sabato 3 luglio 2021

Il Piacere. Libro Primo [4]

 Elena, dopo poco, aveva lasciato il palazzo Farnese, quasi di nascosto, senza prender congedo né da Andrea né da alcun altro. Era dunque rimasta al ballo appena mezz’ora. L’amante l’aveva cercata per tutte le sale, a lungo e invano.

La mattina seguente, egli mandò un servo al palazzo Barberini per avere notizie di lei; e seppe ch’ella stava male. La sera andò di persona, sperando d’esser ricevuto; ma una camerista gli disse che la signora soffriva molto e che non poteva vedere nessuno. Il sabato, verso le cinque del pomeriggio, tornò, sempre sperando.
Egli usciva dalla casa Zuccari, a piedi. Era un tramonto paonazzo e cinereo, un po’ lugubre, che a poco a poco si stendeva su Roma come un velario greve. Intorno alla fontana della piazza Barberini i fanali già ardevano, con fiammelle pallidissime, come ceri intorno a un feretro; e il Tritone non gittava acqua, forse per causa d’un restauro o d’una pulitura. Venivano giù per la discesa carri tirati da due o da tre cavalli messi in file e torme d’operai tornanti dalle opere nuove. Alcuni, allacciati per le braccia, si dondolavano cantando a squarciagola una canzone impudica.
Egli si fermò, per lasciarli passare. Due o tre di quelle figure rossastre e bieche gli rimasero impresse. Notò che un carrettiere aveva una mano fasciata e le fasce macchiate di sangue. Anche, notò un altro carrettiere in ginocchio sul carro, che aveva la faccia livida, le occhiaie cave, la bocca contratta, come un uomo attossicato. Le parole della canzone si mescevano ai gridi gutturali, ai colpi delle fruste, al rumore delle ruote, al tintinnio dei sonagli, alle ingiurie, alle bestemmie, alle aspre risa.
La sua tristezza s’aggravò. Egli si trovava in una disposizion di spirito strana. La sensibilità de’ suoi nervi era così acuta che ogni minima sensazione a lui data dalle cose esteriori pareva una ferita profonda. Mentre un pensiero fisso occupava e tormentava tutto il suo essere, egli aveva tutto il suo essere esposto agli urti della vita circostante. Contro ogni alienazione della mente ed ogni inerzia della volontà, i suoi sensi rimanevano vigili ed attivi; e di quell’attività egli aveva una conscienza non esatta. I gruppi delle sensazioni gli attraversavano d’improvviso lo spirito, simili a grandi fantasmagorie in una oscurità; e lo turbavano e sbigottivano. Le nuvole del tramonto, la forma del Tritone cupa in un cerchio di fanali smorti, quella discesa barbarica d’uomini bestiali e di giumenti enormi, quelle grida, quelle canzoni, quelle bestemmie esasperavano la sua tristezza, gli suscitavano nel cuore un timor vago, non so che presentimento tragico.
Una carrozza chiusa usciva dal giardino. Egli vide chinarsi al cristallo un volto di donna, in atto di saluto; ma non lo riconobbe. Il palazzo levavasi d’innanzi a lui, ampio come una reggia; le vetrate del primo piano brillavano di riflessi violacei; su la sommità indugiava un bagliore fievole; dal vestibolo usciva un’altra carrozza chiusa.
« Se potessi vederla! » egli pensò, soffermandosi. Rallentava il passo, per prolungare l’incertezza e la speranza. Ella gli pareva assai lontana, quasi perduta, in quell’edificio così vasto.
La carrozza si fermò; e un signore mise il capo fuori dello sportello, chiamando:

  • Andrea!
    Era il duca di Grimiti, un parente.
  • Vai dalla Scerni? – chiese colui con un sorriso fine.
  • Sì, – rispose Andrea – a prendere notizie. Tu sai, è malata.
  • Lo so. Vengo di là. Sta meglio.
  • Riceve?
  • Me, no. Ma potrà forse ricever te.
    E il Grimiti si mise a ridere maliziosamente, tra il fumo della sua sigaretta.
  • Non capisco – fece Andrea, serio.
  • Bada; si dice già che tu sia in favore. L’ho saputo iersera, in casa Pallavicini; da una tua amica: te lo giuro.
    Andrea fece un atto d’impazienza e si voltò per andarsene.
  • Bonne chance! – gli gridò il duca.
    Andrea entrò sotto il portico. In fondo a lui, la vanità godeva di quella diceria già sorta. Egli ora si sentiva più sicuro, più leggero, quasi lieto, pieno d’un intimo compiacimento. Le parole del Grimiti gli avevano d’un tratto sollevato gli spiriti, come un sorso d’un liquor cordiale. Mentre saliva le scale, gli cresceva la speranza. Giunto avanti alla porta, aspettò per contenere l’ansia. Suonò.
    Il servo lo riconobbe; e disse sùbito:
  • Se il signor conte ha la bontà d’attendere un momento, vado ad avvertire Mademoiselle.
    Egli assentì; e si mise a passeggiare su e giù per la vasta anticamera ove gli pareva ripercuotersi forte il tumulto del suo sangue. Le lanterne di ferro battuto illuminavano inegualmente il cuoio delle pareti, le cassapanche scolpite, i busti antichi su’ piedistalli di broccatello. Sotto il baldacchino splendeva di ricami l’impresa ducale; un liocorno d’oro in campo rosso. In mezzo a un tavolo, un piatto di bronzo era colmo di biglietti; e, gittandovi gli occhi sopra, Andrea vide quello recente del Grimiti. « Bonne chance! » Gli risonava ancor negli orecchi l’augurio ironico.
    Madamoiselle apparve, dicendo:
  • La duchessa sta un poco meglio. Credo che il conte potrà passare, un momento. Venga, di grazia, con me.
    Ella era una donna di gioventù già sfiorita, piuttosto sottile, vestita di nero, con due occhi grigi che scintillavano singolarmente tra i falsi ricci biondicci. Aveva il passo e il gesto lievissimi, quasi furtivi, come di chi abbia la consuetudine di vivere intorno agli infermi o di attendere ad uffici delicati o di eseguire ordini di segretezza.
  • Venga, signor conte.
    Ella precedeva Andrea, lungo le stanze appena rischiarate, su i tappeti folti che attenuavano ogni rumore; e il giovine, pur nell’irrefrenabile tumulto del suo spirito, provava contro di lei un senso istintivo di repulsione, senza sapere perché.
    Giunta innanzi a una porta che coprivano due bande di tappezzeria medìcea orlate di velluto rosso, ella si fermò, dicendo:
  • Entro prima io, ad annunziarla. Attenda qui.
    Una voce di dentro, la voce di Elena, chiamò:
  • Cristina!
    Andrea si sentì tremar le vene con tal furia a quel suono inaspettato, che pensò: « Ecco, ora vengo meno. » Aveva come l’antiveggenza indistinta d’una qualche felicità soprannaturale, superante la sua aspettazione, avanzante i suoi sogni, soverchiante le sue forze. – Ella era là, oltre quella soglia. – Ogni nozione della realità fuggiva dal suo spirito. Gli pareva d’aver, un tempo, pittoricamente o poeticamente imaginata una simile avventura d’amore, in quello stesso modo, con quello stesso apparato, con quello stesso fondo, con quello stesso mistero; e un altro, un suo personaggio imaginario, n’era l’eroe. Ora, per uno strano fenomeno fantastico, quella ideal finzione d’arte confondevasi col caso reale; ed egli provava un senso inesprimibile di smarrimento. – Ciascuna banda di arazzo recava una figura simbolica. Il Silenzio e il Sonno, due efebi, svelti e lunghi quali avrebbe potuto disegnarli il Primaticcio bolognese, custodivano la porta. Ed egli, egli proprio, eravi d’innanzi, in attesa; ed oltre la soglia, forse nel letto, respirava la divina amante. – Egli credeva udire il respiro di lei nel palpito delle sue arterie.
    Madamoiselle uscì, alfine. Tenendo sollevato con la mano il grave tessuto, disse a voce bassa, con un sorriso:
  • Può entrare.
    E si ritrasse. Andrea entrò.
    Ebbe, da prima, l’impressione d’un’aria assai calda, quasi soffocante: sentì nell’aria l’odor singolare del cloroformio; scorse qualche cosa di rosso nell’ombra, il damasco rosso delle pareti, i cortinaggi del letto; udì la voce stanca di Elena, che mormorava:
  • Vi ringrazio, Andrea, d’esser venuto. Sto meglio.
    Un poco esitando, poiché non vedeva distintamente le cose a quel lume fievole, s’avanzò fino al letto.
    Ella sorrideva, col capo affondato su i guanciali, supina, nella mezz’ombra. Una zona di lana bianca le fasciava la fronte e le gote, passando di sotto al mento, come un soggólo monacale; né la pelle del volto era men bianca di quella fascia. Gli angoli esterni delle palpebre si restringevano per la contrazion dolorosa dei nervi infiammati; a intervalli la palpebra inferiore aveva un piccolo tremolio involontario; e l’occhio era umido, infinitamente soave, come velato da una lacrima che non potesse sgorgare, quasi implorante, fra i cigli che trepidavano.
    Una immensa tenerezza invase il cuore del giovine, quando la vide da presso. Elena trasse fuori una mano e gliela tese, con un gesto assai lento. Egli si chinò, quasi in ginocchio contro la proda del letto; e si mise a coprir di baci rapidi e leggeri quella mano che ardeva, quel polso che batteva forte.
  • Elena! Elena! Mio amore!
    Elena aveva chiuso gli occhi, come per gustare più intimamente il rivo di piacere che le saliva dal braccio e le si effondeva a sommo del petto e le s’insinuava nelle fibre più segrete. Volgeva la mano, sotto la bocca di lui, per sentire i baci su la palma, sul dosso, tra le dita, intorno intorno al polso, su tutte le vene, in tutti i pori.
  • Basta! – mormorò, riaprendo gli occhi; e con la mano che le parve un po’ intorpidita sfiorò i capelli d’Andrea.
    In quella carezza così tenue era tanto abbandono che fu su l’anima di lui la foglia di rosa sul calice colmo. La passione traboccò. Gli tremavano le labbra, sotto l’onda confusa di parole ch’egli non conosceva, ch’egli non profferiva. Aveva la sensazione violenta e divina come d’una vita che si dilatasse oltre le sue membra.
  • Che dolcezza! E’ vero? – disse Elena, sommessa, ripetendo quel gesto blando. E un brivido visibile le corse la persona, a traverso le coperte pesanti.
    Poiché Andrea fece l’atto di prenderle di nuovo la mano, ella pregava…
  • No… Così, resta così! Mi piaci!
    Premendogli la tempia, lo costrinse a posare il capo su la sponda, per modo ch’egli sentiva contro una guancia la forma del ginocchio di lei. Lo guardò quindi ella un poco, pur sempre accarezzandogli i capelli; e con una voce morente di delizia, mentre le passava tra’ cigli qualche cosa come un baleno bianco, soggiunse, allungando le parole:
  • Quanto mi piaci!
    Un inesprimibile allettamento voluttuoso era nell’apertura delle sue labbra, quando pronunziava la prima sillaba di quel verbo così liquido e sensuale in bocca a una donna.
  • Ancóra! – mormorò l’amante, i cui sensi languivano di passione, alla carezza delle dita, alla lusinga della voce di lei. – Ancóra! Dimmi! Parla!
  • Mi piaci! – ripeteva Elena, vedendo ch’egli la guardava fiso nelle labbra e forse conoscendo il fascino ch’ella emanava con quella parola.
    Poi tacquero ambedue. L’uno sentiva la presenza dell’altra fluire e mescersi nel suo sangue, finché questo divenne la vita di lei e il sangue di lei la vita sua. Un silenzio profondo ingrandiva la stanza; il crocifisso di Guido Reni faceva religiosa l’ombra dei cortinaggi; il romore dell’Urbe giungeva come il murmure d’un flutto assai lontano.
    Allora, con un movimento repentino, Elena si sollevò sul letto, strinse fra le due palme il capo del giovine, l’attirò, gli alitò sul volto il suo desiderio, lo baciò, ricadde, gli si offerse.
    Dopo, una immensa tristezza la invase; la occupò l’oscura tristezza che è in fondo a tutte le felicità umane, come alla foce di tutti i fiumi è l’acqua amara. Ella, giacendo, teneva le braccia fuori dalla coperta abbandonate lungo i fianchi, le mani supine, quasi morte, agitate di tratto in tratto da un lieve sussulto; e guardava Andrea, con gli occhi bene aperti, con uno sguardo continuo, immobile, intollerabile. A una a una, le lacrime incominciarono a sgorgare; e scendevano per le gote a una a una, silenziosamente.
  • Elena, che hai! Dimmi: che hai? – le chiese l’amante, prendendole i polsi, chinandosi a suggerle dai cigli le lacrime.
    Ella stringeva forte i denti e le labbra per contenere il singulto.
  • Nulla. Addio. Lasciami; ti prego! Mi vedrai domani. Va.
    La sua voce e il suo gesto furono così supplichevoli che Andrea obbedì.
  • Addio – egli disse; e la baciò in bocca, teneramente, provando il sapore delle stille salse, bagnandosi di quel caldo pianto. – Addio. Amami! Ricòrdati!
    Gli parve, rivarcando la soglia, di udire dietro di sé uno scoppio di singulti. Andò innanzi, un po’ incerto, titubante come un uomo che abbia la vista malsicura. Gli persisteva nel senso l’odore del cloroformio, simile a un vapor d’ebrezza; ma ad ogni passo qualche cosa d’intimo gli sfuggiva, si disperdeva nella’aria; ed egli, per un istintivo impulso, avrebbe voluto restringersi, chiudersi, invilupparsi, impedire quella dispersione. Le stanze erano deserte e mute, d’innanzi. A una porta, Madamoiselle comparve, senza alcun rumore di passi, senza alcun fruscìo di vesti, come un fantasma.
  • Di qua, signor conte. Ella non ritrova la via.
    Sorrideva in una maniera ambigua e irritante; e la curiosità rendeva più pungenti i suoi occhi grigi. Andrea non parlò. Di nuovo la presenza di quella donna gli era molesta, lo turbava, gli suscitava quasi un vago ribrezzo, gli faceva ira.
    Appena fu sotto il portico, respirò come un uomo liberato da un’angoscia. La fontana metteva tra gli alberi un chioccolìo sommesso, rompendo a tratti in uno strepito sonoro; tutto il cielo risfavillava di stelle che certe nuvole lacere avvolgevano come in lunghe capigliature cineree o in vaste reti nere; fra i colossi di pietra, a traverso i cancelli, apparivano e sparivano i fanali delle vetture in corsa; spandevasi nell’aria fredda il soffio della vita urbana; le campane sonavano, da lungi e da presso. Egli aveva alfine la conscienza intera della sua felicità.
    Una felicità piena, obliosa, libera, sempre novella, tenne ambedue, dopo d’allora. La passione li avvolse, e li fece incuranti di tutto ciò che per ambedue non fosse un godimento immediato. Ambedue, mirabilmente formati nello spirito e nel corpo all’esercizio di tutti i più alti e più rari diletti, ricercavano senza tregua il Sommo, l’Insuperabile, l’Inarrivabile; e giungevano così oltre, che talvolta una oscura inquietudine li prendeva pur nel colmo dell’oblio, quasi una voce d’ammonimento salisse dal fondo dell’essere loro ad avvertirli d’un ignoto castigo, d’un termine prossimo. Dalla stanchezza medesima il desiderio risorgeva più sottile, più temerario, più imprudente; come più s’inebriavano, la chimera del loro cuore ingigantiva, s’agitava, generava nuovi sogni; parevano non trovar riposo che nello sforzo, come la fiamma non trova la vita che nella combustione. Talvolta, una fonte di piacere inopinata aprivasi dentro di loro, come balza d’un tratto una polla viva sotto le calcagna d’un uomo che vada alla ventura per l’intrico d’un bosco; ed essi vi bevevano senza misura, finché non l’avevano esausta. Talvolta, l’anima, sotto l’influsso dei desiderii, per un singolar fenomeno d’allucinazione, produceva l’imagine ingannevole d’una esistenza più larga, più libera, più forte, « oltrapiacente »; ed essi vi s’immergevano, vi godevano, vi respiravano come in una loro atmosfera natale. Le finezze e le delicatezze del sentimento e dell’imaginazione succedevano agli eccessi della sensualità.
    Ambedue non avevano alcun ritegno alle mutue prodigalità della carne e dello spirito. Provavano una gioia indicibile a lacerare tutti i veli, a palesare tutti i segreti, a violare tutti i misteri, a possedersi fin nel profondo, a penetrarsi, a mescolarsi, a comporre un essere solo.
  • Che strano amore! – diceva Elena, ricordando i primissimi giorni, il suo male, la rapida dedizione. – Mi sarei data a te la sera stessa ch’io ti vidi.
    Ella ne provava una specie d’orgoglio. E l’amante diceva:
  • Quando udii, quella sera, annunziare il mio nome accanto al tuo, su la soglia, ebbi, non so perché, la certezza che la mia vita era legata alla tua, per sempre!
    Essi credevano quel che dicevano. Rilessero insieme l’elegia romana del Goethe: « Lass dich, Geliebte, nicht reun, dass du mir so schnell dich ergeben!… Non ti pentire, o diletta, d’esserti così prontamente concessa! Credimi, io di te non serbo alcun pensiero basso e impuro. Gli strali d’Amore han vario effetto: gli uni graffiano appena, e del tossico che s’insinua il suo cuor soffre molt’anni; bene pennuti e armati d’un ferro aguzzo e vivo, gli altri penetrano nel midollo e subitamente infiammano il sangue. Ai tempi eroici, quando gli dei e le dee amavano, il desio seguiva lo sguardo, il godimento seguiva il desio. Credi tu che la dea dell’Amore abbia a lungo meditato quando sotto i boschetti d’Ida, Anchise un giorno le piacque? E la Luna? S’ella esitava, l’Aurora gelosa avrebbe presto risvegliato il bel pastore! Ero vede Leandro in piena festa, e l’acceso amante si tuffa nell’onda notturna. Rea Silva, la vergine regia, va ad attingere acqua nel Tevere e la ghermisce il dio… »
    Come per il divino elegiopèo di Faustina, per essi Roma s’illuminava d’una voce novella. Ovunque passavano, lasciavano una memoria d’amore. Le chiese remote dell’Aventino: Santa Sabina su le belle colonne di marmo pario, il gentil verziere di Santa Maria del Priorato, il campanile di Santa Maria in Cosmedin, simile a un vivo stelo roseo nell’azzurro, conoscevano il loro amore. Le ville dei cardinali e dei principi: la Villa Pamphily, che si rimira nelle sue fonti e nel suo lago tutta graziata e molle, ove ogni boschetto par chiuda un nobile idillio ed ove i baluardi lapidei e i fusti arborei gareggian di frequenza; la Villa Albani, fredda e muta come un chiostro, selva di marmi effigiati e museo di bussi centenarii, ove dai vestibili e dai portici, per mezzo alle colonne di granito, le cariatidi e le erme, simboli d’immobilità, contemplano l’immutabile simetria del verde; e la Villa Medici che pare una foresta di smeraldo ramificante in una luce soprannaturale; e la Villa Ludovisi, un po’ selvaggia, profumata di viole, consacrata dalla presenza della Giunone cui Wolfgang adorò, ove in quel tempo i platani d’Oriente e i cipressi dell’Aurora, che parvero immortali, rabbrividivano nel presentimento del mercato e della morte; tutte le ville gentilizie, sovrana gloria di Roma, conoscevano il loro amore. Le gallerie dei quadri e delle statue: la sala borghesiana delle Danae d’innanzi a cui Elena sorrideva quasi rivelata, e la sala degli specchi ove l’imagine di lei passava tra i putti di Ciro Ferri e le ghirlande di Mario de’ Fiori; la camera dell’Eliodoro, prodigiosamente animata della più forte palpitazion di vita che il Sanzio abbia saputo infondere nell’inerzia d’una parete, e l’appartamento dei Borgia, ove la grande fantasia del Pinturicchio si svolge in un miracoloso tessuto d’istorie, di favole, di sogni, di capricci, di artifizi e di ardiri; la stanza di Galatea, per ove si diffonde non so che pura freschezza e che serenità inestinguibile di luce, e il gabinetto dell’Ermafrodito, ove lo stupendo mostro, nato dalla voluttà d’una ninfa e d’un semidio, stende la sua forma ambigua tra il rifulgere delle pietre fini; tutte le solitarie sedi della Bellezza conoscevano il loro amore.
    Essi comprendevano l’alto grido del poeta: « Eine Welt zwar bist Du, o Rom! Tu sei un mondo, o Roma! Ma senza l’amore il mondo non sarebbe il mondo, Roma stessa non sarebbe Roma. » E la scala della Trinità, glorificata dalla lenta ascensione del Giorno, era la scala della Felicità, per l’ascensione della bellissima Elena Muti.
    Elena spesso piacevasi di salire per quei gradini al buen retiro del palazzo Zuccari. Saliva piano, seguendo l’ombra; ma l’anima sua correva rapida alla cima. Ben molte ore gaudiose misurò il piccolo teschio d’avorio dedicato ad Ippolita, che Elena talvolta accostava all’orecchio con un gesto infantile, mentre premeva l’altra guancia sul petto dell’amante, per ascoltare insieme la fuga degli attimi e il battito del cuore. Andrea le pareva sempre nuovo. Talvolta, ella rimaneva quasi attonita d’innanzi all’infaticabile vitalità di quello spirito e di quel corpo. Talvolta, le carezze di lui le strappavano un grido in cui esalavasi tutto il terribile spasimo dell’essere sopraffatto dalla violenza della sensazione. Talvolta, fra le braccia di lui, la occupava una specie di torpore quasi direi veggente, in cui ella credeva divenire, per la transfusione d’un’altra vita, una creatura diafana, leggera, fluida, penetrata d’un elemento immateriale, purissima; mentre tutte le pulsazioni nella lor moltitudine le davano imagine del tremito innumerevole d’un mar calmo in estate. Anche, talvolta, fra le braccia, sul petto di lui, dopo le carezze, ella sentiva dentro di sé la voluttà acquietarsi, agguagliarsi, addormentarsi, a similitudine di un’acqua estuante che a poco a poco si posi; ma se l’amato respirava più forte o appena appena si muoveva, ella sentiva di nuovo un’onda ineffabile attraversarla dal capo a’ piedi, vibrare diminuendo, e infine morire. Questa « spiritualizzazione » del gaudio carnale, causata dalla perfetta affinità dei due corpi, era forse il più saliente tra i fenomeni della loro passione. Elena, talvolta, aveva lacrime più dolci dei baci.
    E nei baci, che dolcezza profonda! Ci sono bocche di donne le quali paiono accendere d’amore il respiro che le apre. Le invermigli un sangue ricco più d’una porpora o le geli un pallor d’agonia, le illumini la bontà d’un consenso o le oscuri un’ombra di disdegno, le dischiuda il piacere o le torca la sofferenza, portano sempre in loro un enigma che turba gli uomini intellettuali e li attira e li captiva. Un’assidua discordia tra l’espression delle labbra e quella degli occhi genera il mistero; per che un’anima duplice vi si riveli con diversa bellezza, lieta e triste, gelida e passionata, crudele e misericorde, umile e orgogliosa, ridente e irridente; e l’ambiguità suscita l’inquietudine nello spirito che si compiace delle cose oscure. Due quattrocentisti meditativi, perseguitori infaticabili d’un Ideale raro e superno, psicologi acutissimi a cui si debbon forse le più sottili analisi della fisionomia umana, immersi di continuo nello studio e nella ricerca delle difficoltà più ardue e de’ segreti più occulti, il Botticelli e il Vinci, compresero e resero per vario modo nell’arte loro tutta l’indefinibile seduzione di tali bocche.
    Ne’ baci d’Elena era, in verità, per l’amato, l’elisir sublimissimo. Di tutte le mescolanze carnali quella pareva loro la più completa, la più appagante. Credevano, talvolta, che il vivo fiore delle loro anime si disfacesse premuto dalle labbra, spargendo un succo di delizie per ogni vena insino al cuore; e, talvolta, avevano al cuore la sensazione illusoria come d’un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Tanto era la congiunzion perfetta, che l’una forma sembrava il natural complemento dell’altra. Per prolungare il sorso, contenevano il respiro finché non si sentivan morire d’ambascia, mentre le mani dell’una tremavan su le tempie dell’altro smarritamente. Un bacio li prostrava più d’un amplesso. Distaccati, si guardavano, con gli occhi fluttuanti in una nebbia torbida. Ed ella diceva, con voce un po’ roca, senza sorridere:- Moriremo.
    Talvolta, riverso, egli chiudeva le palpebre aspettando. Ella, che conosceva quell’artifizio, chinavasi sopra di lui con meditata lentezza, a baciarlo. Non sapeva l’amato dove avrebbe ricevuto quel bacio ch’egli, nella sua volontaria cecità, vagamente presentiva. In quel minuto d’aspettazione e d’incertezza, un’ansia indescrivibile gli agitava tutte le membra, simile nell’intensità al raccapriccio d’un uomo bendato che sia sotto la minaccia d’un suggello di fuoco. Quando infine le labbra lo toccavano, frenava a stento un grido. E la tortura di quel minuto gli piaceva; poiché non di rado la sofferenza fisica nell’amore attrae più della blandizia. Elena anche, per quel singolare spirito imitativo che spinge gli amanti a rendere esattamente una carezza, voleva provare.
  • Mi sembra – diceva ad occhi chiusi – che tutti i pori della mia pelle sieno come un milione di piccole bocche anelanti alla tua, spasimanti per essere elette, invidiose l’una dell’altra…
    Egli allora, per equità, si metteva a coprirla di baci rapidi e fitti, trascorrendo tutto il bel corpo, non lasciando intatto alcun minimo spazio, non allentando la sua opera mai. Ella rideva, felice, sentendosi cingere come d’una veste invisibile; rideva e gemeva, folle, sentendo la furia di lui imperversare; rideva e piangeva, perduta, non potendo più reggere al divorante ardore. Poi, con uno sforzo repentino, faceva prigione il collo di lui fra le sue braccia, l’allacciava con i suoi capelli, lo teneva, tutto palpitante, simile a una preda. Egli, stanco, era contento di cedere e di rimaner così presto in quei vincoli. Guardandolo, ella esclamava:
  • Come sei giovine! Come sei giovine!
    La giovinezza in lui, contro tutte le corruzioni, contro tutte le dispersioni, resisteva, persisteva, a somiglianza d’un metallo inalterabile, d’un aroma indistruttibile. Lo splendor sincero della giovinezza era, appunto, la qualità sua più preziosa. Alla gran fiamma della passione, quanto in lui era più falso, più tristo, più arteficiato, più vano, si consumava come un rogo. Dopo la resoluzion delle forze, prodotta dall’abuso dell’analisi a dall’azion separata di tutte le sfere interiori, egli tornava ora all’unità delle forze, dell’azione, della vita; riconquistava la confidenza e la spontaneità; amava e godeva giovenilmente. Certi suoi abbandoni parevano d’un fanciullo inconsapevole; certe sue fantasie erano piene di grazia, di freschezza e di ardire.
  • Qualche volta – gli diceva Elena – la mia tenerezza per te si fa più delicata di quella d’un amante. Io non so… Diventa quasi materna.
    Andrea rideva, perché ella era maggiore appena di tre anni.
  • Qualche volta – egli diceva a lei – la comunione del mio spirito col tuo mi par così casta ch’io ti chiamerei sorella, baciandoti le mani.
    Queste fallaci purificazioni ed elevazioni del sentimento avvenivano sempre nei languidi intervalli del piacere, quando sul riposo della carne l’anima provava un bisogno vago d’idealità. Allora, anche, risorgevano nel giovine le idealità dell’arte ch’egli amava; e gli tumultuavano nell’intelletto tutte le forme un tempo create e contemplate, chiedendo di uscire; e le parole del monologo goethiano l’incitavano. « Che può sotto i tuoi occhi l’accesa natura? Che può la forma dell’arte intorno a te, se la passionata forza creatrice non t’empie l’anima e non affluisce alla punta delle tue dita, incessantemente, per riprodurre? » Il pensiero di dar gioia all’amante, con un verso numeroso o con una linea nobile, lo spinse all’opera. Egli scrisse La Simona; e fece le due acqueforti, dello Zodiaco e della Tazza d’Alessandro.
    Eleggeva, nell’esercizio dell’arte, gli strumenti difficili, esatti, perfetti, incorruttibili: la metrica e l’incisione; e intendeva proseguire e rinnovare le forme tradizionali italiane, con severità, riallacciandosi ai poeti dello stil novo e ai pittori che precorrono il Rinascimento. Il suo spirito era essenzialmente formale. Più che il pensiero, amava l’espressione. I suoi saggi letterarii erano esercizii, giuochi, studii, ricerche, esperimenti tecnici, curiosità. Egli pensava, con Enrico Taine, fosse più difficile compor sei versi belli che vincere una battaglia in campo. La sua Favola d’Ermafrodito imitava nella struttura la Favola di Orfeo del Poliziano; ed aveva strofe di straordinaria squisitezza, potenza e musicalità specialmente nei cori cantati da mostri di duplice natura: dai Centauri, dalle Sirene e dalle Sfingi. Questa sua nuova tragedia, La Simona, di breve misura, aveva un sapor singolarissimo. Sebbene rimata negli antichi modi toscani, pareva immaginata da un poeta inglese del secolo scorso d’Elisabetta, sopra una novella del Decamerone; chiudeva in sé qualche parte del dolce e strano incanto che c’è in certi drammi minori di Guglielmo Shakespeare.
    Il poeta segnò così la sua opera, nel frontespizio dell’Esemplare Unico: A. S. CALCOGRAPHUS AQUA FORTI SIBI TIBI FECIT.
    Il rame l’attraeva più della carta; l’acido nitrico, più dell’inchiostro; il bulino, più della penna. Già uno de’ suoi maggiori, Giusto Sperelli, aveva esperimentata l’incisione. Alcune stampe di lui, eseguite intorno l’anno 1520, rivelavano manifestamente l’influenza di Antonio Pollajuolo, per la profondità e quasi direi acerbità del segno. Andrea praticava la maniera rembrandtesca a tratti liberi e la maniera nera prediletta dagli acquafortisti inglesi della scuola del Green, del Dixon, dell’Earlom. Egli aveva formata la sua educazione su tutti gli esemplari, aveva studiata partitamente la ricerca di ciascuno intagliatore, aveva imparato da Alberto Durero e dal Parmigiano, da Marc’Antonio e dall’Holbein, da Annibale Caracci e dal Marc-Ardell, da Guido e dal Callotta, dal Toschi e da Gerardo Audran; ma l’intendimento suo, d’innanzi al rame, era questo: rischiarare con gli effetti di luce del Rembrandt le eleganze di disegno de’ Quattrocentisti fiorentini appartenenti alla seconda generazione come Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandajo e Filippino Lippi.
    I due rami recenti rappresentavano, in due episodii d’amore, due attitudini della bellezza d’Elena Muti; e prendevano il titolo dagli accessorii.
    Tra le cose più preziose possedute da Andrea Sperelli era una coperta di seta fina, d’un colore azzurro disfatto, intorno a cui giravano i dodici segni dello Zodiaco in ricamo, con le denominazioni Aries, Taurus, Gemini, Cancer, Leo, Virgo, Libra, Scorpius, Arcitenens, Caper, Amphora, Pisces a caratteri gotici. Il Sole trapunto d’oro occupava il centro del cerchio; le figure degli animali, disegnate con uno stile un po’ arcaico che ricordava quello de’ musaici, aveva uno splendore straordinario; tutta quanta la stoffa pareva degna d’ammantare un talamo imperiale. Essa, infatti, proveniva dal corredo di Bianca Maria Sforza, nipote di Ludovico il Moro; la quale andò in sposa all’imperator Massimiliano.
    La nudità di Elena non poteva, in verità, avere una più ricca ammantatura. Talvolta, mentre Andrea stava nell’altra stanza, ella si svestiva in furia, si distendeva nel letto, sotto la coperta mirabile; e chiamava forte l’amante. Ed a lui che accorreva ella dava imagine d’una divinità avvolta in una zona di firmamento. Anche, talvolta, volendo andare innanzi al camino, ella levavasi dal letto traendo seco la coperta. Freddolosa, si stringeva addosso la seta, con ambo le braccia; e camminava a piedi nudi, con passi brevi, per non implicarsi nelle pieghe abbondanti. Il Sole splendevale su la schiena, a traverso i capelli disciolti; lo Scorpione le prendeva una mammella; un gran lembo zodiacale strisciava dietro di lei, sul tappeto, trasportando le rose, s’ella le aveva già sparse.
    L’acquaforte rappresentava appunto Elena dormente sotto i segni celesti. La forma muliebre appariva secondata dalle pieghe della stoffa, col capo abbandonato un poco fuor della proda del letto, con i capelli pioventi fino a terra, con un braccio pendulo e l’altro posato lungo il fianco. Le parti non nascoste, ossia la faccia, il sommo del petto e le braccia erano luminosissime; e il bulino aveva reso con molta potenza lo scintillio dei ricami nella mezz’ombra e il mistero dei simboli. Un alto levriere bianco, Famulus, fratel di quello che posa la testa su le ginocchia della contessa d’Arundel nel quadro di Pietro Paolo Rubens, tendeva il collo verso la signora, guatando, fermo su le quattro zampe, disegnato con una felice arditezza di scorcio. Il fondo della stanza era opulento e oscuro.
    L’altra acquaforte riferivasi al gran bacino d’argento che Elena Muti aveva ereditato da sua zia Flaminia.
    Questo bacino era storico: e si chiamava la Tazza d’Alessandro. Fu donato alla principessa di Bisenti da Cesare Borgia prima ch’ei partisse per la terra di Francia a portare la bolla di divorzio e le dispense di matrimonio a Luigi XII; e doveva esser compreso fra le salmerie favolose che il Valentino portò seco nel suo ingresso a Chinon descritto dal signor di Brantôme. Il disegno delle figure che giravano a torno e di quelle che sorgevano dal margine delle due estremità era attribuito al Sanzio.
    La tazza si chiamava di Alessandro perché fu composta in memoria di quella prodigiosa a cui nei vasti conviti soleva prodigiosamente bere il Macedone. Stuoli di Sagittarii giravano intorno ai fianchi del vaso, con tesi gli archi, tumultuando, nelle attitudini mirabili di quelli i quali Raffaello dipinse ignudi saettanti contro l’Erma nel fresco che sta nella sala borghesiana ornata da Giovan Francesco Bolognesi. Inseguivano una gran Chimera che sorgeva su dall’orlo, come un’ansa, alla estremità del vaso, mentre dalla parte opposta balzava il giovine sagittario Bellerofonte con l’arco teso contro il mostro nato di Tifone. Gli ornamenti della base e dell’orlo erano d’una rara leggiadria. L’interno era dorato, come quel d’un ciborio. Il metallo era sonoro come uno strumento. Il peso era di trecento libbre. La forma tutta quanta era armoniosa.
    Spesso, per capriccio, Elena Muti prendeva in quella tazza il suo bagno mattutino. Ella vi si poteva bene immergere, se non distendere, con tutta la persona; e nulla, in verità, eguagliava la suprema grazia di quel corpo raccolto nell’acqua che la doratura tingeva d’un indescrivibile tenuità di riflessi, poiché il metallo non era argento ancóra e l’oro moriva.
    Invaghito di tre forme diversamente eleganti, cioè della donna, della tazza, e del veltro, l’acquafortista trovò una composizione di linee bellissima. La donna, ignuda, in piedi, entro il bacino, appoggiandosi con una mano su la sporgenza della Chimera e con l’altra su quella di Bellerofonte, protendevasi innanzi ad irridere il cane che, piegato in arco su le zampe anteriori abbassate e su le posteriori diritte, a simiglianza di un felino quando spicca il salto, ergeva verso di lei il muso lungo e sottile come quel d’un luccio, argutamente.
    Non mai Andrea Sperelli aveva con più ardore goduta e sofferta l’intenta ansietà dell’artefice in vigilare l’azion dell’acido cieca e irreparabile; non mai aveva con più ardore acuita la pazienza nella sottilissima opera della punta secca su le asprezze dei passaggi. Egli era nato, in verità, calcografo, come Luca d’Olanda. Possedeva una scienza mirabile (ch’era forse un raro senso) di tutte le minime particolarità di tempo e di grado le quali concorrono a infinitamente variare sul rame l’efficacia dell’acqua forte. Non la pratica, non la diligenza, non la intelligenza soltanto, ma specie quel natio senso quasi infallibile l’avvertiva del momento giusto, dell’attimo puntuale, in cui la corrosione giungeva a dare tal preciso valor d’ombra che nell’intenzion dell’artefice doveva avere la stampa. E nel padroneggiar così spiritualmente quell’energia bruta e quasi direi nell’infonderle uno spirito d’arte e nel sentir non so che occulta rispondenza di misura tra il battere del polso e il progressivo mordere dell’acido, era il suo inebriante orgoglio, la sua tormentosa gioia.
    Pareva ad Elena esser deificata dall’amante, come l’Isotta riminese nelle indistruttibili medaglie che Sigismondo Malatesta fece coniare in gloria di lei.
    Ma ella, ne’ giorni appunto in cui Andrea attendeva all’opera, diveniva triste e taciturna e sospirosa, quasi l’occupasse un’interna angoscia. Aveva, d’improvviso, effusioni di tenerezza così struggenti, miste di lacrime e di singhiozzi mal frenati, che il giovine rimaneva attonito, in sospetto, senza comprendere.
    Una sera, tornavano a cavallo, dall’Abentino, giù per la via di Santa Sabina, avendo ancóra negli occhi la gran visione dei palazzi imperiali incendiati dal tramonto, rossi di fiamma tra i cipressi nerastri che penetrava una polvere d’oro. Cavalcavano in silenzio, poiché la tristezza di Elena erasi comunicata all’amante. D’innanzi a Santa Sabina, questi fermò il baio, dicendo:
  • Ti ricordi?
    Alcune galline, che beccavano in pace tra i ciuffi d’erba, si dispersero ai latrati di Famulus. Lo spiazzo, invaso dalle gramigne, era tranquillo e modesto come il sagrato d’un villaggio; ma i muri avevano quella luminosità singolare che riflettesi dagli edifizi di Roma « nell’ora di Tiziano »,
    Elena anche sostò.
  • Come pare lontano, quel giorno! – disse, con un po’ di tremito nella voce.
    Infatti, quella memoria si perdeva nel tempo indefinitamente, quasi che il loro amore durasse da molti mesi, da molti anni. Le parole di Elena avevano suscitato nell’animo di Andrea la strana illusione e, insieme, una inquietudine. Elena si mise a ricordare tutte le particolarità di quella visita, fatta in un pomeriggio di gennaio, sotto un sole primaverile. Si diffondeva nelle minuzie, insistendo; e di tratto in tratto interrompevasi come chi segua, oltre le sue parole, un pensiero non espresso. Andrea credé sentire nella voce di lei il rimpianto. – Che rimpiangeva ella mai? Il loro amore non vedeva d’innanzi a sé giorni anche più dolci? La primavera non teneva già Roma? – Egli, perplesso, quasi non l’ascoltava più. I cavalli scendevano, al passo, l’uno a fianco dell’altro, talvolta respirando forte dalle froge o accostando i musi come per confidarsi un secreto. Famulus andava su e giù, in perpetua corsa.
  • Ti ricordi – seguitava Elena – ti ricordi di quel frate che ci venne ad aprire, quando sonammo la campanella?
  • Sì, sì…
  • Come ci guardò stupefatto! Era piccolo piccolo, senza barba, tutto rugoso. Ci lasciò soli nell’atrio, per andare a prendere le chiavi della chiesa; e tu mi baciasti. Ti ricordi?
  • Sì.
  • E tutti quei barili, nell’atrio! E quell’odore di vino, mentre il frate ci spiegava le storie intagliate nella porta di cipresso! E poi, la Madonna del Rosario! Ti ricordi? La spiegazione ti fece ridere; e io sentendoti ridere, non potei frenarmi; e ridemmo tanto innanzi a quel poveretto che si confuse e non aprì più bocca neanche all’ultimo per dirti grazie…
    Dopo un intervallo, ella riprese:
  • E a Sant’Alessio, quando tu non volevi lasciarmi vedere la cupola pel buco della serratura! Come ridemmo, anche là!
    Tacque, di nuovo. Veniva su per la strada una compagnia d’uomini con una bara, seguitata da una carrozza pubblica, piena di parenti che piangevano. Il morto andava al cimitero degli Israeliti. Era un funerale muto e freddo. Tutti quegli uomini, dal naso adunco e dagli occhi rapaci, si somigliavano tra loro come consanguinei.
    Affinché la compagnia passasse, i due cavalli si divisero, prendendo ciascuno un lato, rasente il muro; e gli amanti si guardarono, al di sopra del morto, sentendosi crescere la tristezza.
    Quando si riaccostarono, Andrea domandò:
  • Ma tu che hai? A che pensi?
    Ella esitò, prima di rispondere. Teneva gli occhi abbassati sul collo dell’animale, accarezzandolo col pomo del frustino, irresoluta e pallida.
  • A che pensi? – ripeté il giovine.
  • Ebbene, te lo dirò. Io parto mercoledì, non so per quanto tempo; forse per molto, per sempre; non so… Quest’amore si rompe, per colpa mia; ma non mi chiedere come, non mi chiedere perché, non mi chiedere nulla: ti prego! Non potrei risponderti.
    Andrea la guardò, quasi incredulo. La cosa gli pareva così impossibile che non gli fece dolore.
  • Tu dici per gioco; è vero Elena?
    Ella scosse la testa, negando, poiché le si era chiusa la gola; e subitamente spinse al trotto il cavallo. Dietro di loro, le campane di Santa Sabina e di Santa Prisca cominciarono a suonare, nel crepuscolo. Essi trottavano in silenzio, suscitando gli echi sotto gli archi, sotto i templi, nelle ruine solitarie e vacue. Lasciarono a sinistra San Giorgio in Velabro che aveva ancóra un bagliore vermiglio su i mattoni del campanile, come nel giorno della felicità. Costeggiarono il Fòro romano, il Fòro di Nerva, già occupati da un’ombra azzurrognola, simile a quella de’ ghiacciai nella notte. Si fermarono all’Arco dei Pantani, dove li attendevano gli staffieri e le carrozze.
    Appena fuor di sella, Elena tese la mano ad Andrea, evitando di guardarlo negli occhi. Pareva ch’ella avesse gran fretta di allontanarsi.
  • Ebbene? – le chiese Andrea, aiutandola a montar nel legno.
  • A domani. Stasera, no.

mercoledì 30 giugno 2021

Il Piacere. Libro Primo [3]

 Così ebbe principio l’avventura di Andrea Sperelli con Donna Elena Muti.

Il giorno dopo, le sale delle vendite publiche, in via Sistina, erano piene di gente elegante, venuta per assistere all’annunziata contesa.
Pioveva forte. In quelle stanze umide e basse entrava una luce grigia; lungo le pareti erano disposti in ordine alcuni mobili di legno scolpito e alcuni grandi trittici e dittici della scuola toscana del XIV secolo; quattro arazzi fiamminghi, rappresentanti la Storia di Narcisso, pendevano fino a terra; le maioliche metaurensi occupavano due lunghi scaffali; le stoffe, per lo più ecclesiastiche, stavano o spiegate su le sedie o ammucchiate su i tavoli; i cimeli più rari, gli avorii, gli smalti, i vetri, le gemme incise, le medaglie, le monete, i libri di preghiere, i codici miniati, gli argenti lavorati erano raccolti entro un’alta vetrina, dietro il banco dei periti; un odor singolare, prodotto dall’umidità del luogo e da quelle cose antiche, empiva l’aria.
Quando Andrea Sperelli entrò, accompagnando la principessa di Ferentino, ebbe un segreto tremito. Pensò: « Sarà già venuta? » E i suoi occhi rapidamente la cercarono.
Ella era già venuta, infatti. Sedeva innanzi al banco, tra il cavaliere Dàvila e Don Filippo del Monte. Aveva posato su l’orlo del banco i guanti e il manicotto di lontra da cui usciva fuori un mazzo di violette. Teneva tra le dita un quadretto d’argento, attribuito a Caradosso Foppa; e l’osservava con molta attenzione. Gli oggetti passavano di mano in mano, lungo il banco; il perito ne faceva le lodi ad alta voce; le persone in piedi, dietro la fila delle sedie, si chinavano per guardare; quindi incominciava l’incanto. Le cifre si seguivano rapidamente. Ad ogni tratto, il perito gridava:

  • Si delibera! Si delibera!
    Qualche amatore, incitato dal grido, gittava una più alta cifra, guardando gli avversarii. Il perito gridava, con alzato il martello:
  • Uno! Due! Tre!
    E percoteva il banco. L’oggetto apparteneva all’ultimo offerente. Un mormorio si propagava intorno; poi di nuovo accendevasi la gara. Il cavaliere Dàvila, un gentiluomo napoletano che aveva le forme gigantesche e maniere quasi feminee, celebre raccoglitore e conoscitor di maioliche, dava il suo giudizio su ciascun pezzo importante. Tre, veramente, in quella vendita cardinalizia, eran le cose « superiori »: la Storia di Narcisso, la tazza di cristallo di ròcca, e un elmo d’argento cesellato da Antonio del Pollajuolo, che la Signoria di Firenze donò al conte d’Urbino nel 1472, in ricompensa de’ servigi da lui resi nel tempo della presa di Volterra.
  • Ecco la principessa – disse Don Filippo del Monte alla Muti.
    La Muti si levò per salutare l’amica.
  • Di già sul campo! – esclamò la Ferentino.
  • Di già.
  • E Francesca?
  • Non è ancor giunta.
    Quattro o cinque eleganti signori, il duca di Grimiti, Roberto Casteldieri, Ludovico Barbarisi, Giannetto Rùtolo, si appressarono. Altri sopravvenivano. Lo scroscio della pioggia copriva le parole.
    Donna Elena porse la mano allo Sperelli, francamente, come ad ognuno. Egli si sentì, da quella stretta di mano, allontanare. Elena gli parve fredda e grave. Tutti i suoi sogni s’agghiacciarono e precipitarono, in un attimo; i ricordi della sera innanzi si confusero; le speranze si estinsero. Che aveva ella? Non era più la donna medesima. Vestiva una specie di lunga tunica di lontra e portava sul capo una specie di tòcco, anche di lontra. Aveva nell’espressione del volto qualche cosa di aspro e quasi di sprezzante.
  • C’è ancóra tempo, alla tazza – ella disse alla principessa; e si rimise a sedere.
    Ogni oggetto passava per le sue mani. Un Centauro intagliato in un sardonio, opera assai fina, forse proveniente dal disperso museo di Lorenzo il Magnifico, la tentò. Ed ella prese parte alla gara. Comunicava la sua offerta al perito, a voce bassa, senza levare gli occhi su di lui. A un certo punto, i competitori si arrestarono; ella ottenne la pietra, a buon prezzo.
  • Acquisto eccellente – disse Andrea Sperelli, che stava in piedi, dietro la sedia di lei.
    Elena non poté trattenere un lieve sussulto. Prese il sardonio e lo diede a vedere, levando la mano all’altezza della spalla, senza voltarsi. Era veramente un’assai bella cosa.
  • Potrebbe essere il Centauro che Donatello copiò – soggiunse Andrea.
    E nell’animo di lui, insieme con l’ammirazione per la cosa bella, sorse l’ammirazione per il nobile gusto della dama che ora la possedeva. « Ella è dunque, in tutto, una eletta » pensò. « Quali piaceri può dare ella a un amante raffinato! » Colei s’ingrandiva, nella sua imaginazione; ma, ingrandendosi, sfuggivagli. La gran sicurezza della sera innanzi mutavasi in una specie di scoraggiamento; e i dubbii primitivi risorgevano. Egli aveva troppo sognato, nella notte, a occhi aperti, nuotando in una felicità senza fine, mentre il ricordo d’un gesto, d’un sorriso, d’un’aria della testa, d’una piega del vestito lo prendeva e l’allacciava, come una rete. Ora, tutto quel mondo imaginario crollava miseramente al contatto della realtà. Egli non aveva visto negli occhi di Elena il singolar saluto a cui aveva tanto pensato; egli non era stato distinto da lei, in mezzo agli altri, con nessun segno. « Perché? » Si sentiva umiliato. Tutta quella gente fatua, d’intorno, gli faceva ira; gli facevano ira quelle cose che attraevan l’attenzione di lei; gli faceva ira Don Filippo del Monte che di tratto in tratto chinavasi verso di lei per mormorarle forse qualche malignità. Sopravvenne l’Ateleta. La quale era, come sempre, allegra. Il suo riso, tra i signori che già l’attorniavano, fece volgere vivamente Don Filippo.
  • La Trinità è perfetta – egli disse, e si levò.
    Andrea occupò sùbito la sedia, accanto alla Muti. Come gli giunse alle nari il profumo sottile delle viole, mormorò:
  • Non sono quelle di ieri sera.
  • No – fece Elena, freddamente.
    Nella sua mobilità, ondeggiante e carezzante come l’onda, c’era sempre la minaccia del gelo inaspettato. Ella era soggetta a rigidità subitanee. Andrea tacque, non comprendendo.
  • Si delibera! Si delibera! gridava il perito.
    Le cifre salivano. La gara era ardente intorno l’elmo d’Antonio del Pollajuolo. Anche il cavalier Dàvila entrava in lizza. Pareva che a poco a poco l’aria si riscaldasse e che il desiderio di quelle cose belle e rare prendesse tutti gli spiriti. La mania si propagava, come un contagio. In quell’anno, a Roma, l’amore del bibelot e del bric-à-brac era giunto all’eccesso; tutti i saloni della nobiltà e dell’alta borghesia erano ingombri di « curiosità »; ciascuna dama tagliava i cuscini del suo divano in una pianeta o in un piviale e metteva le sue rose in un vaso di farmacia umbro o in una coppa di calcedonio. I luoghi delle vendite publiche erano un ritrovo preferito; e le vendite erano frequentissime. Nelle ore pomeridiane del tè le signore, per eleganza, giungevano dicendo: « Vengo dalla vendita del pittore Campos. Molta animazione. Magnifici i piatti arabo-ispani! Ho preso un gioiello di Maria Leczinska. Eccolo. »
  • Si delibera!
    Le cifre salivano. Intorno al banco si accalcavano gli amatori. La gente elegante si dava ai bei parlari, fra le Natività e le Annunciazioni giottesche. Le signore, fra quell’odore di muffa e di anticaglie, portavano il profumo delle loro pellicce e segnatamente quello delle violette, poiché tutti i manicotti contenevano un mazzolino secondo la moda leggiadra. Per la presenza di tante persone, un tepore dilettoso diffondevasi nell’aria, come in una umida cappella dove fossero molti fedeli. La pioggia seguitava a crosciar di fuori e la luce a diminuire. Furono accese le fiammelle del gas; e i due diversi chiarori lottavano.
  • Uno! Due! Tre!
    Il colpo di martello diede il possesso dell’elmo fiorentino a Lord Humphrey Heathfield. L’incanto ricominciò di nuovo su piccoli oggetti, che passavano lungo il banco, di mano in mano. Elena li prendeva delicatamente, li osservava e li posava quindi innanzi ad Andrea, senza dir nulla. Erano smalti, avorii, orologi del XVIII secolo, gioielli d’oreficeria milanese del tempo di Ludovico il Moro, libri di preghiere scritti a lettere d’oro su pergamena colorita d’azzurro. Tra le dita ducali quelle preziose materie parevano acquistar pregio. Le piccole mani avevano talvolta un leggero tremito al contatto delle cose più desiderabili. Andrea guardava intensamente; e nella sua imaginazione egli trasmutava in una carezza ciascun moto di quelle mani. « Ma perché Elena posava ogni oggetto sul banco, invece di porgerlo a lui? »
    Egli prevenne il gesto di Elena, tendendo la mano. E da allora in poi gli avorii, gli smalti, i gioielli passarono dalle dita dell’amata in quelle dell’amante, comunicando un indefinibile diletto. Pareva ch’entrasse in loro una particella dell’amoroso fascino di quella donna, come entra nel ferro un poco della virtù d’una calamita. Era veramente una sensazione magnetica di diletto, una di quelle sensazioni acute e profonde che si provan quasi soltanto negli inizii di un amore e che non paiono avere né una sede fisica né una sede spirituale, a simiglianza di tutte le altre, ma sì bene una sede in un elemento neutro del nostro essere, in un elemento quasi direi intermedio, di natura ignota, men semplice d’uno spirito, più sottile d’una forma, ove la passione si raccoglie come in un ricettacolo, onde la passione s’irradia come da un focolare.
    « E’ un piacere non mai provato » pensò Andrea Sperelli anche una volta.
    L’invadeva un leggero torpore e a poco a poco lo abbandonava la conscienza del luogo e del tempo.
  • Vi consiglio questo orologio – gli disse Elena, con uno sguardo di cui egli da prima non comprese la significazione.
    Era una piccola testa di morto scolpita nell’avorio con una straordinaria potenza d’imitazione anatomica. Ciascuna mascella portava una fila di diamanti, e due rubini scintillavano in fondo alle occhiaie. Su la fronte era inciso un motto: RUIT HORA; su l’occipite un altro motto: TIBI, HIPPOLYTA. Il cranio si apriva, come una scatola, sebbene la commessura fosse quasi invisibile. L’interior battito del congegno dava a quel teschietto una inesprimibile apparenza di vita. Quel gioiello mortuario, offerta d’un artefice misterioso alla sua donna, aveva dovuto segnar le ore dell’ebrezza e col suo simbolo ammonire gli spiriti amanti.
    In verità, non poteva il Piacere desiderare un più squisito e più incitante misurator del tempo. Andrea pensò: « Me lo consiglia ella per noi? » E a quel pensiero tutte le speranze rinacquero e risorsero di tra l’incertezza, confusamente. Egli si gittò nella gara, con una specie d’entusiasmo. Gli rispondevano due o tre competitori accaniti, tra cui Giannetto Rùtolo che, avendo per amante Donna Ippolita Albónico, era attratto dall’iscrizione: TIBI, HIPPOLYTA.
    Dopo poco, rimasero soli a contendere, il Rùtolo e lo Sperelli. Le cifre salivano oltre il prezzo reale dell’oggetto, mentre i periti sorridevano. A un certo punto, Giannetto Rùtolo non rispose più, vinto dalla ostinazione dell’avversario.
  • Si delibera! Si delibera!
    L’amante di Donna Ippolita, un poco pallido, gridò un’ultima cifra. Lo Sperelli aumentò. Ci fu un momento di silenzio. Il perito guardava i due competitori; quindi levò il martello, con lentezza, sempre guardando.
  • Uno! Due! Tre!
    La testa di morto rimase al conte d’Ugenta. Un mormorio si diffuse per la sala. Uno sprazzo di luce entrò per la vetrata e fece splendere i fondi aurei dei trittici, avvivò la fronte dolente d’una madonna senese e il cappellino grigio della principessa di Ferentino, coperto di scaglie d’acciaio.
  • Quando la tazza? – chiese la principessa con impazienza.
    Gli amici guardarono i cataloghi. Non c’era più speranza che la tazza del bizzarro umanista fiorentino andasse all’incanto in quel giorno. Per la molta concorrenza, la vendita procedeva lentamente. Rimaneva ancóra un lungo elenco d’oggetti minuti, come cammei, monete, medaglie. Alcuni antiquarii e il principe Stroganow si disputavano ogni pezzo. Tutti gli aspettanti ebbero una disillusione. La duchessa di Scerni si levò per andarsene.
  • Addio, Sperelli – disse. – A questa sera, forse.
  • Perché dite « forse »?
  • Mi sento tanto male.
  • Che avete mai?
    Ella, senza rispondere, si volse agli altri salutando. Ma gli altri seguivano il suo esempio; escivano insieme. I giovini signori motteggiavano intorno il mancato spettacolo. La marchesa d’Ateleta rideva, ma la Ferentino pareva di pessimo umore. I servi che aspettavano nel corridoio, facevano avanzar le carrozze, come alla porta d’un teatro o d’una sala di concerti.
  • Non vieni dalla Miano? – domandò l’Ateleta ad Elena.
  • No; torno a casa.
    Ella aspettò, su l’orlo del marciapiede, che il suo coupé s’avanzasse. La pioggia si disperdeva; tra larghe nuvole bianche scorgevasi qualche intervallo d’azzurro; una zona di raggi faceva luccicare il lastrico. E la signora, investita da quel chiaror tra biondo e roseo, nel mantello magnifico che scendeva con poche pieghe diritte e quasi simmetriche, era bellissima. Il sogno medesimo della sera innanzi sorse nello spirito d’Andrea, quando egli intravide l’interno del coupé tappezzato di raso come un boudoir, dove luccicavano il cilindro d’argento pieno d’acqua calda destinato a tenere tiepidi i piccoli piedi ducali. « Essere là, con lei, in quella intimità così raccolta, in quel tepore fatto dal suo alito, nel profumo delle violette appassite, intravedendo appena da’ cristalli appannati le vie coperte di fango, le case grige, la gente oscura! »
    Ma ella inchinò lievemente il capo allo sportello, senza sorridere; e la carrozza partì, verso il palazzo Barberini, lasciandogli nell’anima una vaga tristezza, uno scoramento indefinito. – Ella aveva detto « forse ». Poteva dunque non venire al palazzo Farnese. E allora?
    Questo dubbio l’affliggeva. Il pensiero di non rivederla gli era insopportabile: tutte le ore passate lontano da lei già gli pesavano. Egli chiedeva a sé stesso: « L’amo io dunque già tanto? » Il suo spirito pareva chiuso in un cerchio, entro cui turbinavano confusamente tutti i fantasmi delle sensazioni avute nella presenza di quella donna. D’un tratto, emergevano dalla sua memoria, con una singolare esattezza, una frase di lei, una intonazione di voce, un’attitudine, un movimento degli occhi, la forma d’un divano sul quale ella sedeva, il Finale della Sonata del Beethoven, una nota di Mary Dyce, la figura del servo che stava allo sportello, una qualunque particolarità, un qualunque frammento, ed oscuravano con la vivezza della loro imagine le cose della esistenza in corso, si sovrapponevano alle cose presenti. Egli le parlava, mentalmente; le diceva, mentalmente, tutto quello che poi le avrebbe detto in realtà, ne’ futuri colloqui. Prevedeva le scene, i casi, le vicende, tutto lo svolgimento dell’amore, secondo le suggestioni del suo desiderio. – In che modo si sarebbe ella data a lui, la prima volta?
    Mentre saliva le scale del palazzo Zuccari, per rientrare nel suo appartamento, gli balenava questo pensiero. – Ella, certo, sarebbe venuta là. La via Sistina, la via Gregoriana, la piazza della Trinità de’ Monti, specialmente in certe ore, erano quasi deserte. La casa non era abitata che da stranieri. Ella avrebbe dunque potuto avventurarsi senza timori. Ma come attirarla? – La sua impazienza era tanta ch’egli avrebbe voluto poter dire: « Verrà domani! »
    « Ella è libera » pensò. « Non la tiene la vigilanza d’un marito. Nessuno può chiederle conto delle assenze anche lunghe, anche insolite. Ella è padrona d’ogni suo atto, sempre. » Gli si presentarono allo spirito, subitamente, interi giorni e intere notti di voluttà, Si guardò intorno, nella stanza calda, profonda, segreta; e quel lusso intenso e raffinato, tutto fatto di arte, gli piacque, per lei. Quell’aria aspettava il suo respiro; quei tappeti chiedevano d’essere premuti dal suo piede; quei cuscini volevano l’impronta del suo corpo.
    « Ella amerà la mia casa » pensò. « Amerà le cose ch’io amo. » Il pensiero gli dava una indicibile dolcezza; e gli pareva che già un’anima nuova, consapevole della imminente gioia, palpitasse sotto gli alti soffitti.
    Chiese il tè al servo; e s’adagiò d’innanzi al caminetto, per meglio godere le finzioni della sua speranza. Trasse dall’astuccio il piccolo teschio gemmato e si mise ad esaminarlo attentamente. Al chiaror del fuoco l’esile dentatura adamantina brillava su l’avorio giallastro e i due rubini illuminavano l’ombra delle occhiaie. Sotto il cranio polito risonava il battito incessante del tempo. – RUIT HORA. – Quale artefice mai poteva avere avuta per una sua Ippolita quella superba e libera fantasia di morte, nel secolo in cui i maestri smaltisti ornavan di teneri idillii pastorali gli orioletti destinati a segnar pe’ cicisbei l’ora de’ ritrovi ne’ parchi del Watteau? La scoltura rivelava una mano dotta, vigorosa, padrona d’uno stile proprio: era in tutto degna d’un quattrocentista penetrante come il Verrocchio.
    « Vi consiglio questo orologio. » Andrea sorrideva un poco, ricordando le parole di Elena pronunziate in un modo così strano, dopo un così freddo silenzio. – Senza dubbio, dicendomi quella frase, ella pensava all’amore: ella pensava ai prossimi convegni d’amore, senza dubbio. Ma perché poi, di nuovo, era diventata impenetrabile? Perché non s’era curata più di lui? Che aveva ella? – Andrea si smarrì nell’indagine. Però l’aria calda, la mollezza della poltrona, la luce discreta, le variazioni del fuoco, l’aroma del tè, tutte quelle sensazioni grate ricondussero il suo spirito agli errori dilettosi. Egli andava errando senza mèta, come in un fantastico labirinto. In lui il pensiero assumeva talvolta la virtù dell’oppio: poteva inebriarlo.
  • Mi permetto di ricordare al signor conte che per le sette è atteso in casa Doria – disse a voce bassa il servo, che aveva anche l’ufficio di rammentatore. – Tutto è preparato.
    Egli andò a vestirsi, nella camera ottagonale ch’era, in verità, il più elegante e comodo spogliatoio desiderabile per un giovine signore moderno. Vestendosi, aveva una infinità di minute cure della sua persona. Sopra un gran sarcofago romano, trasformato con molto gusto in una tavola per abbigliamento, erano disposti in ordine i fazzoletti di batista, i guanti da ballo, i portafogli, gli astucci delle sigarette, le fiale delle essenze, e cinque o sei gardenie fresche in piccoli vasi di porcellana azzurra. Egli scelse un fazzoletto con le cifre bianche e ci versò due o tre gocce di pao rosa; non prese alcuna gardenia perché l’avrebbe trovata alla mensa di casa Doria; empì di sigarette russe un astuccio d’oro martellato, sottilissimo, ornato d’uno zaffiro su la sporgenza della molla, un po’ curvo per aderire alla coscia nella tasca de’ calzoni. Quindi uscì.
    In casa Doria, tra un discorso e l’altro, la duchessa Angelieri, a proposito del recente parto della Miano, disse:
  • Pare che Laura Miano e la Muti sieno in rotta.
  • Forse per Giorgio? – chiese un’altra dama, ridendo.
  • Si dice. E’ una storia incominciata a Lucerna, quest’estate…
  • Ma Laura non era a Lucerna.
  • Appunto. C’era suo marito…
  • Credo che sia una malignità; null’altro – interruppe la contessa fiorentina, Donna Bianca Dolcebuono. – Giorgio è ora a Parigi.
    Andrea aveva udito, sebbene al suo lato destro la loquace contessa Starnina l’occupasse di continuo. Le parole della Dolcebuono non bastavano a lenirgli la puntura acutissima. Egli avrebbe voluto, almeno, sapere fino in fondo. Ma l’Angelieri rinunziava a seguitare; e altre conversazioni si mescolavano fra i trionfi delle magne rose di Villa Pamphily.
    « Chi era questo Giorgio? Forse l’ultimo amante di Elena? Ella aveva passata una parte dell’estate a Lucerna. Ella veniva di Parigi. Ella, nell’uscire dalla vendita, erasi rifiutata di andare in casa Miano. » Nell’animo di Andrea le apparenze erano contro di lei tutte. Un desiderio atroce l’invase, di rivederla, di parlarle. L’invito al palazzo Farnese era per le dieci; alle dieci e mezzo egli si trovava già là, aspettando.
    Aspettò molto. Le sale si empivano rapidamente; le danze incominciavano: nella galleria d’Annibale Caracci le semiddie quiriti lottavan di formosità con le Ariadne, con le Galatee, con le Aurore, con le Diane degli affreschi; le coppie turbinando esalavano profumi: le mani inguantate delle dame premevano la spalla dei cavalieri; le teste ingemmate si curvavano o si ergevano; certe bocche semiaperte brillavano come la porpora; certe spalle nude luccicavano sparse d’un velo d’umidore; certi seni parevano irrompere dal busto, sotto la veemenza dell’ansia.
  • Non ballate, Sperelli? – chiese Gabriella Barbarisi, una fanciulla bruna come l’oliva speciosa, mentre passava a braccio d’un danzatore, agitando con la mano il ventaglio e col sorriso un neo ch’ella aveva in una fossetta presso la bocca.
  • Sì, più tardi – rispose Andrea. – Più tardi.
    Incurante delle presentazioni e dei saluti, egli sentiva crescere il suo tormento nell’attesa inutile; e girava di sala in sala alla ventura. Il « forse » gli faceva temere ch’Elena non venisse. – E s’ella proprio non veniva? Quando l’avrebbe egli riveduta? – Passò Donna Bianca Dolcebuono; e, senza sapere perché, egli le si mise al fianco dicendole molte frasi cortesi, provando quasi un poco di sollievo in compagnia di lei. Avrebbe voluto parlarle di Elena, interrogarla, rassicurarsi. L’orchestra diè principio a una Mazurka assai molle; e la contessa fiorentina col suo cavaliere entrò nella danza.
    Allora Andrea si volse a un gruppo di giovini signori, che stava presso una porta. Eravi Ludovico Barbarisi, eravi il duca di Beffi, con Filippo del Gallo, con Gino Bommìnaco. Guardavano le coppie girare e malignavano un po’ grossolanamente. Il Barberisi raccontava d’aver vedute le rotondità del petto alla contessa Lùcoli, ballando il Walzer. Il Bommìnaco domandò:
  • Ma come?
  • Provaci. Basta chinare gli occhi nel corsage. Ti assicuro che vale la pena…
  • Avete badato alle ascelle di Madame Chrysoloras? Guardate!
    Il duca di Beffi mostrava una danzatrice che aveva in su la fronte bianca come il marmo di Luni un’accensione di chiome rosse, a similitudine d’una sacerdotessa d’Alma Tadema. Il suo busto era congiunto agli omeri da un semplice nastro, e si scorgevano sotto le ascelle due ciuffi rossastri troppo abondanti.
    Il Bommìnaco si mise a ragionare dell’odor singolare che hanno le donne rosse.
  • Tu lo conosci bene, quell’odore – disse con malizia il Barbarisi.
  • Perché?
  • La Micigliano…
    Il giovine si compiacque manifestamente di sentir nominare una delle sue amanti. Non protestò, ma rise; poi volgendosi allo Sperelli:
  • Che hai stasera? Ti cercava tua cugina, un momento fa. Ora balla con mio fratello. Eccola.
  • Guarda! – esclamò Filippo del Gallo. – E’ tornata l’Albónico. Balla con Giannetto.
  • E’ tornata anche la Muti, da una settimana – fece Ludovico. – Che bella creatura!
  • E’ qui?
  • Non l’ho veduta ancóra.
    Andrea ebbe al cuore un sussulto, temendo che da qualcuna di quelle bocche fosse per uscire una malignità anche contro di lei. Ma il passaggio della principessa Issé, a braccio del ministro di Danimarca, divagò gli amici. Egli nondimeno sentivasi spingere da una temeraria curiosità a riallacciare il discorso sul nome dell’amata, per sapere, per iscoprire; ma non osò. La Mazurka finiva; il gruppo disperdevasi. « Ella non viene! Ella non viene! » L’inquietudine interiore gli cresceva così fieramente che egli pensò d’abbandonare le sale, poiché il contatto di quella folla eragli insoffribile.
    Volgendosi, vide apparire su l’ingresso della galleria la duchessa di Scerni a braccio dell’ambasciatore di Francia. In un attimo, egli incontrò lo sguardo di lei; e gli occhi d’ambedue in quell’attimo, parvero mescolarsi, penetrarsi, beversi. Ambedue sentirono che l’uno cercava l’altra e l’altra l’uno; ambedue sentirono, ad un punto, scendere su l’anima un silenzio, in mezzo a quel rumore, e quasi direi aprirsi un abisso in cui tutto il mondo circostante scomparve sotto la forza d’un pensiero unico.
    Ella s’avanzava nell’istoriata galleria del Caracci, dov’era minore la calca, portando un lungo strascico di broccato bianco che la seguiva come un’onda grave sul pavimento. Così bianca e semplice, nel passare volgeva il capo ai molti saluti, mostrando un’aria di stanchezza, sorridendo con un piccolo sforzo visibile che le increspava gli angoli della bocca, mentre gli occhi sembravan più larghi sotto la fronte esangue. Non la fronte sola ma tutte le linee del volto assumevano dall’estremo pallore una tenuità quasi direi psichica. Ella non era più né la donna seduta alla mensa degli Ateleta, né quella al banco delle vendite, né quella diritta un’istante sul marciapiede della via Sistina. La sua bellezza aveva ora un’espressione di sovrana idealità, che meglio splendeva in mezzo alle altre dame accese in volto dalla danza, eccitate, troppo mobili, un po’ convulse. Alcuni uomini, guardandola, rimanevan pensosi. Ella metteva anche negli animi più ottusi o fatui un turbamento, una inquietudine, un’aspirazione indefinibile. Chi aveva il cuor libero imaginava con un fremito profondo l’amore di lei; chi aveva un’amante provava un oscuro rammarico sognando un’ebrezza sconosciuta, nel cuore non pago; chi recava entro di sé la piaga d’una gelosia o d’un inganno aperta da un’altra donna, sentiva ben che avrebbe potuto guarire.
    Ella s’avanzava così, tra gli omaggi, avvolta dallo sguardo degli uomini. All’estremità della galleria, si unì ad un gruppo di dame che parlavano vivamente agitando i ventagli, sotto la pittura di Perseo e di Fineo impietrato. Eranvi la Ferentino, la Massa d’Albe, la marchesa Daddi-Tosinghi, la Dolcebuono.
  • Perché così tardi? – le chiese quest’ultima.
  • Ho esitato molto, prima di venire, perché non mi sento bene.
  • Infatti, sei pallida.
  • Credo che riavrò le nevralgie alla faccia, come l’anno scorso.
  • Non sia mai!
  • Guarda, Elena, Madame de la Boissière – disse Giovanella Daddi, con quella sua strana voce rauca. – Non sembra un cammello vestito da cardinale, con un parrucchino giallo?
  • Madamoiselle Vanloo stasera perde la testa per tuo cugino – disse la Massa d’Albe alla principessa, vedendo passare Sofia Vanloo a braccio di Ludovico Barbarisi. – L’ho sentita dianzi che supplicava, dopo un giro di Polka accanto a me: « Ludovic, ne faites plus ça en dansant; je frissonne toute… »
    Le dame si misero a ridere in coro, tra l’agitazion de’ ventagli. Giungevano dalle sale contigue le prime note d’un Walzer ungherese. I cavalieri si presentarono. Andrea poté finalmente offrire il braccio a Elena e trarla seco.
  • Aspettandovi, ho creduto di morire! Se voi non foste venuta, Elena, io vi avrei cercata ovunque. Quando vi ho vista entrare, ho trattenuto a stento un grido. Questa è la seconda sera ch’io vi vedo, ma mi par già di amarvi non so da che tempo. Il pensiero di voi, unico, incessante, è ora la vita della mia vita…
    Egli proferiva le parole d’amore sommessamente, senza guardarla, tenendo gli occhi fissi d’innanzi a sé; ed ella le ascoltava nella stessa attitudine, impassibile in vista, quasi marmorea. Nella galleria rimanevano poche persone. Lungo le pareti, tra i busti dei Cesari, i cristalli opachi de’ lumi, in forma di gigli, versavano un chiarore eguale, non troppo forte. La profusione delle piante verdi e fiorite dava imagine di una serra suntuosa. Le onde della musica si propagavano nell’aria calda, sotto le volte concave e sonore, passando su tutta quella mitologia come un vento su un giardino opulento.
  • Mi amerete voi? – chiese il giovine. – Ditemi che mi amerete!
    Ella rispose, con lentezza:
  • Son venuta qui per voi soltanto.
  • Ditemi che mi amerete! – ripeté il giovine, sentendo tutto il sangue delle sue vene affluire al cuore come un torrente di gioia.
    Ella rispose:
  • Forse.
    E lo guardò con lo sguardo medesimo che la sera innanzi era a lui parso una divina promessa, con quell’indefinibile sguardo che quasi dava alla carne la sensazione del tócco amoroso d’una mano. Poi ambedue tacquero; ed ascoltarono l’avviluppante musica della danza, che a tratti a tratti facevasi piana come un sussurro o levavasi come un turbine improvviso.
  • Volete che balliamo? – domandò Andrea, che dentro tremava al pensiero di tenerla fra le braccia.
    Ella esitò un poco. Quindi rispose:
  • No; non voglio.
    Vedendo entrare nella galleria la duchessa di Bugnara, sua zia materna, e la principessa Alberoni con l’ambasciatrice di Francia, soggiunse:
  • Ora, siate prudente; lasciatemi.
    Ella gli tese la mano inguantata; e andò incontro alle tre dame, sola, con un passo ritmico e leggero. Dava una sovrana grazia alla sua persona e al suo passo il lungo strascico bianco, poiché l’ampiezza e la pesantezza del broccato contrastavano con l’esilità della cintura. Andrea, seguendola con gli occhi, ripeteva mentalmente la frase di lei: « Son venuta per voi soltanto. » – Ella era pur così bella, per lui, per lui solo! – Subitamente, dal fondo del cuore gli si levò un resto dell’amarezza che vi avevano messa le parole dell’Angelieri. L’orchestra lanciavasi con impeto in una ripresa. Ed egli non dimenticò mai né quelle note, né lo splendor della stoffa trascinata, né una minima piega, né una minima ombra, né alcuna particolarità di quel momento supremo.