Era il tempo in cui più torbida ferveva l'operosità dei distruttori e dei costruttori sul suolo di Roma. Insieme con nuvoli di polvere si propagava una specie di follìa del lucro, come un turbine maligno, afferrando non soltanto gli uomini servili, i famigliari.della calce e del mattone, ma ben anche i più schivi eredi dei majorascati papali, che avevano, fin allora guardato con dispregio gli intrusi dalle finestre dei palazzi di travertino incrollabili sotto la crosta dei secoli. Le magnifiche stirpi - fondate, rinnovellate, rafforzate col nepotismo e con le guerre di parte - si abbassavano a una a una, sdrucciolavano nella nuova melma, vi s'affondavano, scomparivano. Le ricchezze illustri, accumulate da secoli di felice rapina e di fasto mecenatico, erano esposte ai rischi della Borsa. I lauri e i roseti della Villa Sciarra, per così lungo ordine di notti lodati dagli usignuoli, cadevano recisi o rimanevano umiliati fra i cancelli dei piccoli giardini contigui alle villette dei droghieri. I giganteschi cipressi ludovisii, quelli dell'Aurora, quelli medesimi i quali un giorno avevano sparsa la solennità del loro antico mistero sul capo olimpico del Goethe, giacevano atterrati (mi stanno sempre nella memoria come i miei occhi li videro in un pomeriggio di novembre) atterrati e allineati l'uno accanto all'altro, con tutte le radici scoperte che fumigavano verso il cielo impallidito, con tutte le negre radici scoperte che parevano tenére ancor prigione entro l'enorme intrico il fantasma di una vita oltrapossente. E d'intorno, su i prati signorili dove nella primavera anteriore le violette erano apparse per l'ultima volta più numerose dei fili d'erba, biancheggiavano pozze di calce, rosseggiavano cumuli di mattoni, stridevano ruote di carri carichi di pietre, si alternavano le chiamate dei mastri e i gridi rauchi dei carrettieri, cresceva rapidamente l'opera brutale che doveva occupare i luoghi già per tanta età sacri alla Bellezza e al Sogno. Sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di ville gentilizie a cui nulla è paragonabile nel mondo delle memorie e della poesia. Perfino su i bussi della Villa Albani, che eran parsi immortali come le cariatidi e le erme, pendeva la minaccia dei barbari.Il contagio si propagava da per tutto, rapidamente. Nel contrasto incessante degli affari, nella furia feroce degli appetiti e delle passioni, nell'esercizio disordinato ed esclusivo delle attività utili, ogni senso di decoro era smarrito, ogni rispetto del Passato era deposto. La lotta per il guadagno era combattuta con un accanimento implacabile, senza alcun freno. Il piccone, la cazzuola e la mala fede erano le armi. E, da una settimana all'altra, con una rapidità quasi chimerica, sorgevano su le fondamenta riempite di macerie le gabbie enormi e vacue, crivellate di buchi rettangolari, sormontate da cornicioni posticci, incrostate di stucchi obbrobriosi. Una specie d'immenso tumore biancastro sporgeva dal fianco della vecchia Urbe e ne assorbiva la vita. Poi di giorno in giorno, su i tramonti - quando le torme rissose degli operai si sparpagliavano per le osterie della via Salaria e della via Nomentana - giù per i viali principeschi della Villa Borghese si vedevano apparire in carrozze lucidissime i nuovi eletti della fortuna, a cui nè il parrucchiere nè il sarto nè il calzolaio avevan potuto togliere l'impronta ignobile; si vedevano passare e ripassare al trotto sonoro dei bai e dei morelli, riconoscibili alla goffaggine insolente delle loro pose, all'impaccio delle loro mani rapaci e nascoste in guanti troppo larghi o troppo stretti. E parevano dire: «Noi siamo i nuovi padroni di Roma. Inchinatevi!»
Tali, in fatti, i padroni di quella Roma che sognatori e profeti, ebri dell'ardente esalazione di tanto latino sangue sparso, avevano assomigliata all'arco di Ulisse. - Bisogna curvarlo o morire. - Ma quegli stessi uomini, i quali da lungi erano apparsi fiamme nel cielo eroico della patria non ancor libera, ora diventavano «carboni sordidi, buoni soltanto a segnare su i muri una turpe figura o una parola sconcia», secondo l'atroce imagine d'un rètore indignato. S'industriavano anch'essi a vendere, a barattare, a legiferare e a tender trappole, nessuno più facendo allusione all'arco micidiale. E non pareva probabile, in verità, che a spaventarli si levasse d'improvviso il grido:
«O Proci, divoratori della sostanza altrui, badate, Ulisse è già approdato in Itaca!»