso l’innocente, come nel romanzo di esso nome. nel tempo degli honesti furori contro l’eroe Corrado Brando molti affermavano che quel medesimo autore aveva strozzato lo strozzino, egli mille e mille volte scannato da tutti gli usurieri d’Occidente. talun cherco andava raccogliendo le prove o almen gli indizii per denunziarlo al Tribunale della Giustizia divina.
Ma v’è oggi al mondo qualcosa che valga la pena di un bel delitto? per sacrificarmi ho inventato io stesso la causa preclara, il nero periglio. ho soffiato l’aspettazione nel torpore, ho dato il grido ai sepolcri e il comando ai morti. ho abbacinato i miei fedeli perché vacillassero, ho deluso i miei partigiani perché mi tradissero. il mio isolamento non indeboliva il mio potere. tanto più sapevo servirmi del numero e accrescerlo senza errare, rimanendo solo; tanto più il numero sapeva servirmi senza dubitare, perché io solo conoscevo il cammino e la sosta, il cómpito e la meta. diradando l’ingombro degli amici addensavo la massa dei nemici: la più maculosa materia da trattare per la risolutezza di quel forte che sa illudere e deludere, incantare e minacciare, spregiare l’acquisto e afferrarlo, con la rapidità che scompiglia e fiacca gli animi di stampo consueto.
Quante sorti illustri ho attratto nella mia poesia! ma non conoscere la pena di certi umili mestieri, il sapore del pane in un mendicante famelico, la sensazione che dà la corda al collo di chi sta per essere impiccato, i circoli mentali nell’immobilità di un mandarino del quinto ordine o del nono, l’estasi che precede la guarigione del paralitico nel santuario di Lourdes, i tagli le slogature le trafitture di un fachiro, l’ignorare tante e tante diversità umane mi faceva spesso inconsolabile.
Quanto le maschere e le fortune del Còrso mi agitarono sul limitare dell’adolescenza inquieta e nel colmo della virilità malcontenta!
O miseria! così non vissi la scellerata e spasimosa violenza del Capo vandeano se non in una vecchia canzone di partigiani stupenda, che una sera mi cantò Reynaldo Hahn con la sigaretta attaccata all’angolo delle labbra credendo preservare dall’enfasi la passione dei crudi accenti in quella eleganza dell’incuranza mentre il rugghio della Vandea schiantava il cembalo.
La morte, la morte! avevo disegnato la più temeraria delle mie imprese, e inoppugnabilmente deliberato ero di compierla contro ogni congiura e vigliaccheria camuffata d’umanità. se la nausea della femmina m’era giunta alla strozza, non meno acre m’era la nausea della guerra che è femmina.
Nel mio stile io dovevo la suprema testimonianza al grande velivolo nomato Caproni che non mi fallò in alcuno de’ miei bombardamenti notturni e diurni. era un apparecchio terrestre. caduto in mare, andava a picco in un minuto e sedici secondi. volevo io condurlo di notte alle bocche di Cattaro traversando poco men di cinquecento chilometri sul mare aperto.
Dissi: ‘è da cancellare il nome di Cattaro, che sta laggiù in fondo al suo golfo rimoto come il Vallone di Risano dall’altra parte; e nel mezzo è Perasto con lo sconsacrato altare di là dalle Catene che non mi gioverà trascendere.’ per gioco non perfido io chiamai la mia azione inesorabile, voluta da me solo, contro oblique e ambigue manovre condotta da me solo, io la chiamai Teodìa dalla baia di Teodo. Teode: Θεός e ᾠδή, Teodìa è canto in onore del dio. Dante l’accorda alla sua terza rima nel cielo ottavo del Paradiso, nel cielo stellato, mentre la luce gli viene da molte stelle.
Per riscontrare il mio Caproni costruito gloriosamente e munito d’un serbatoio suppletivo d’essenza, ma più per accomiatarmi dal mio amore di terra natale, feci un volo di prova.
Come le costellazioni celesti contengono figure invisibili condotte dagli spiriti dei miti, raggiava una figura anche nella mia costellazione funesta: il viso dell’Italia bella.
Rividi riamai risalutai i bei monti cerulei di Pordenone, i miei campi di Aviano e della Comina, i pianori delle aquile e dei falchi; e le serene città porticate della Livenza e del Tagliamento; e la corona di Palma a nove punte; e la collina del Castello udinese; e Cividale con in fronte la sua gemma di Santa Maria in Valle; e tutta la Patria del Friuli sospesa alla forza del Grappa come un’anima a una sentenza di vita e di morte; e Gorizia ancor diritta negli stipiti delle sue porte; e l’Isonzo come una zona profanata che non più lega né cinge; e il Cucco, e Plezzo, e Plava, e Tolmino; e la roccia del Monte Nero dove tutti i solchi scavati sono le vie marzie di Roma; e tutti i nostri carnai, e tutti i nostri cemeterii, e tutti i nostri calvarii, tutti i nostri luoghi santi. e su tutti il presagio sinistro.
L’ala porta l’annunzio o il commiato. come il mio commiato pesava!
Ogni indugio m’era intollerabile. partii da Taliedo a capo della mia squadriglia il 24 settembre 1917 lunedì, prima del mezzogiorno. la mia meta era il campo di Gioia del Colle nella Puglia piana. ma ero per sorvolare tutti i luoghi più cari alla mia poesia, alla mia fallacia e alla mia tristezza.
Voglio noverarli, voglio ristamparmeli dentro, riamarli, aspirarli, prima di scomparire. sono a prua del mio velivolo potente. la mia mitragliatrice nera è puntata verso la mia liberazione. la mia ventura è piena d’occhi.
Foschìa in tutto il cerchio dell’orizzonte. nel pensiero di me e forse nell’imagine di quella immensa loggia di marmi bianchi che gli avevo evocata e promessa in cima alla reggia del Gran Mogol.
Che mi accade? è questo il penultimo de’ termini mortuarii senza termine, delle mete funebri senza meta. e la mia rotta si confonde col mio transito prossimo, di là dall’errore del tempo.
Questo velivolo non è quello del cielo di Vienna, non quello del seggio incendiario, non quello del tossico chiuso nell’acciaio damaschinato dell’archibusiere. è senza nome, condotto da un pilota che vede con un occhio e con mille occhi. trasvola il paese già trasvolato. la prua ha il garbo curvo del verone che mi torna senza rondini e senza nidi dalla grondaia della casa materna; dove si prese gioco della morte il fanciullo che io assempro.
È l’ultimo quarto della luna, anzi l’ultimo filo di bagliore, l’affilatissimo taglio d’un falcetto logoro dall’arrotìo. e mi piacerebbe di ritrovare ne’ monti delle mie carte quel mio disegno che feci per celia non mite: d’un Generale sedentario ‘materia sebacea conglomerata’ intento a scemare la luna su la cote dell’addome irrigata del suo sudore profuso, per ultimo tentativo d’impedimento alla mia dannata risolutezza. dopo quel pugno delle mie ceneri, o Angelo Cocles, ora ti getterei anche quello.
Seguo la rotta. sforzo la velocità. sfuggo alle sirene; perché anche l’aria ha le sue sirene di forma dissimile a quella nettunia, nel canto accordate al trimotore.
Sorvolando la Trebbia mi lascio Piacenza a sinistra. supero i duemila metri. la città, ristretta in un color di rosa pallido, quasi mi arieggia l’inquadratura dipinta in un soprapporto del secento. taglio il torrente Nure.
Mi s’accavallano a destra i dossi dei monti. do la rotta dell’Apennino che m’è umano come l’osso della schiena: tanto che un’origine di pensiero mi si forma nella prima vertebra della cervice; e gioisco di questa prontezza, che la rapidità non abolisce né attenua, nell’assimigliare gli spettacoli fuggitivi ai più riposti aspetti del mio spirito.
Quasi mi par di ravvisare i corsi d’acqua, i pianori, le vie, le viottole, i gruppi di case, le famiglie d’alberi. novero le greggi sparse delle nubi qua e là accovacciate, in pascoli, in addiacci. traverso il Taro. la foschìa in basso è ancor folta. sono a dumila quattrocento metri. ho l’ansia del mare.
Avvisto il Tirreno. seguo il disegno della riva arenosa. ma il velame mi copre l’acqua, mi veste fino alla cintola Undulna che voglio riamare.
Ecco il Forte de’ Marmi, e una felicità abbagliata.
Ecco Viareggio, e una tenzone di tradimenti.
Ecco la pineta di Migliarino, che si incenera senza ardere.
Ecco la Fossa burlamacca, simile a un Lete senza dimenticanza.
Ecco il lago di Massaciùccoli tanto ricco di cacciagione quanto misero d’ispirazione.
Ecco il Serchio.
Non dileguo su la mia stessa dileguata vita? per ribevermi i canti di ‘Alcyone’ non debbo io svenarmi?
Se quello è il Serchio, dov’è il Centauro nato dal mio forzamento della nuvola?
La foce insabbiata come allora è pur sempre di quel verde ineffabile che non mai si vide in alcuno de’ bronzi di Delfo o di Dodona? come dunque io l’assaporo con un occhio solo e in un solo attimo?
Ecco l’Arno. ecco Pisa. cerco Bocca d’Arno, non con i due occhi di allora ma sì con que’ mille e mille spiriti cresciuti di numero e di musica. non riesco a distinguere la mia casa delle odi e de’ libecci, delle animine e delle schiavette, del galoppo senza meta, del nuoto senza rischio, del delirio senza amore.
Ma distinguo in Pisa il prato santo, il duomo, il campanile, il battistero, tanta lodata bellezza senza bellezza e il martire amore senza miracolo.
‘Mutar d’ale.’ o Ghisola sempre rimota, sempre attesa, sempre disparita, io le ho pur mutate; e le rimuto. non fuor della tempesta ma sì ancor più addentro.
Il martirio di Ghisola, il disonore di Donatella, il perdimento di Amaranta mi crosciano contro il viso mascherato, contro il cuore fasciato. da San Rossore, dal ponte che solevo traversare a cavallo con la mia triplice muta di cani di enigmi e di stratagemmi salgono e crosciano i sussulti i singulti gli insulti di Vannozza, di Nike, di Lavinia, di Ornitio, di Panisca. quanta vita calpesta! quanta passione! ite procul fraudes. l’isola di Progne non è se non una lunga foglia sibillina. la mia frode non è se non una convulsa fronda senza margini…
No, la Teodìa delle Bocche non fu la Trenodia accompagnata dalle tibie cave. accompagnata fu dagli scoppii laceranti delle molte bombe distribuite con ferma sapienza nella baia di Teodo e lungh’esso il canale di Kumbur.
Ho vissuto ancóra cinque anni: il retorico lustro latino che termina nel sacrifizio espiatorio.
Ho vendicato la Vittoria delusa. ho potuto alfine compiere un’opera bella con le altrui vite, non col mio linguaggio: con la materia umana, non col mio studio.
Cursore leale ho trasmesso con tutti i miei segni la face all’uomo novo che l’Orbo veggente aveva annunziato ne’ suoi ‘Canti della Ricordanza e dell’Aspettazione’.
Il sole declina fra i cieli e le tombe.
Ovunque l’inane caligine incombe.
Udremo sull’alba squillare le trombe?
Ricòrdati e aspetta.
È figlia al silenzio la più bella sorte.
Verrà dal silenzio, vincendo la morte,
l’Eroe necessario. Tu veglia alle porte,
ricòrdati e aspetta.
Or è dieci giorni, la sera del 3 agosto, riparlai per l’ultima volta dalla ringhiera dopo la gesta di Ronchi: agli ‘uomini milanesi’, agli uomini. rinnovai un di que’ grandi colloquii che solevo tenere sotto le stelle del Carnaro col popolo ansietato.
Lo stile lapidario incise quel che rimarrà nelle nuove tavole per disegnare le forme della grandezza.
Dissi. oggi non v’è salute fuori della nazione, non v’è salute contro la nazione.
Il lavoro è sterile se non concorra alla potenza della nazione.
Ogni volere ogni sforzo ogni tentativo è sterile se non sia subordinato alla legge della nazione.
Non noi respiriamo ma la nazione in noi respira.
Non noi viviamo ma la Patria in noi vive.
Tanto noi siamo forti e tanto la Patria è forte.
Tanto la Patria è grande e tanto noi siamo grandi.
Ogni semenza reale, ogni semenza ideale è seguita dallo sguardo della Patria, è riconosciuta dallo sguardo della Patria, è santificata dallo sguardo della Patria.
Questo dissi.
È venuta in me l’ora del silenzio: tempus tacendi.
Il balcone è aperto. rari soffii levano un esiguo stridore nelle frondi estive dell’alta palma di quella specie chiamata fenice: phoenix renascens. il cipresso nero tocca senza tremito la stella che è nella spalla dell’Orsa: la Chiara. il gonfalone della Reggenza pende affloscito dall’Albero maestro che a lungo fu cercato nelle selve montane dalla costanza e baldanza de’ superstiti perché superasse almen d’un cubito la più solenne delle tre aste alzate dai bronzi di Alessandro Leopardi avanti a San Marco.
Δαιμόνιον ἔχει καί μαίνεται.
Questo susurra la voce ultima che fu la prima.
Chiudo gli occhi per cogliere l’ultima figura di luce nel mistero mentale. vedo il fanciullo indomito che a volta a volta ride e s’acciglia sotto le risse delle rondini. anche qui tre sono i poggiuoli. anche qui scelgo il terzo a manca.
Diritto in piedi io studio l’attitudine favorevole a salvarmi le mani nello schianto.
Penso a Onufria degli Onofrii e al nodo cieco del vegliardo. penso alla mia madre, che non mi raccolga nelle braccia invisibili della sua pietà per rattenermi in terra. penso al gesto della creatura lontana che spande su la sua tempia l’acqua del cuore.
Getto queste carte dietro l’òmero come il mio niente alla notte.