sabato 3 luglio 2021

Il Piacere. Libro Primo [5]

 Il commiato su la via Nomentana, quell’adieu au grand air voluto da Elena, non isciolse alcuno de’ dubbi che Andrea aveva nell’animo. – Quali erano mai le cagioni occulte di quella partenza subitanea? – Invano egli cercava di penetrare il mistero; i dubii l’opprimevano.

Ne’ primi giorni, gli assalti del dolore e del desiderio furono così crudeli ch’egli credeva morirne. La gelosia, che dopo le prime apparite erasi dileguata innanzi all’assiduo ardore di Elena, risorgeva in lui destata dalle imaginazioni impure; e il sospetto che un uomo potesse nascondersi in quell’oscuro intrico, gli dava un tormento insopportabile. Talvolta, contro la donna lontana, l’invadeva una bassa ira, un rancore pien d’amarezza, e quasi un bisogno di vendetta, come s’ella lo avesse ingannato e tradito per abbandonarsi a un altro amante. Anche, talvolta credeva di non desiderarla più, di non amarla più, di non averla mai amata; ed era in lui un fenomeno non nuovo questa cessazion momentanea d’un sentimento, questa specie di sincope spirituale che, per esempio, gli rendeva completamente estranea in mezzo alla gente la donna diletta e gli permetteva d’assistere a un gaio pranzo un’ora dopo aver bevute le lacrime di lei. Ma quegli oblii non duravano. La primavera romana fioriva con inaudita letizia: la città di travertino e di mattone sorbiva la luce, come un’avida selva; le fontane papali si levavano in un cielo più diafano d’una gemma; la piazza di Spagna odorava come un roseto; e la Trinità de’ Monti, in cima alla scala popolata di putti, pareva un duomo d’oro.
Alle incitazioni che gli venivano dalla nuova bellezza di Roma, quanto in lui rimaneva del fascino di quella donna, nel sangue e nell’anima, ravvivavasi e raccendevasi. Ed egli era turbato, fin nel profondo, da invincibili angosce, da implacabili tumulti, da indefinibili languori, che somigliavano un poco quelli della pubertà. Una sera, in casa Dolcebuono, dopo un tè, essendo rimasto ultimo nel salone tutto pieno di fiori e ancor vibrante d’una Cachoucha del Raff, egli parlò d’amore a Donna Bianca; e non se ne pentì, né in quella sera né in seguito.
La sua avventura con Elena Muti era ormai notissima come, o prima o poi, o più o meno, nella società elegante di Roma e in ogni altra società son note tutte le avventure e tutte le flirtations. Le precauzioni non valgono. Ciascuno ivi è così buon conoscitore della mimica erotica, che gli basta sorprendere un gesto o un’attitudine o uno sguardo per avere un sicuro indizio, mentre gli amanti, o coloro che son per divenire tali, non sospettano. Inoltre, ci sono in ogni società alcuni curiosi che fan professione di scoprire e che vanno su le vestigia degli amori altrui con non minor perseveranza de’ segugi in traccia di selvaggina. Essi sono sempre vigili e non paiono; colgono infallibilmente una parola mormorata, un sorriso tenue, un piccolo sussulto, un lieve rossore, un baleno d’occhi; ne’ balli, nelle grandi feste, dove sono più probabili le imprudenze, girano di continuo, sanno insinuarsi nel più fitto, con un’arte straordinaria, come nelle moltitudini i borsaiuoli; e l’orecchio è teso a rapire un frammento di dialogo, l’occhio è pronto dietro il luccicor della lente, a notare una stretta, una languidezza, un fremito, la pression nervosa d’una mano feminea su la spalla d’un danzatore.
Un terribile segugio era, per esempio, Don Filippo del Monte, il commensale della marchesa d’Ateleta. Ma, in verità, Elena Muti non si preoccupava molto delle maldicenze mondane; e in questa sua ultima passione era giunta a temerità quasi folli. Ella copriva ogni ardimento con la sua bellezza, col suo lusso, col suo alto nome; e passava pur sempre inchinata, ammirata, adulata, per quella certa molle tolleranza che è una delle più amabili qualità dell’aristocrazia quirite e che le viene forse appunto dall’abuso della mormorazione.
Or dunque l’avventura aveva, d’un tratto, inalzato Andrea Sperelli, in conspetto delle dame, a un alto grado di potere. Un’aura di favore l’avvolse; e la sua fortuna, in poco tempo, divenne meravigliosa. Un fenomeno assai frequente, nelle società moderne, è il contagio del desiderio. Un uomo, che sia stato amato da una donna di pregi singolari, eccita nelle altre l’imaginazione; e ciascuna arde di possederlo, per vanità e per curiosità, a gara. Il fascino di Don Giovanni è più nella sua fama che nella sua persona. Inoltre, giovava allo Sperelli quel certo nome ch’egli aveva d’artista misterioso; ed erano rimasti celebri due sonetti, scritti nell’albo della principessa di Ferentino, ne’ quali come in un dittico ambiguo egli aveva lodato una bocca diabolica e una bocca angelica, quella che perde le anime e quella che dice Ave. La gente volgare non imagina quali profondi e nuovi godimenti l’aureola della gloria, anche pallida o falsa, porti all’amore. Un amante oscuro, avesse anche la forza di Ercole e la bellezza d’Ippolito e la grazia d’Ila, non mai potrà dare all’amata le delizie che l’artista, forse inconsapevolmente, versa in abondanza negli ambiziosi spiriti feminili. Gran dolcezza dev’essere per la vanità di una donna il poter dire: – In ciascuna lettera ch’egli mi scrive è forse la più pura fiamma del suo intelletto a cui mi riscalderò io sola; in ciascuna carezza egli perde una parte della sua volontà e della sua forza; e i suoi più alti sogni di gloria cadono nelle pieghe della mia veste, ne’ cerchi che segna il mio respiro!
Andrea Sperelli non esitò un istante d’innanzi alle lusinghe. A quella specie di raccoglimento, prodotto in lui dal dominio unico di Elena, succedeva ora il dissolvimento. Non più tenute dall’ignea fascia che le stringeva ad unità, le sue forze tornavano al primitivo disordine. Non potendo più conformarsi, adeguarsi, assimilarsi a una superior forma dominatrice, l’anima sua, camaleontica, mutabile, fluida, virtuale si trasformava, si difformava, prendeva tutte le forme. Egli passava dall’uno all’altro amore con incredibile leggerezza; vagheggiava nel tempo medesimo diversi amori; tesseva, senza scrupolo, una gran trama d’inganni, di finzioni, di menzogne, d’insidie, per raccogliere il maggior numero di prede. L’abitudine della falsità gli ottundeva la conscienza. Per la continua mancanza della riflessione, egli diveniva a poco a poco impenetrabile a sé stesso, rimaneva fuori del suo mistero. A poco a poco egli quasi giungeva a non vedere più la sua vita interiore, in quella guisa che l’emisfero esterno della terra non vede il sole pur essendogli legato indissolubilmente. Sempre vivo, spietatamente vivo, era in lui un istinto: l’istinto del distacco da tutto ciò che l’attraeva senza avvincerlo. E la volontà, disutile come una spada di cattiva tempra, pendeva al fianco di un ebro o di un inerte.
Il ricordo di Elena talvolta, risorgendo d’improvviso, lo riempiva; ed egli o cercava di sottrarsi alle malinconie del rimpianto o piacevasi invece rivivere nella imaginazione viziata l’eccessività di quella vita, per averne uno stimolo ai nuovi amori. Ripeteva a sé stesso le parole del lied: « Ricorda i giorni spenti! E metti su le labbra della seconda baci soavi quanto quelli che tu davi alla prima, non è gran tempo! » Ma già la seconda eragli uscita dall’anima. Egli aveva parlato d’amore a Donna Bianca Dolcebuono, da principio senza quasi pensarci, istintivamente attratto forse per virtù di un indefinito riflesso che a colei veniva dall’essere amica di Elena. Forse germogliava il piccolo seme di simpatia che avevan gittato in lui le parole della contessa fiorentina, al pranzo in casa Doria. Chi sa dire per quale misterioso procedere un qualunque contatto spirituale o materiale tra un uomo e una donna, anche insignificante, può generare ed alimentare in ambedue un sentimento latente, innavvertito, insospettato, che dopo molto tempo le circostanze faranno emergere d’un tratto? E’ il fenomeno medesimo che noi riscontriamo nell’ordine intellettuale, quando il germe d’un pensiero o l’ombra d’una imagine si ripresentano d’un tratto, dopo un lungo intervallo, per uno sviluppo inconsciente, elaborati in imagine compiuta, in pensiero complesso. Le medesime leggi governano tutte le attività del nostro essere; e le attività di cui noi siam consapevoli non sono che una parte delle nostre attività.
Donna Bianca Dolcebuono era l’ideal tipo della bellezza fiorentina, quale fu reso dal Ghirlandajo nel ritratto di Giovanna Tornabuoni, ch’è in Santa Maria Novella. Aveva un chiaro volto ovale, la fronte larga alta e candida, la bocca mite, il naso un poco rilevato, gli occhi di quel color tanè oscuro lodato dal Firenzuola. Prediligeva disporre i capelli con abbondanza su le tempie, fino a mezzo delle guance, alla foggia antica. Ben le conveniva il cognome, poiché ella portava nella vita mondana una bontà nativa, una grande indulgenza, una cortesia per tutti eguale, e una parlatura melodiosa. Era, insomma, una di quelle donne amabili, senza profondità né di spirito né d’intelletto, un poco indolenti, che sembrano nate a vivere in piacevolezza e a cullarsi ne’ discreti amori come gli uccelli su gli alberi fiorenti.
Quando udì le frasi di Andrea, ella esclamò, con un grazioso stupore:

  • Dimenticate Elena così presto?
    Poi, dopo alcuni giorni di graziose esitazioni, le piacque di cedere; e non di rado ella parlava d’Elena al giovine infedele, senza gelosia, candidamente.
  • Ma perché mai sarà partita prima del solito, quest’anno? – gli chiese una volta, sorridendo.
  • Io non so – rispose Andrea, senza poter nascondere un po’ d’impazienza e di amarezza.
  • Tutto, proprio, è finito?
  • Bianca, vi prego, parliamo di noi! – interruppe egli con la voce alterata, poiché quei discorsi lo turbavano e irritavano.
    Ella rimase un momento pensosa, come se volesse sciogliere un enigma; quindi sorrise scotendo la testa, come se rinunziasse, con una fugace ombra di malinconia su gli occhi.
  • Così è l’amore.
    E rese all’amante le carezze.
    Andrea, possedendola, possedeva in lei tutte le gentili donne fiorentine del Quattrocento, alle quali cantava il Magnifico:

E’ si vede in ogni lato
Che ‘l proverbio dice il vero,
Che ciascun muta pensiero
Come l’occhio è separato.
Vedesi cambiare amore:
Come l’occhio sta di lunge,
Così sta di lunge il core:
Perché appresso un altro il punge.
Col qual tosto e’ si congiunge
Con piacere e con diletto…

Allorché, nell’estate, ella era per partire, disse, prendendo congedo, senza nascondere la sua commozione gentile:

  • Io so che, quando ci rivedremo, voi non mi amerete più. Così è l’amore. Ma ricordatevi di un’amica!
    Egli non l’amava. Pure, nelle giornate calde e tediose, certe molli cadenze della voce di lei gli tornavan nell’anima come la magia d’una rima e gli suscitavano la visione d’un giardin fresco d’acque pel quale ella andasse in compagnia d’altre donne sonando e cantando come in una vignetta del Sogno di Polifilo.
    E Donna Bianca si dileguò. E vennero altre, talvolta in coppia: Barbarella Viti, la mascula, che aveva una superba testa di giovinetto, tutta quanta dorata e fulgente come certe teste giudee del Rembrandt; la contessa di Lùcoli, la dama delle turchesi, una Circe di Dosso Dossi, con due bellissimi occhi pieni di perfidia, varianti come i mari d’autunno, grigi, azzurri, risplendenti di quella prodigiosa carnagione, composta di luce, di rose e di latte, che han soltanto i babies delle grandi famiglie inglesi nelle tele del Reynolds, del Gainsborough e del Lawrences; la marchesa Du Deffand, una bellezza del Direttorio, una Récamier, dal lungo e puro ovale, dal collo di cigno, dalle mammelle saglienti, dalle braccia bacchiche; Donna Isotta Cellesi, la dama degli smeraldi, che volgeva con una lenta maestà divina la sua testa d’imperatrice tra lo scintillio delle enormi gemme ereditarie; la principessa Kalliwoda, la dama senza gioielli, che nella fragilità delle sue forme chiudeva nervi d’acciaio per il piacere, e su la cerea delicatezza dei suoi lineamenti apriva due voraci occhi leonini, gli occhi d’uno Scita.
    Ciascuno di questi amori portò a lui una degradazione novella; ciascuno l’inebriò d’una cattiva ebrezza, senza appagarlo; ciascuno gli insegnò una qualche particolarità e sottilità del vizio a lui ancóra ignota. Egli aveva in sé i germi di tutte le infezioni. Corrompendosi, corrompeva. La frode gli invescava l’anima, come d’una qualche materia viscida e fredda che ogni giorno divenisse più tenace. Il pervertimento de’ sensi gli faceva ricercare e rilevare nelle sue amanti quel ch’era in loro men nobile e men puro. Una bassa curiosità lo spingeva a scieglier le donne che avevan peggior fama; un crudel gusto di contaminazione lo spingeva a sedurre le donne che avean fama migliore. Fra le braccia dell’una egli si ricordava d’una carezza dell’altra, d’un modo di voluttà appreso dall’altra. Talvolta (e fu, in ispecie, quando la notizia delle seconde nozze di Elena Muti gli riaprì per qualche tempo la ferita) piacevasi di sovrapporre alla nudità presente le evocate nudità di Elena e di servirsi della forma reale come d’un appoggio sul qual godere la forma ideale. Nutriva l’imagine con uno sforzo intenso, finché l’imaginazione giungeva a possedere l’ombra quasi creata.
    Pur tuttavia egli non aveva culto per le memorie dell’antica felicità. Talvolta, anzi, quelle gli davano un appiglio a una qualunque avventura. Nella Galleria Borghese, per esempio, nella memore sala degli specchi, egli ottenne da Lilian Theed la prima promessa; nella Villa Medici, su per la memore scala verde che conduce al Belvedere, egli intrecciò le sue dita alle lunghe dita d’Angélique Du Deffand; e il piccolo teschio d’avorio appartenuto al cardinale Immenraet, il gioiello mortuario segnato del nome d’Ippolita oscura, gli suscitò il capriccio di tentare Donna Ippolita Albónico.
    Questa dama aveva nella sua persona una grande aria di nobiltà, somigliando un poco a Maria Maddalena d’Austria, moglie di Cosimo II de’ Medici, nel ritratto di Giusto Suttermans, ch’è in Firenze, dai Corsini. Amava gli abiti suntuosi, i broccati, i velluti, i merletti. I larghi collari medìcei parevano la foggia meglio adatta a far risaltare la bellezza della sua testa superba.
    In una giornata di corse, su la tribuna, Andrea Sperelli voleva ottenere da Donna Ippolita ch’ella andasse la dimane al palazzo Zuccari per prendere il misterioso avorio dedicato a lei. Ella si schermiva, ondeggiando tra la prudenza e la curiosità. Ad ogni frase del giovine un po’ ardita, corrugava le sopracciglia mentre un sorriso involontario le sforzava la bocca; e la sua testa, sotto il cappello ornato di piume bianche, sul fondo dell’ombrellino ornato di merletti bianchi, era in un momento di singolare armonia.
  • Tibi, Hippolyta! Dunque venite? Io vi aspetterò tutto il giorno, dalle due fino a sera. Va bene?
  • Ma siete pazzo?
  • Di che temete? Io giuro alla Maestà Vostra di non toglierle neppure un guanto. Rimarrà seduta come in un trono, secondo il suo regal costume; e, anche prendendo una tazza di te, potrà non posare lo scettro invisibile che porta sempre nella destra imperiosa. E’ concessa la grazia, a questi patti?
  • No.
    Ma ella sorrideva, poiché compiacevasi di sentir rilevare quell’aspetto di regalità ch’era la sua gloria. E Andrea Sperelli continuava a tentarla, sempre in tono di scherzo o di preghiera, unendo alla seduzione della sua voce uno sguardo continuo, sottile, penetrante, quello sguardo indefinibile che sembra svestire le donne, vederle ignude a traverso le vesti, toccarle su la pelle viva.
  • Non voglio che mi guardiate così – disse Donna Ippolita, quasi offesa, con un lieve rossore.
    Su la tribuna eran rimaste poche persone. Signore e signori passeggiavano su l’erba, lungo lo steccato, o circondavano il cavallo vittorioso, o scommettevano coi publici scommettitori urlanti, sotto l’incostanza del sole che appariva e spariva fra i molti arcipelaghi delle nuvole.
  • Scendiamo – ella soggiunse, non accorgendosi degli occhi seguaci di Giannetto Rùtolo che stava appoggiato alla ringhiera della scala.
    Quando, per discendere, passarono d’innanzi a colui, lo Sperelli disse:
  • Addio, marchese, a poi. Correremo.
    Il Rùtolo s’inchinò profondamente a Donna Ippolita; e una sùbita fiamma gli colorò la faccia. Eragli parso di sentire nel saluto del conte una leggera irrisione. Rimase alla ringhiera, seguendo sempre con gli occhi la coppia nel recinto. Visibilmente, soffriva.
  • Rùtolo, alle vedette! – fecegli, con un riso malvagio, la contessa di Lùcoli passando a braccio con Don Filippo del Monte, giù per la scala di ferro.
    Egli sentì la punta nel mezzo del cuore. Donna Ippolita e il conte d’Ugenta, dopo essere giunti fin sotto la specola dei giudici, tornavano verso la tribuna. La dama teneva il bastone dell’ombrellino su la spalla, girandolo fra le dita; la cupola bianca le roteava dietro la schiena, come un’aureola, e i molti merletti s’agitavano e si sollevavano incessantemente. Entro quel cerchio mobile ella di tratto in tratto rideva alle parole del giovine; e ancóra un lieve rossore tingeva la nobile pallidezza del suo volto. Di tratto in tratto, i due si soffermavano.
    Giannetto Rùtolo, fingendo di voler osservare i cavalli che entravano nella pista, volse il binocolo fra i due. Visibilmente, gli tremavano le mani. Ogni sorriso, ogni gesto, ogni attitudine di Ippolita gli dava un atroce dolore. Quando abbassò il binocolo, egli era assai smorto. Aveva sorpreso negli occhi dell’amata, che si posavano su lo Sperelli, quello sguardo ch’egli ben conosceva poiché n’era stato, un tempo, illuminato di speranza. Gli parve che tutto ruinasse intorno a lui. Un lungo amore finiva, troncato da quello sguardo, irreparabilmente. Il sole non era più il sole; la vita non era più la vita.
    La tribuna si ripopolava rapidamente, già che il segnale della terza corsa era prossimo. Le dame salivano in piedi su i sedili. Un mormorio correva lungo i gradi, simile a un vento sopra un giardino in pendio. La campanella squillò. I cavalli partirono come un gruppo di saette.
  • Correrò in onor vostro, Donna Ippolita – disse Andrea Sperelli all’Albónico, prendendo congedo per andare a prepararsi alla seguente corsa, ch’era di gentiluomini. – Tibi, Hippolyta, semper!
    Ella gli strinse la mano, forte, per augurio, non pensando che anche Giannetto Rùtolo stava fra i contenditori. Quando vide, poco oltre, l’amante pallido scender giù per la scala, l’ingenua crudeltà dell’indifferenza le regnava nei belli occhi oscuri. Il vecchio amore le cadeva dall’anima, pari a una spoglia inerte, per l’invasione del nuovo. Ella non apparteneva più a quell’uomo; non gli era legata da nessun legame. Non è concepibile come prontamente e intieramente rientri nel possesso del proprio cuore la donna che non ama più.
    « Egli me l’ha presa » pensò colui, camminando verso la tribuna del Jockey-club, su l’erba che parevagli s’affondasse sotto i suoi piedi come un’arena. Davanti, a poca distanza, camminava l’altro, con un passo disinvolto e sicuro. La persona alta e snella, nell’abito cinerino, aveva quella particolare inimitabile eleganza che sol può dare il lignaggio. Egli fumava. Giannetto Rùtolo, venendo dietro, sentiva l’odore della sigaretta, ad ogni buffo di fumo; ed era per lui un fastidio insopportabile, un disgusto che gli saliva dalle viscere, come contro un veleno.
    Il duca Beffi e Paolo Caligàro stavano su la soglia, già in assetto di corsa. Il duca si chinava su le gambe aperte, con un movimento ginnico, per provare l’elasticità de’ suoi calzoni di pelle o la forza de’ suoi ginocchi. Il piccolo Caligàro imprecava alla pioggia della notte, che aveva reso pesante il terreno.
  • Ora – disse allo Sperelli – tu hai molte probabilità, con Miching Mallecho.
    Giannetto Rùtolo udì quel presagio, ed ebbe al cuore una fitta. Egli riponeva nella vittoria una vaga speranza. Nella sua imaginazione vedeva gli effetti d’una corsa vinta e d’un duello fortunato, contro il nemico. Spogliandosi, ogni suo gesto tradiva la preoccupazione.
  • Ecco un uomo che, prima di montare a cavallo, vede aperta la sepoltura – disse il duca di Beffi, posandogli una mano su la spalla, con un atto comico. – Ecce homo novus.
    Andrea Sperelli, il quale in tal momento aveva gli spiriti gai, ruppe in un di que’ suoi franchi scoppi di risa, ch’erano la più seducente effusione della sua giovinezza.
  • Perché ridete, voi? – gli chiese Rùtolo, pallidissimo, fuori di sé, fissandolo di sotto ai sopraccigli corrugati.
  • Mi pare – rispose lo Sperelli, senza turbarsi – che voi mi parliate in un tono assai vivo, caro marchese.
  • Ebbene?
  • Pensate del mio riso quel che più vi piace.
  • Penso che è sciocco.
    Lo Sperelli balzò in piedi, fece un passo, e levò contro Giannetto Rùtolo il frustino. Paolo Caligàro giunse a trattenergli il braccio, per prodigio. Altre parole irruppero. Sopravvenne Don Marcantonio Spada; udì l’alterco, e disse:
  • Basta, figliuoli. Sapete ambedue quel che dovrete fare domani. Ora, dovete correre.
    I due avversari compirono la lor vestizione, in silenzio. Quindi uscirono. Già la notizia del litigio s’era sparsa nel recinto e saliva su per le tribune, ad accrescere l’aspettazion della corsa. La contessa di Lùcoli, con raffinata perfidia, la diede a Donna Ippolita Albónico. Questa, non lasciando trasparire alcun turbamento, disse:
  • Mi dispiace. Parevano amici.
    La diceria si diffondeva, trasformandosi, per le belle bocche feminee. Intorno ai publici scommettitori ferveva la folla. Miching Mallecho, il cavallo del conte d’Ugenta, e Brummel, il cavallo del marchese Rùtolo, erano i favoriti; venivano poi Satirist del duca di Beffi e Carbonilla del conte Caligàro. I buoni conoscidori però diffidavano de’ due primi, pensando che la concitazion nervosa dei due cavalieri avrebbe certamente nociuto alla corsa.
    Ma Andrea Sperelli era calmo, quasi allegro.
    Il sentimento della sua superiorità su l’avversario l’assicurava; inoltre, quella tendenza cavalleresca alle avventure perigliose, ereditata dal padre byroneggiante, gli faceva vedere il suo caso in una luce di gloria; e tutta la nativa generosità del suo sangue giovenile risvegliavasi, d’innanzi al rischio. Donna Ippolita Albónico, d’un tratto, gli si levava in cima dell’anima, più desiderabile e più bella.
    Egli andò incontro al suo cavallo, con il cuor palpitante, come incontro a un amico che gli portasse l’annunzio aspettato d’una fortuna. Gli palpò il muso, con dolcezza; e l’occhio dell’animale, quell’occhio ove brillava tutta la nobiltà della razza per una inestinguibile fiamma, l’inebriò come lo sguardo magnetico di una donna.
  • Mallecho, – mormorava, palpandolo – è una gran giornata! Dobbiamo vincere.
    Il suo trainer, un omuncolo rossiccio, figgendo le pupille acute su gli altri cavalli che passavano portati a mano dai palafrenieri, disse, con la voce roca:
  • No doubt.
    Miching Mallecho esq. era un magnifico baio, proveniente dalle scuderie del barone di Soubeyran. Univa alla slanciata eleganza delle forme una potenza di reni straordinaria. Dal pelo lucido e fino, di sotto a cui apparivano gli intichi delle vene sul petto e su le cosce, pareva esalare quasi un fuoco vaporoso, tanto era l’ardore della sua vitalità. Fortissimo nel salto, aveva portato assai spesso nelle cacce il suo signore, di là da tutti gli ostacoli, non rifiutandosi d’innanzi a una triplice filagna o d’innanzi a una maceria mai, sempre alla coda dei cani, intrepidamente. Un hop del cavaliere l’incitava più d’un colpo di sperone; e una carezza lo faceva fremere.
    Prima di montare, Andrea esaminò attentamente tutta la bardatura, si assicurò d’ogni fibbia e d’ogni cinghia; quindi balzò in sella, sorridendo. Il trainer dimostrò con un espressivo gesto la sua fiducia, guardando il padrone allontanarsi.
    Intorno alle tabelle delle quote persisteva la folla degli scommettitori. Andrea sentì su la sua persona tutti gli sguardi. Volse gli occhi alla tribuna destra per vedere l’Albónico, ma non poté distinguer nulla tra la moltitudine delle dame. Salutò da presso Lilian Theed a cui eran ben noti i galoppi di Mallecho dietro le volpi e dietro le chimere. La marchesa d’Ateleta fece da lontano un atto di rimprovero, poiché aveva saputo l’alterco.
  • Com’è quotato Mallecho? – chiese egli a Ludovico Barbarisi.
    Andando al punto di partenza, egli pensava freddamente al metodo che avrebbe tenuto per vincere; e guardava i suoi tre competitori, che lo precedevano, calcolando la forza e la scienza di ciascuno. Paolo Caligàro era un demonio di malizia, rotto a tutte le furberie del mestiere, come un jockey; ma Carbonilla, sebbene veloce, era di poca resistenza. Il duca di Beffi, cavaliere d’alta scuola, che aveva vinto più d’un match in Inghilterra, montava un animale d’umor difficile, che poteva rifiutarsi innanzi a qualche ostacolo. Giannetto Rùtolo invece ne montava uno eccellente ed assai ben disciplinato; ma sebben forte, egli era troppo impetuoso e prendeva parte a una corsa publica per la prima volta. Inoltre, doveva trovarsi in uno stato di nervosità terribile, come da molti segni appariva.
    Andrea pensava, guardandolo: « La mia vittoria d’oggi influirà sul duello di domani, senza dubbio. Egli perderà la testa, certo, qui e là. Io debbo essere calmo, su tutt’e due i campi. » Poi, anche, pensò: « Quale sarà l’animo di Donna Ippolita? » Gli parve che intorno ci fosse un silenzio insolito. Misurò con l’occhio la distanza fino alla prima siepe; notò su la pista un sasso luccicante; s’accorse d’essere osservato dal Rùtolo; ebbe un fremito per tutta la persona.
    La campanella diede il segnale; ma Brummel aveva già preso lo slancio; e la partenza quindi, non essendo stata contemporanea, fu ritenuta non buona. Anche la seconda fu una falsa partenza, per colpa di Brummel. Lo Sperelli e il duca di Beffi si sorrisero fuggevolmente.
    La terza partenza fu valida. Brummel, sùbito, si staccò dal gruppo, radendo lo steccato. Gli altri tre cavalli seguirono di pari, per un tratto; e saltarono la prima siepe, felicemente; poi, la seconda. Ciascuno dei tre cavalieri faceva un gioco diverso. Il duca di Beffi cercava di mantenersi nel gruppo perché d’innanzi agli ostacoli Satirist fosse istigato dall’esempio. Il Caligàro moderava la foga di Carbonilla, a conservarle le forze per gli ultimi cinquecento metri. Andrea Sperelli aumentava gradatamente la velocità, volendo incalzare il suo nemico in prossimità dell’ostacolo più difficile. Poco dopo, infatti, Mallecho avanzò i due compagni e si diede a serrare da presso Brummel.
    Il Rùtolo sentì dietro di sé il galoppo incalzante, e fu preso da tale ansietà che non vide più nulla. Tutto alla vista gli si confuse, come s’egli fosse per perdere gli spiriti. Faceva uno sforzo immenso per tenere piantati gli speroni nel ventre del cavallo; e lo sbigottiva il pensiero che le forze lo abbandonassero. Aveva negli orecchi un rombo continuo, e in mezzo al rombo udiva il grido breve e secco d’Andrea Sperelli.
  • Hop! Hop!
    Sensibilissimo alla voce più che ad ogni altra instigazione, Mallecho divorava l’intervallo di distanza, non era più che a tre o quattro metri da Brummel, stava per raggiungerlo, per superarlo.
  • Hop!
    Un’altra barriera attraversava la pista. Il Rùtolo non la vide, poiché aveva smarrita ogni conscienza, conservando solo un furioso istinto di aderire all’animale e di spingerlo innanzi, alla ventura. Brummel saltò; ma, non coadiuvato dal cavaliere, urtò le zampe posteriori e ricadde dall’altra parte così male che il cavaliere perse le staffe, pur restando in sella. Seguitò tuttavia a correre. Andrea Sperelli teneva ora il primo posto; Giannetto Rùtolo, senza aver recuperato le staffe, veniva secondo, incalzato da Paolo Caligàro; il duca di Beffi, avendo sofferto da Satirist un rifiuto, veniva ultimo. Passarono sotto le tribune, in quest’ordine; udirono un clamore confuso, che si dileguò.
    Su le tribune, tutti gli animi stavan sospesi nell’attenzione. Alcuni indicavano ad alta voce le vicende della corsa. Ad ogni mutamento nell’ordine dei cavalli, molte esclamazioni si levavano tra un lungo mormorio; e le dame ne avevano un fremito. Donna Ippolita Albónico, ritta in piedi sul sedile, appoggiandosi alle spalle del marito il quale era sotto di lei, guardava senza mai mutarsi, con una meravigliosa padronanza; se non che le labbra troppo chiuse e un leggerissimo increspamento della fronte potevan forse rivelare a un indagatore lo sforzo. A un certo punto, ritrasse dalle spalle del marito le mani per tema di tradirsi con un qualche involontario moto.
  • Sperelli è caduto – annunziò a voce alta la contessa di Lùcoli.
    Mallecho, infatti, saltando, aveva messo un piede in fallo su l’erba umida ed erasi piegato su le ginocchia, rialzandosi immediatamente. Andrea gli era passato dal collo, senza danno; e con una prontezza fulminea era tornato in sella, mentre il Rùtolo e il Caligàro sopraggiungevano. Brummel, sebbene offeso alle zampe posteriori, faceva prodigi, per virtù del suo sangue puro. Carbonilla infine spiegava tutta la sua velocità, condotta con arte mirabile dal suo cavaliere. Mancavano circa ottocento metri alla mèta.
    Lo Sperelli vide la vittoria fuggirgli; ma raccolse tutti gli spiriti per riafferrarla. Teso su le staffe, curvo su la criniera, gittava di tratto in tratto quel grido breve, èsile, penetrante, che aveva tanto potere sul nobile animale. Mentre Brummel e Carbonilla, affaticati sul terreno pesante, perdevano vigore, Mallecho aumentava la veemenza del suo slancio, stava per riconquistare il suo posto, già sfiorava la vittoria con la fiamma delle sue narici. Dopo l’ultimo ostacolo, avendo superato Brummel, raggiungeva con la testa la spalla di Carbonilla. A circa cento metri dalla mèta, radeva lo steccato, avanti, avanti, lasciando dietro di sé e la morella del Caligàro lo spazio di dieci « lunghezze ». La campana squillò; un applauso risonò per tutte le tribune, come il crepitar sordo di una grandine; un clamore si propagò nella folla su la prateria inondata dal sole.
    Andrea Sperelli rientrando nel recinto pensava: « La fortuna è con me, oggi. Sarà con me anche domani? » Sentendo venire a sé l’aura del trionfo, ebbe contro l’oscuro pericolo quasi una sollevazion d’ira. Avrebbe voluto affrontarlo sùbito, in quello stesso giorno, in quella stessa ora, senza altro indugio, per godere una duplice vittoria e per mordere quindi al frutto che gli offriva la mano di Donna Ippolita. Tutto il suo essere accendevasi d’orgoglio selvaggio, al pensiero di posseder quella bianca e superba donna per diritto di conquista violenta. L’imaginazione gli fingeva un gaudio non mai provato, quasi direi una voluttà d’altri tempi, quando i gentiluomini scioglievano i capelli delle amasie con mani omicide e carezzevoli, affondandovi la fronte ancóra grondante per la fatica dell’abbattimento e la bocca ancóra amara delle profferte ingiurie. Egli era invaso da quella inesplicabile ebrezza che dànno a certi uomini d’intelletto l’esercizio della forza fisica, l’esperimento del coraggio, la rivelazione della brutalità. Quel che in fondo a noi è rimasto della ferocia originale torna al sommo talvolta con una strana veemenza ed anche sotto la meschina gentilezza dell’abito moderno il nostro cuore talvolta si gonfia di non so che smania sanguinaria ed anela alla strage. Andrea Sperelli aspirava la calda ed acre esalazion del suo cavallo, pienamente, e nessuno di quanti delicati profumi egli aveva fin allora preferiti, nessuno aveva mai dato al suo senso un più acuto piacere.
    Appena smontò, fu accerchiato da amiche e da amici che si congratulavano. Miching Mallecho, sfinito, tutto fumante e spumante, sbuffava protendendo il collo e scotendo le briglie. I suoi fianchi s’abbassavano e si sollevavano con un moto continuo, così forte che pareva scoppiare; i suoi muscoli sotto la pelle tremavano come le corde degli archi dopo lo scocco; i suoi occhi iniettati di sangue e dilatati avevano ora l’atrocità di quelli d’una fiera; il suo pelo, ora interrotto da larghe chiazze più oscure, si apriva qua e là a spiga sotto i rivoli del sudore; la vibrazione incessante di tutto il suo corpo faceva pena e tenerezza, come la sofferenza d’una creatura umana.
  • Poor fellow! – mormorò Lilian Theed.
    Andrea gli esaminò i ginocchi per veder se la caduta li avesse offesi. Erano intatti. Allora, battendolo pianamente in sul collo, gli disse con un accento indefinibile di dolcezza:
  • Va, Mallecho, va.
    E lo riguardò allontanarsi.
    Poi, avendo lasciato l’abito di corsa, cercò di Ludovico Barbarisi e del barone di Santa Margherita.
    Ambedue accettarono l’incarico di assisterlo nella questione col marchese Rùtolo. Egli li pregò di sollecitare.
  • Stabilite, dentro questa sera, ogni cosa. Domani, all’una dopo mezzogiorno, io debbo essere già libero. Ma domattina lasciatemi dormire almeno fino alle nove. Io pranzo dalla Ferentino; e passerò poi in casa Giustiniani; e poi, a ora tarda, al Circolo. Sapete dove trovarmi. Grazie, e a rivederci, amici.
    Salì alla tribuna; ma evitò di avvicinarsi sùbito a Donna Ippolita. Sorrideva, sentendosi avvolgere dagli sguardi feminili. Molte belle mani si tendevano a lui; molte belle voci lo chiamavano familiarmente Andrea; alcune anzi lo chiamavan con una certa ostentazione. Le dame che avevano scommesso per lui gli dicevano la somma della loro vincita; dieci luigi, venti luigi. Altre gli domandarono, con curiosità:
  • Vi batterete?
    A lui pareva di aver raggiunto il culmine della gloria avventurosa in un sol giorno, meglio che il duca di Buckingham e il signor di Lauzun. Egli era uscito vincitore da una corsa eroica, aveva acquistata una nuova amante, magnifica e serena come una dogaressa; aveva provocato un duello mortale; ed ora passava tranquillo e cortese, né più né meno del solito, fra il sorriso di tali dame a cui egli conosceva altro che la grazia della bocca. Non poteva egli forse indicare di molte un vezzo segreto o una particolare abitudine di voluttà? Non vedeva egli, a traverso tutta quella chiara freschezza di stoffe primaverili, il neo biondo, simile a una piccola moneta d’oro, sul fianco sinistro d’Isotta Cellesi; o il ventre incomparabile di Giulia Moceto, polito come una coppa d’avorio, puro come quel d’una statua, per l’assenza perfetta di ciò che nelle sculture e nelle pitture antiche rimpiangeva il poeta del Musée secret? Non udiva nella voce sonora di Barbarella Viti un’altra indefinibile voce che ripeteva di continuo una parola invereconda; o nell’ingenuo riso di Aurora Seymour un altro indefinibile suono, rauco e gutturale, che ricordava un poco il rantolo dei gatti in su’ focolari e il tubare delle tortore ne’ boschi? Non sapeva le squisite depravazioni della contessa de Lùcoli che s’inspirava su i libri erotici, su le pietre incise e su le miniature; o gli invincibili pudori di Francesca Daddi che ne’ supremi aneliti, come un’agonizzante, invocava il nome di Dio? Quasi tutte le donne ch’egli aveva ingannato, o che lo avevano ingannato, erano là e gli sorridevano.
  • Ecco l’eroe! – disse il marito dell’Albónico, tendendogli la mano, con amabilità insolita, e stringendogliela forte.
  • Eroe da vero – aggiunse Donna Ippolita, col tono insignificante d’un complimento obbligato, parendo ignorare il dramma.
    Lo Sperelli s’inchinò e passò oltre, perché provava non so che imbarazzo d’innanzi a quella strana benevolenza del marito. Un sospetto gli balenò nell’animo, che il marito gli fosse grato d’aver attaccato briga con l’amante della moglie; e sorrise alla viltà di quell’uomo. Come si volse, gli occhi di Donna Ippolita s’incontrarono, si mescolarono con i suoi.
    Nel ritorno, dal mail-coach del principe di Ferentino vide fuggire verso Roma Giannetto Rùtolo con un piccolo legno a due ruote, al trotto fitto d’un gran roano ch’egli guidava chinato avanti, tenendo la testa bassa e il sigaro tra i denti, senza curarsi delle guardie che gli intimavano di mettersi nella fila. Roma, in fondo, si disegnava oscura sopra una zona di luce gialla come zolfo; e le statue in sommo della basilica di San Giovanni entro un ciel viola, fuor della zona, grandeggiavano. Allora ebbe Andrea la conscienza intera del male ch’egli faceva soffrire a quell’anima.
    La sera, in casa Giustiniani, disse all’Albónico:
  • Riman dunque fermo che domani, dalle due alle cinque, io vi aspetterò.
    Ella voleva chiedergli:
  • Come? non vi battete, domani?
    Ma non osò. Rispose:
  • Ho promesso.
    Poco tempo dopo, si accostò ad Andrea il marito, mettendoglisi a braccio con affettuosa premura, per chiedergli notizie del duello. Egli era un uomo ancor giovine, biondo, elegante, con i capelli molto radi, con l’occhio biancastro, con i due canini sporgenti fuor dalle labbra. Aveva una leggera balbuzie.
  • Dunque? Dunque? Domani, eh?
    Andrea non sapeva vincere la ripugnanza; e teneva il braccio teso lungo il fianco, per dimostrare che non amava quella familiarità. Come vide entrare il barone di Santa Margherita, si liberò dicendo:
  • Mi preme di parlare col Santa Margherita. Scusate, conte.
    Il barone l’accolse con queste parole:
  • Tutto è stabilito.
  • Bene. Per che ora?
  • Per le dieci e mezzo, alla Villa Sciarra. Spada e guanto di sala. A oltranza.
  • Chi sono gli altri due?
  • Roberto Casteldieri e Carlo de Souza. Ci siamo sbrigati sùbito, evitando le formalità. Giannetto aveva già pronti i suoi. Abbiamo steso il verbale di scontro, al Circolo, senza discussione. Cerca di non andare a letto troppo tardi; mi raccomando. Tu devi essere stanco.
    Per millanteria, uscendo di casa Giustiniani, Andrea andò al Circolo delle Cacce; e si mise a giocare cogli sportsmen napoletani. Verso le due il Santa Margherita lo sorprese, lo forzò ad abbandonare il tavolo, e volle ricondurlo a piedi fino al palazzo Zuccari.
  • Mio caro, – ammoniva, in cammino – tu sei troppo temerario. In questi casi, un’imprudenza può esser fatale. Per conservarsi intatta la vigoria, un buono spadaccino deve avere a sé medesimo le cure che ha un buon tenore per conservarsi la voce. Il polso è delicato quanto la laringe; le articolazioni delle gambe sono delicate quanto le corde vocali. Intendi? Il meccanismo si risente d’ogni minimo disordine; lo strumento si guasta, non obedisce più. Dopo una notte d’amore o di giuoco o di crapula, anche le stoccate di Camillo Agrippa non potrebbero andar diritte e le parate non potrebbero essere né esatte né veloci. Ora, basta sbagliare d’un millimetro per prendersi tre pollici di ferro in corpo.
    Erano al principio della via de’ Condotti; e vedevano, al fondo, la piazza di Spagna illuminata dalla piena luna, la scala biancheggiante, la Trinità de’ Monti alta nell’azzurro soave.
  • Tu, certo, – seguitò il barone – hai molti vantaggi su l’avversario: tra gli altri, il sangue freddo e la pratica del terreno. T’ho veduto a Parigi contro il Gavaudan. Ti ricordi? Gran bel duello! Ti battesti come un dio.
    Andrea si mise a ridere di compiacenza. L’elogio di quell’insigne duello gli gonfiava il cuore d’orgoglio, gli metteva nei nervi una sovrabbondanza di forze. La sua mano, istintivamente, stringendo il bastone faceva atto di ripetere il famoso colpo che trafisse il braccio al marchese di Gavaudan il 12 dicembre del 1885.
  • Fu – egli disse – una « contro di terza » e un « filo ».
    E il barone riprese:
  • Giannetto Rùtolo, su la pedana, è un discreto tiratore; sul terreno, è di primo impeto. S’è battuto una volta sola, con mio cugino Cassìbile; e n’è uscito male. Fa molto abuso di « uno, due » e di « uno, due, tre », attaccando. Ti gioveranno gli « arresti in tempo » e specialmente le « inquartate ». Mio cugino, appunto, lo bucò con una « inquartata » netta, al secondo assalto. E tu sei un tempista forte. Abbi però l’occhio sempre vigile, e cerca di conservar la misura. Sarà bene che tu non dimentichi d’avere a fronte un uomo a cui hai presa, dicono, l’amante e su cui hai levato il frustino.
    Erano nella piazza di Spagna. La Barcaccia metteva un chioccolìo roco ed umile, luccicando alla luna che vi si specchiava dall’alto della colonna cattolica. Quattro o cinque vetture publiche stavano ferme, in file, coi fanali accesi. Dalla via del Babuino giungeva un tintinnio di sonagli e un romor sordo di passi, come d’un gregge in cammino.
    A piè della scala, il barone s’accomiatò.
  • Addio, a domani. Verrò qualche minuto prima delle nove, con Ludovico. Tirerai due colpi, per scioglierti. Penseremo noi ad avvisare il medico. Va; dormi profondo.
    Andrea si mise su per la scala. Al primo ripiano si soffermò, attirato dal tintinnio dei sonagli, che s’avvicinava. Veramente, egli si sentiva un po’ stanco; a anche un po’ triste, in fondo al cuore. Dopo la fierezza suscitatagli nel sangue da quel colloquio di scienza d’arme e dal ricordo della sua bravura, una specie d’inquietudine l’invadeva, non bene distinta, mista di dubbio e di scontento. I nervi, troppo tesi in quella giornata violenta e torbida, gli si rilassavano ora, sotto la clemenza della notte primaverile. – Perché, senza passione, per puro capriccio, per sola vanità, per sola prepotenza, erasi egli compiaciuto di sollevare un odio e di rendere dolorosa l’anima di un uomo? – Il pensiero della orribile pena che certo doveva affliggere il suo nemico, in una notte così dolce, gli mosse quasi un senso di pietà. L’imagine di Elena gli traversò il cuore, in un baleno; gli tornarono nella mente le angosce durate un anno innanzi, quando egli l’aveva perduta, e le gelosie, e le collere, e gli sconforti inesprimibili. – Anche allora le notti erano chiare, tranquille, solcate di profumi; e come gli pesavano! – Aspirò l’aria, per ove salivano i fiati delle rose fiorite ne’ piccoli giardini laterali; e guardò giù nella piazza passare il gregge.
    La folta lana biancastra delle pecore agglomerate procedeva con un fluttuamento continuo, accavallandosi, a similitudine d’un’acqua fangosa che inondasse il lastrico. Qualche belato tremulo mescevasi al tintinno; altri belati, più sottili, più timidi, rispondevano; i butteri gittavano di tratto in tratto un grido e distendevano le aste, cavalcando dietro e a’ fianchi; la luna dava a quel passaggio d’armenti, per mezzo alla gran città addormentata, non so che mistero quasi di cosa veduta in sogno.
    Andrea si ricordò che in una notte serena di febbraio, uscendo da un ballo dell’Ambasciata inglese nella via Venti Settembre, egli ed Elena avevano incontrata una mandra; e la carrozza aveva dovuto fermarsi. Elena, china al cristallo, guardava le pecore passar rasente le ruote e indicava gli agnelli più piccoli, un un’allegria infantile; ed egli teneva il suo viso accosto al viso di lei, socchiudendo gli occhi, ascoltando lo scalpiccìo, i belati, il tintinno.
    Perché mai gli tornavano ora tutte quelle memorie di Elena? – Riprese a salire, lentamente. Sentì più grave, nel salire, la sua stanchezza; i ginocchi gli si piegavano. Gli lampeggiò d’improvviso il pensiero della morte. « S’io rimanessi ucciso? S’io ricevessi una cattiva ferita e n’avessi per tutta la vita un impedimento? » La sua avidità di vivere e di godere si sollevò contro quel pensiero lugubre. Egli disse a sé medesimo: « Bisogna vincere. » E vide tutti i vantaggi ch’egli avrebbe avuti da quell’altra vittoria: il prestigio della sua fortuna, la fama della sua prodezza, i baci di Donna Ippolita, nuovi amori, nuovi godimenti, nuovi capricci.
    Allora, dominando ogni agitazione, si mise a curare l’igiene della sua forza. Dormì fino a che non fu risvegliato dalla venuta dei due amici; prese la doccia consueta; fece distendere sul pavimento la striscia d’incerato; e invitò il Santa Margherita a tirar due « cavazioni » e quindi il Barbarisi a un breve assalto, durante il quale compì con esattezza parecchie azioni di tempo.
  • Ottimo pugno – disse il barone, congratulandosi.
    Dopo l’assalto, lo Sperelli, prese due tazze di tè e qualche biscotto leggero. Scelse un paio di calzoni larghi, un paio di scarpe comode e col tacco molto basso, una camicia poco inamidata; preparò il guanto, bagnandolo alquanto su la palma e spargendolo di pece greca in polvere: vi unì una stringa di cuoio per fermar l’elsa al polso; esaminò la lama e la punta delle due spade; non dimenticò alcuna cautela, alcuna minuzia.
    Quando fu pronto, disse:
  • Andiamo. Sarà bene che ci troviamo sul terreno prima degli altri. Il medico?
    Aspetta di là.
    Giù per le scale, egli incontrò il duca di Grimiti che veniva anche da parte della marchesa d’Ateleta.
  • Vi seguirò nella villa, e porterò poi sùbito la notizia a Francesca – disse il duca.
    Discesero tutti insieme. Il duca salì nel suo legnetto, salutando. Gli altri salirono nella carrozza coperta. Andrea non ostentava il buon umore, perché i motti prima d’un duello grave gli parevano di pessimo gusto; ma era tranquillissimo. Fumava, ascoltando il Santa Margherita e il Barbarisi discutere, a proposito d’un recente caso avvenuto in terra di Francia, se fosse o non fosse lecito adoperar la mano sinistra contro l’avversario. Di tratto in tratto, chinavasi allo sportello per guardar nella via.
    Roma splendeva, nel mattino di maggio, abbracciata dal sole. Lungo la corsa, una fontana illustrava del suo riso argenteo una piazzetta ancor nell’ombra; il portone d’un palazzo mostrava il fondo d’un cortile ornato di portici e di statue; dall’architrave barocco d’una chiesa di travertino pendevano i paramenti del mese di Maria. Sul ponte apparve il Tevere lucido fuggente tra le case verdastre, verso l’isola di San Bartolomeo. Dopo un tratto di salita, apparve la città immensa, augusta, radiosa, irta di campanili, di colonne e d’obelischi, incoronata di cupole e di rotonde, nettamente intagliata, come un’acropoli, nel pieno azzurro.
  • Ave, Roma. Moriturus te salutat – disse Andrea Sperelli, gittando il residuo della sigaretta, verso l’Urbe.
    Poi soggiunse:
  • In verità, cari amici, un colpo di spada oggi mi seccherebbe.
    Erano nella Villa Sciarra, già per metà disonorata dai fabricatori di case nuove; e passavano in un viale di lauri alti e snelli, tra due spalliere di rose. Il Santa Margherita, sporgendosi fuor dello sportello, vide un’altra carrozza, ferma sul piazzale, d’innanzi alla villa; e disse:
  • Ci aspettano già.
    Guardò l’orologio. Mancavano dieci minuti all’ora precisa. Fece fermare il legno; e insieme col testimone e col chirurgo si diressero verso gli avversari. Andrea rimase nel viale, ad attendere. Mentalmente, si mise a svolgere alcune azioni di offesa e di difesa, ch’egli intendeva eseguire con probabilità di esito; ma lo distraevano i vaghi miracoli della luce e dell’ombra per l’intrico dei lauri. I suoi occhi erravano dietro le apparenze dei rami commossi dal vento mattutino, mentre il suo animo meditava la ferita; e gli alberi, gentili come nelle amorose allegorie di Francesco Petrarca, gli facevano sospiri in sul capo ove regnava il pensiero del buon colpo.
    Sopraggiunse a chiamarlo il Barbarisi, dicendo:
  • Siamo pronti. Il custode ha aperto la villa. Abbiamo a disposizione le stanze terrene; una gran comodità. Vieni a spogliarti.
    Andrea lo seguì. Mentre si spogliava, i due medici aprivano i loro astucci dove riscintillavano i piccoli strumenti d’acciaio. Uno era ancor giovine, pallido, calvo, con le mani feminee, con la bocca un po’ cruda, con un continuo visibile attrito della mandibola inferiore sviluppata straordinariamente. L’altro era già maturo, fatticcio, sparso di lentiggini, con una folta barba rossastra, con un collo taurino. L’uno pareva la contraddizione fisica dell’altro; e la lor diversità richiamava l’attenzion curiosa dello Sperelli. Preparavano, sopra un tavolo, le fasce e l’acqua fenicata per disinfettar le lame. L’odore dell’acido spandevasi nella stanza.
    Quando lo Sperelli fu in assetto, uscì col suo testimone e con i medici, sul piazzale. Ancóra una volta, lo spettacolo di Roma tra le palme attrasse i suoi sguardi e gli diede un gran palpito. L’impazienza l’invase. Egli avrebbe voluto già trovarsi in guardia e udire il comando dell’attacco. Gli pareva d’aver nel pugno il colpo decisivo, la vittoria.
  • Pronto? – gli chiese il Santa Margherita, andandogli incontro.
  • Pronto.
    Il terreno scelto era a fianco della villa, nell’ombra, sparso di fina ghiaia e battuto. Giannetto Rùtolo stava già all’altra estremità, con Roberto Casteldieri e con Carlo de Souza. Ciascuno aveva assunto un’aria grave, quasi solenne. I due avversarii furono posti l’uno di fronte all’altro; e si guardarono. Il Santa Margherita, che aveva il comando del combattimento, notò la camicia di Giannetto Rùtolo fortemente inamidata, troppo salda, con il colletto troppo alto; e fece osservar la cosa al Casteldieri, ch’era il secondo. Questi parlò al suo primo; e lo Sperelli vide il nemico accendersi d’improvviso nel volto e con un gesto risoluto far l’atto di scamiciarsi. Egli, con tranquillità fredda, seguì l’esempio; si rimboccò i pantaloni; prese dalle mani del Santa Margherita il guanto, la stringa e la spada; si armò con molta cura, e quindi agitò l’arma per accertarsi di averla bene impugnata. In quel moto, il bicipite emerse visibilissimo, rivelando il lungo esercizio del braccio e l’acquisito vigore.
    Quando i due stesero le spade per prendere la misura, quella di Giannetto Rùtolo oscillava in un pugno convulso. Dopo l’ammonimento d’uso intorno la lealtà, il barone di Santa Margherita comandò con una voce squillante e virile:
  • Signori, in guardia!
    I due scesero in guardia nel tempo medesimo, il Rùtolo battendo il piede, lo Sperelli inarcandosi con leggerezza. Il Rùtolo era di statura mediocre, assai smilzo, tutto nervi, con una faccia olivastra a cui davan fierezza le punte de’ baffi rilevate e la piccola barba acuta in sul mento, alla maniera di Carlo I ne’ ritratti del Van Dyck. Lo Sperelli era più alto, più slanciato, più composto, bellissimo nell’attitudine, fermo e tranquillo in un equilibrio di grazia e di forza, con in tutta la persona una sprezzatura di grande signore. L’uno guardava l’altro entro gli occhi; e ciascuno provava internamente un indefinibile brivido alla vista dell’altrui carne nuda contro cui appuntavasi la lama sottile. Nel silenzio, udivasi il mormorio fresco della fontana misto al fruscìo del vento su per i rosai rampicanti ove le innumerevoli rose bianche e gialle tremolavano.
  • A loro! – comandò il barone.
    Andrea Sperelli aspettava dal Rùtolo un attacco impetuoso; ma colui non si mosse. Per un minuto, ambedue rimasero a studiarsi, senza avere il contatto del ferro, quasi immobili. Lo Sperelli, chinandosi ancor più su’ garretti, in guardia bassa, si scoperse interamente, col portar la spada molto in terza; e provocò l’avversario, con l’insolenza degli occhi e col batter del piede. Il Rùtolo venne innanzi con una finta di botta diritta, accompagnandola con una voce, alla maniera di certi spadaccini siciliani; e l’assalto incominciò.
    Lo Sperelli non isviluppava alcuna azione decisiva, limitandosi quasi sempre alle parate, costringendo l’avversario a scoprire tutte le intenzioni, a esaurire tutti i mezzi, a svolgere tutte le varietà del gioco. Parava netto e veloce, senza ceder terreno, con una precision mirabile, come s’ei fosse su la pedana, in un’academia di scherma, d’innanzi a un fioretto innocuo; mentre il Rùtolo attaccava con ardore, accompagnando ogni botta con un grido spento, simile a quello degli abbattitori d’alberi in esercitar l’accetta.
  • Alt! – comandò il Santa Margherita, a’ cui vigili occhi non isfuggiva alcun moto delle due lame.
    E si accostò al Rùtolo, dicendo:
  • Ella è toccato, se non erro.
    Infatti, colui aveva una scalfittura su l’antibraccio, ma così lieve che non ci fu nemmen bisogno del taffetà. Alenava però; e la sua estrema pallidezza, cupa come un lividore, era un segno dell’ira contenuta. Lo Sperelli, sorridendo, disse a bassa voce al Barbarisi:
  • Conosco ora il mio uomo. Gli metterò un garofano sotto la mammella destra. Sta attento al secondo assalto.
    Poiché, senza badarci, egli posò a terra la punta della spada, il dottor calvo, quel della gran mandibola, venne a lui con la spugna imbevuta d’acqua fenicata e disinfettò di nuovo la lama.
  • Per iddio! – mormorò Andrea al Barbarisi. – M’ha l’aria d’un iettatore. Questa lama si rompe.
    Un merlo si mise a fischiare tra gli alberi. Ne’ rosai qualche rosa sfogliavasi e disperdevasi al vento. Alcune nuvole a mezz’aria salivano incontro al sole, rade, simili a velli di pecore; e si disfacevano in bioccoli; e a mano a mano si dileguavano.
  • In guardia!
    Giannetto Rùtolo, conscio della sua inferiorità al paragon del nemico, risolse di lavorar sotto misura, alla disperata, e di rompere così ogni azion seguita dell’altro. Egli aveva da ciò la bassa statura e il corpo agile, esile, flessibile, che offriva assai poco bersaglio ai colpi.
  • A loro!
    Andrea Sperelli sapeva già che il Rùtolo sarebbesi avanzato in quel modo, con le solite finte. Egli stava in guardia inarcato come una balestra pronta a scoccare, intento per scegliere il tempo.
  • Alt! – gridò il Santa Margherita.
    Il petto del Rùtolo faceva un po’ di sangue. La spada dell’avversario eragli penetrata sotto la mammella destra, ledendo i tessuti fin quasi alla costola. I medici accorsero. Ma il ferito disse sùbito al Casteldieri, con voce rude, in cui sentivasi un tremito di collera:
  • Non è nulla. Voglio seguitare.
    Egli si rifiutò di rientrare nella villa per la medicatura. Il dottor calvo, dopo aver spremuto il piccolo fòro, appena sanguinante e dopo avergli fatta una lavanda antisettica, applicò un semplice pezzo di drappo; e disse:
  • Può seguitare.
    Il barone, per invito del Casteldieri, senza indugio comandò il terzo assalto.
  • In guardia!
    Andrea Sperelli s’avvide del pericolo. Di fronte a lui il nemico, tutto raccolto su i garretti, quasi direi nascosto dietro la punta della sua lama, appariva risoluto a un supremo sforzo. Gli occhi gli brillavano singolarmente e la coscia sinistra, per l’eccessiva tension de’ muscoli, gli tremava forte. Andrea questa volta, contro l’impeto, si preparava a gittarsi da banda per ripetere il colpo decisivo del Cassìbile, e il disco bianco del drappo sul petto ostile servivagli da bersaglio. Egli ambiva rimettere ivi la stoccata ma trovar lo spazio intercostale, non la costa. D’intorno, il silenzio pareva più profondo; tutti gli astanti avevano conscienza della volontà micidiale che animava que’ due uomini; e l’ansietà li teneva, e li stringeva il pensiero di dover forse ricondurre a casa un morto o un morente. Il sole, velato dalle pecorelle, spandeva una luce quasi lattea; le piante, or sì or no, stormivano; il merlo fischiava ancóra, invisibile.
  • A loro!
    Il Rùtolo si precipitò sotto misura, con due giri di spada e con una botta in seconda. Lo Sperelli parò e rispose, facendo un passo indietro. Il Rùtolo incalzava, furioso, con stoccate velocissime, quasi tutte basse, non accompagnandole più con i gridi. Lo Sperelli, senza sconcertarsi a quella furia, volendo evitare un incontro, parava forte e rispondeva con tale acredine che ogni sua botta avrebbe potuto passar fuor fuora il nemico. La coscia del Rùtolo, presso l’inguine, sanguinava.
  • Alt! – tuonò il Santa Margherita quando se n’accorse.
    Ma in quell’attimo appunto lo Sperelli, facendo una parata di quarta bassa e non trovando il ferro avversario, ricevé in pieno torace un colpo; e cadde tramortito su le braccia del Barbarisi.
  • Ferita toracica, al quarto spazio intercostale destro, penetrante in cavità, con lesione superficiale del polmone – annunziò nella stanza, quand’ebbe osservato, il chirurgo taurino.

Il Piacere. Libro Primo [4]

 Elena, dopo poco, aveva lasciato il palazzo Farnese, quasi di nascosto, senza prender congedo né da Andrea né da alcun altro. Era dunque rimasta al ballo appena mezz’ora. L’amante l’aveva cercata per tutte le sale, a lungo e invano.

La mattina seguente, egli mandò un servo al palazzo Barberini per avere notizie di lei; e seppe ch’ella stava male. La sera andò di persona, sperando d’esser ricevuto; ma una camerista gli disse che la signora soffriva molto e che non poteva vedere nessuno. Il sabato, verso le cinque del pomeriggio, tornò, sempre sperando.
Egli usciva dalla casa Zuccari, a piedi. Era un tramonto paonazzo e cinereo, un po’ lugubre, che a poco a poco si stendeva su Roma come un velario greve. Intorno alla fontana della piazza Barberini i fanali già ardevano, con fiammelle pallidissime, come ceri intorno a un feretro; e il Tritone non gittava acqua, forse per causa d’un restauro o d’una pulitura. Venivano giù per la discesa carri tirati da due o da tre cavalli messi in file e torme d’operai tornanti dalle opere nuove. Alcuni, allacciati per le braccia, si dondolavano cantando a squarciagola una canzone impudica.
Egli si fermò, per lasciarli passare. Due o tre di quelle figure rossastre e bieche gli rimasero impresse. Notò che un carrettiere aveva una mano fasciata e le fasce macchiate di sangue. Anche, notò un altro carrettiere in ginocchio sul carro, che aveva la faccia livida, le occhiaie cave, la bocca contratta, come un uomo attossicato. Le parole della canzone si mescevano ai gridi gutturali, ai colpi delle fruste, al rumore delle ruote, al tintinnio dei sonagli, alle ingiurie, alle bestemmie, alle aspre risa.
La sua tristezza s’aggravò. Egli si trovava in una disposizion di spirito strana. La sensibilità de’ suoi nervi era così acuta che ogni minima sensazione a lui data dalle cose esteriori pareva una ferita profonda. Mentre un pensiero fisso occupava e tormentava tutto il suo essere, egli aveva tutto il suo essere esposto agli urti della vita circostante. Contro ogni alienazione della mente ed ogni inerzia della volontà, i suoi sensi rimanevano vigili ed attivi; e di quell’attività egli aveva una conscienza non esatta. I gruppi delle sensazioni gli attraversavano d’improvviso lo spirito, simili a grandi fantasmagorie in una oscurità; e lo turbavano e sbigottivano. Le nuvole del tramonto, la forma del Tritone cupa in un cerchio di fanali smorti, quella discesa barbarica d’uomini bestiali e di giumenti enormi, quelle grida, quelle canzoni, quelle bestemmie esasperavano la sua tristezza, gli suscitavano nel cuore un timor vago, non so che presentimento tragico.
Una carrozza chiusa usciva dal giardino. Egli vide chinarsi al cristallo un volto di donna, in atto di saluto; ma non lo riconobbe. Il palazzo levavasi d’innanzi a lui, ampio come una reggia; le vetrate del primo piano brillavano di riflessi violacei; su la sommità indugiava un bagliore fievole; dal vestibolo usciva un’altra carrozza chiusa.
« Se potessi vederla! » egli pensò, soffermandosi. Rallentava il passo, per prolungare l’incertezza e la speranza. Ella gli pareva assai lontana, quasi perduta, in quell’edificio così vasto.
La carrozza si fermò; e un signore mise il capo fuori dello sportello, chiamando:

  • Andrea!
    Era il duca di Grimiti, un parente.
  • Vai dalla Scerni? – chiese colui con un sorriso fine.
  • Sì, – rispose Andrea – a prendere notizie. Tu sai, è malata.
  • Lo so. Vengo di là. Sta meglio.
  • Riceve?
  • Me, no. Ma potrà forse ricever te.
    E il Grimiti si mise a ridere maliziosamente, tra il fumo della sua sigaretta.
  • Non capisco – fece Andrea, serio.
  • Bada; si dice già che tu sia in favore. L’ho saputo iersera, in casa Pallavicini; da una tua amica: te lo giuro.
    Andrea fece un atto d’impazienza e si voltò per andarsene.
  • Bonne chance! – gli gridò il duca.
    Andrea entrò sotto il portico. In fondo a lui, la vanità godeva di quella diceria già sorta. Egli ora si sentiva più sicuro, più leggero, quasi lieto, pieno d’un intimo compiacimento. Le parole del Grimiti gli avevano d’un tratto sollevato gli spiriti, come un sorso d’un liquor cordiale. Mentre saliva le scale, gli cresceva la speranza. Giunto avanti alla porta, aspettò per contenere l’ansia. Suonò.
    Il servo lo riconobbe; e disse sùbito:
  • Se il signor conte ha la bontà d’attendere un momento, vado ad avvertire Mademoiselle.
    Egli assentì; e si mise a passeggiare su e giù per la vasta anticamera ove gli pareva ripercuotersi forte il tumulto del suo sangue. Le lanterne di ferro battuto illuminavano inegualmente il cuoio delle pareti, le cassapanche scolpite, i busti antichi su’ piedistalli di broccatello. Sotto il baldacchino splendeva di ricami l’impresa ducale; un liocorno d’oro in campo rosso. In mezzo a un tavolo, un piatto di bronzo era colmo di biglietti; e, gittandovi gli occhi sopra, Andrea vide quello recente del Grimiti. « Bonne chance! » Gli risonava ancor negli orecchi l’augurio ironico.
    Madamoiselle apparve, dicendo:
  • La duchessa sta un poco meglio. Credo che il conte potrà passare, un momento. Venga, di grazia, con me.
    Ella era una donna di gioventù già sfiorita, piuttosto sottile, vestita di nero, con due occhi grigi che scintillavano singolarmente tra i falsi ricci biondicci. Aveva il passo e il gesto lievissimi, quasi furtivi, come di chi abbia la consuetudine di vivere intorno agli infermi o di attendere ad uffici delicati o di eseguire ordini di segretezza.
  • Venga, signor conte.
    Ella precedeva Andrea, lungo le stanze appena rischiarate, su i tappeti folti che attenuavano ogni rumore; e il giovine, pur nell’irrefrenabile tumulto del suo spirito, provava contro di lei un senso istintivo di repulsione, senza sapere perché.
    Giunta innanzi a una porta che coprivano due bande di tappezzeria medìcea orlate di velluto rosso, ella si fermò, dicendo:
  • Entro prima io, ad annunziarla. Attenda qui.
    Una voce di dentro, la voce di Elena, chiamò:
  • Cristina!
    Andrea si sentì tremar le vene con tal furia a quel suono inaspettato, che pensò: « Ecco, ora vengo meno. » Aveva come l’antiveggenza indistinta d’una qualche felicità soprannaturale, superante la sua aspettazione, avanzante i suoi sogni, soverchiante le sue forze. – Ella era là, oltre quella soglia. – Ogni nozione della realità fuggiva dal suo spirito. Gli pareva d’aver, un tempo, pittoricamente o poeticamente imaginata una simile avventura d’amore, in quello stesso modo, con quello stesso apparato, con quello stesso fondo, con quello stesso mistero; e un altro, un suo personaggio imaginario, n’era l’eroe. Ora, per uno strano fenomeno fantastico, quella ideal finzione d’arte confondevasi col caso reale; ed egli provava un senso inesprimibile di smarrimento. – Ciascuna banda di arazzo recava una figura simbolica. Il Silenzio e il Sonno, due efebi, svelti e lunghi quali avrebbe potuto disegnarli il Primaticcio bolognese, custodivano la porta. Ed egli, egli proprio, eravi d’innanzi, in attesa; ed oltre la soglia, forse nel letto, respirava la divina amante. – Egli credeva udire il respiro di lei nel palpito delle sue arterie.
    Madamoiselle uscì, alfine. Tenendo sollevato con la mano il grave tessuto, disse a voce bassa, con un sorriso:
  • Può entrare.
    E si ritrasse. Andrea entrò.
    Ebbe, da prima, l’impressione d’un’aria assai calda, quasi soffocante: sentì nell’aria l’odor singolare del cloroformio; scorse qualche cosa di rosso nell’ombra, il damasco rosso delle pareti, i cortinaggi del letto; udì la voce stanca di Elena, che mormorava:
  • Vi ringrazio, Andrea, d’esser venuto. Sto meglio.
    Un poco esitando, poiché non vedeva distintamente le cose a quel lume fievole, s’avanzò fino al letto.
    Ella sorrideva, col capo affondato su i guanciali, supina, nella mezz’ombra. Una zona di lana bianca le fasciava la fronte e le gote, passando di sotto al mento, come un soggólo monacale; né la pelle del volto era men bianca di quella fascia. Gli angoli esterni delle palpebre si restringevano per la contrazion dolorosa dei nervi infiammati; a intervalli la palpebra inferiore aveva un piccolo tremolio involontario; e l’occhio era umido, infinitamente soave, come velato da una lacrima che non potesse sgorgare, quasi implorante, fra i cigli che trepidavano.
    Una immensa tenerezza invase il cuore del giovine, quando la vide da presso. Elena trasse fuori una mano e gliela tese, con un gesto assai lento. Egli si chinò, quasi in ginocchio contro la proda del letto; e si mise a coprir di baci rapidi e leggeri quella mano che ardeva, quel polso che batteva forte.
  • Elena! Elena! Mio amore!
    Elena aveva chiuso gli occhi, come per gustare più intimamente il rivo di piacere che le saliva dal braccio e le si effondeva a sommo del petto e le s’insinuava nelle fibre più segrete. Volgeva la mano, sotto la bocca di lui, per sentire i baci su la palma, sul dosso, tra le dita, intorno intorno al polso, su tutte le vene, in tutti i pori.
  • Basta! – mormorò, riaprendo gli occhi; e con la mano che le parve un po’ intorpidita sfiorò i capelli d’Andrea.
    In quella carezza così tenue era tanto abbandono che fu su l’anima di lui la foglia di rosa sul calice colmo. La passione traboccò. Gli tremavano le labbra, sotto l’onda confusa di parole ch’egli non conosceva, ch’egli non profferiva. Aveva la sensazione violenta e divina come d’una vita che si dilatasse oltre le sue membra.
  • Che dolcezza! E’ vero? – disse Elena, sommessa, ripetendo quel gesto blando. E un brivido visibile le corse la persona, a traverso le coperte pesanti.
    Poiché Andrea fece l’atto di prenderle di nuovo la mano, ella pregava…
  • No… Così, resta così! Mi piaci!
    Premendogli la tempia, lo costrinse a posare il capo su la sponda, per modo ch’egli sentiva contro una guancia la forma del ginocchio di lei. Lo guardò quindi ella un poco, pur sempre accarezzandogli i capelli; e con una voce morente di delizia, mentre le passava tra’ cigli qualche cosa come un baleno bianco, soggiunse, allungando le parole:
  • Quanto mi piaci!
    Un inesprimibile allettamento voluttuoso era nell’apertura delle sue labbra, quando pronunziava la prima sillaba di quel verbo così liquido e sensuale in bocca a una donna.
  • Ancóra! – mormorò l’amante, i cui sensi languivano di passione, alla carezza delle dita, alla lusinga della voce di lei. – Ancóra! Dimmi! Parla!
  • Mi piaci! – ripeteva Elena, vedendo ch’egli la guardava fiso nelle labbra e forse conoscendo il fascino ch’ella emanava con quella parola.
    Poi tacquero ambedue. L’uno sentiva la presenza dell’altra fluire e mescersi nel suo sangue, finché questo divenne la vita di lei e il sangue di lei la vita sua. Un silenzio profondo ingrandiva la stanza; il crocifisso di Guido Reni faceva religiosa l’ombra dei cortinaggi; il romore dell’Urbe giungeva come il murmure d’un flutto assai lontano.
    Allora, con un movimento repentino, Elena si sollevò sul letto, strinse fra le due palme il capo del giovine, l’attirò, gli alitò sul volto il suo desiderio, lo baciò, ricadde, gli si offerse.
    Dopo, una immensa tristezza la invase; la occupò l’oscura tristezza che è in fondo a tutte le felicità umane, come alla foce di tutti i fiumi è l’acqua amara. Ella, giacendo, teneva le braccia fuori dalla coperta abbandonate lungo i fianchi, le mani supine, quasi morte, agitate di tratto in tratto da un lieve sussulto; e guardava Andrea, con gli occhi bene aperti, con uno sguardo continuo, immobile, intollerabile. A una a una, le lacrime incominciarono a sgorgare; e scendevano per le gote a una a una, silenziosamente.
  • Elena, che hai! Dimmi: che hai? – le chiese l’amante, prendendole i polsi, chinandosi a suggerle dai cigli le lacrime.
    Ella stringeva forte i denti e le labbra per contenere il singulto.
  • Nulla. Addio. Lasciami; ti prego! Mi vedrai domani. Va.
    La sua voce e il suo gesto furono così supplichevoli che Andrea obbedì.
  • Addio – egli disse; e la baciò in bocca, teneramente, provando il sapore delle stille salse, bagnandosi di quel caldo pianto. – Addio. Amami! Ricòrdati!
    Gli parve, rivarcando la soglia, di udire dietro di sé uno scoppio di singulti. Andò innanzi, un po’ incerto, titubante come un uomo che abbia la vista malsicura. Gli persisteva nel senso l’odore del cloroformio, simile a un vapor d’ebrezza; ma ad ogni passo qualche cosa d’intimo gli sfuggiva, si disperdeva nella’aria; ed egli, per un istintivo impulso, avrebbe voluto restringersi, chiudersi, invilupparsi, impedire quella dispersione. Le stanze erano deserte e mute, d’innanzi. A una porta, Madamoiselle comparve, senza alcun rumore di passi, senza alcun fruscìo di vesti, come un fantasma.
  • Di qua, signor conte. Ella non ritrova la via.
    Sorrideva in una maniera ambigua e irritante; e la curiosità rendeva più pungenti i suoi occhi grigi. Andrea non parlò. Di nuovo la presenza di quella donna gli era molesta, lo turbava, gli suscitava quasi un vago ribrezzo, gli faceva ira.
    Appena fu sotto il portico, respirò come un uomo liberato da un’angoscia. La fontana metteva tra gli alberi un chioccolìo sommesso, rompendo a tratti in uno strepito sonoro; tutto il cielo risfavillava di stelle che certe nuvole lacere avvolgevano come in lunghe capigliature cineree o in vaste reti nere; fra i colossi di pietra, a traverso i cancelli, apparivano e sparivano i fanali delle vetture in corsa; spandevasi nell’aria fredda il soffio della vita urbana; le campane sonavano, da lungi e da presso. Egli aveva alfine la conscienza intera della sua felicità.
    Una felicità piena, obliosa, libera, sempre novella, tenne ambedue, dopo d’allora. La passione li avvolse, e li fece incuranti di tutto ciò che per ambedue non fosse un godimento immediato. Ambedue, mirabilmente formati nello spirito e nel corpo all’esercizio di tutti i più alti e più rari diletti, ricercavano senza tregua il Sommo, l’Insuperabile, l’Inarrivabile; e giungevano così oltre, che talvolta una oscura inquietudine li prendeva pur nel colmo dell’oblio, quasi una voce d’ammonimento salisse dal fondo dell’essere loro ad avvertirli d’un ignoto castigo, d’un termine prossimo. Dalla stanchezza medesima il desiderio risorgeva più sottile, più temerario, più imprudente; come più s’inebriavano, la chimera del loro cuore ingigantiva, s’agitava, generava nuovi sogni; parevano non trovar riposo che nello sforzo, come la fiamma non trova la vita che nella combustione. Talvolta, una fonte di piacere inopinata aprivasi dentro di loro, come balza d’un tratto una polla viva sotto le calcagna d’un uomo che vada alla ventura per l’intrico d’un bosco; ed essi vi bevevano senza misura, finché non l’avevano esausta. Talvolta, l’anima, sotto l’influsso dei desiderii, per un singolar fenomeno d’allucinazione, produceva l’imagine ingannevole d’una esistenza più larga, più libera, più forte, « oltrapiacente »; ed essi vi s’immergevano, vi godevano, vi respiravano come in una loro atmosfera natale. Le finezze e le delicatezze del sentimento e dell’imaginazione succedevano agli eccessi della sensualità.
    Ambedue non avevano alcun ritegno alle mutue prodigalità della carne e dello spirito. Provavano una gioia indicibile a lacerare tutti i veli, a palesare tutti i segreti, a violare tutti i misteri, a possedersi fin nel profondo, a penetrarsi, a mescolarsi, a comporre un essere solo.
  • Che strano amore! – diceva Elena, ricordando i primissimi giorni, il suo male, la rapida dedizione. – Mi sarei data a te la sera stessa ch’io ti vidi.
    Ella ne provava una specie d’orgoglio. E l’amante diceva:
  • Quando udii, quella sera, annunziare il mio nome accanto al tuo, su la soglia, ebbi, non so perché, la certezza che la mia vita era legata alla tua, per sempre!
    Essi credevano quel che dicevano. Rilessero insieme l’elegia romana del Goethe: « Lass dich, Geliebte, nicht reun, dass du mir so schnell dich ergeben!… Non ti pentire, o diletta, d’esserti così prontamente concessa! Credimi, io di te non serbo alcun pensiero basso e impuro. Gli strali d’Amore han vario effetto: gli uni graffiano appena, e del tossico che s’insinua il suo cuor soffre molt’anni; bene pennuti e armati d’un ferro aguzzo e vivo, gli altri penetrano nel midollo e subitamente infiammano il sangue. Ai tempi eroici, quando gli dei e le dee amavano, il desio seguiva lo sguardo, il godimento seguiva il desio. Credi tu che la dea dell’Amore abbia a lungo meditato quando sotto i boschetti d’Ida, Anchise un giorno le piacque? E la Luna? S’ella esitava, l’Aurora gelosa avrebbe presto risvegliato il bel pastore! Ero vede Leandro in piena festa, e l’acceso amante si tuffa nell’onda notturna. Rea Silva, la vergine regia, va ad attingere acqua nel Tevere e la ghermisce il dio… »
    Come per il divino elegiopèo di Faustina, per essi Roma s’illuminava d’una voce novella. Ovunque passavano, lasciavano una memoria d’amore. Le chiese remote dell’Aventino: Santa Sabina su le belle colonne di marmo pario, il gentil verziere di Santa Maria del Priorato, il campanile di Santa Maria in Cosmedin, simile a un vivo stelo roseo nell’azzurro, conoscevano il loro amore. Le ville dei cardinali e dei principi: la Villa Pamphily, che si rimira nelle sue fonti e nel suo lago tutta graziata e molle, ove ogni boschetto par chiuda un nobile idillio ed ove i baluardi lapidei e i fusti arborei gareggian di frequenza; la Villa Albani, fredda e muta come un chiostro, selva di marmi effigiati e museo di bussi centenarii, ove dai vestibili e dai portici, per mezzo alle colonne di granito, le cariatidi e le erme, simboli d’immobilità, contemplano l’immutabile simetria del verde; e la Villa Medici che pare una foresta di smeraldo ramificante in una luce soprannaturale; e la Villa Ludovisi, un po’ selvaggia, profumata di viole, consacrata dalla presenza della Giunone cui Wolfgang adorò, ove in quel tempo i platani d’Oriente e i cipressi dell’Aurora, che parvero immortali, rabbrividivano nel presentimento del mercato e della morte; tutte le ville gentilizie, sovrana gloria di Roma, conoscevano il loro amore. Le gallerie dei quadri e delle statue: la sala borghesiana delle Danae d’innanzi a cui Elena sorrideva quasi rivelata, e la sala degli specchi ove l’imagine di lei passava tra i putti di Ciro Ferri e le ghirlande di Mario de’ Fiori; la camera dell’Eliodoro, prodigiosamente animata della più forte palpitazion di vita che il Sanzio abbia saputo infondere nell’inerzia d’una parete, e l’appartamento dei Borgia, ove la grande fantasia del Pinturicchio si svolge in un miracoloso tessuto d’istorie, di favole, di sogni, di capricci, di artifizi e di ardiri; la stanza di Galatea, per ove si diffonde non so che pura freschezza e che serenità inestinguibile di luce, e il gabinetto dell’Ermafrodito, ove lo stupendo mostro, nato dalla voluttà d’una ninfa e d’un semidio, stende la sua forma ambigua tra il rifulgere delle pietre fini; tutte le solitarie sedi della Bellezza conoscevano il loro amore.
    Essi comprendevano l’alto grido del poeta: « Eine Welt zwar bist Du, o Rom! Tu sei un mondo, o Roma! Ma senza l’amore il mondo non sarebbe il mondo, Roma stessa non sarebbe Roma. » E la scala della Trinità, glorificata dalla lenta ascensione del Giorno, era la scala della Felicità, per l’ascensione della bellissima Elena Muti.
    Elena spesso piacevasi di salire per quei gradini al buen retiro del palazzo Zuccari. Saliva piano, seguendo l’ombra; ma l’anima sua correva rapida alla cima. Ben molte ore gaudiose misurò il piccolo teschio d’avorio dedicato ad Ippolita, che Elena talvolta accostava all’orecchio con un gesto infantile, mentre premeva l’altra guancia sul petto dell’amante, per ascoltare insieme la fuga degli attimi e il battito del cuore. Andrea le pareva sempre nuovo. Talvolta, ella rimaneva quasi attonita d’innanzi all’infaticabile vitalità di quello spirito e di quel corpo. Talvolta, le carezze di lui le strappavano un grido in cui esalavasi tutto il terribile spasimo dell’essere sopraffatto dalla violenza della sensazione. Talvolta, fra le braccia di lui, la occupava una specie di torpore quasi direi veggente, in cui ella credeva divenire, per la transfusione d’un’altra vita, una creatura diafana, leggera, fluida, penetrata d’un elemento immateriale, purissima; mentre tutte le pulsazioni nella lor moltitudine le davano imagine del tremito innumerevole d’un mar calmo in estate. Anche, talvolta, fra le braccia, sul petto di lui, dopo le carezze, ella sentiva dentro di sé la voluttà acquietarsi, agguagliarsi, addormentarsi, a similitudine di un’acqua estuante che a poco a poco si posi; ma se l’amato respirava più forte o appena appena si muoveva, ella sentiva di nuovo un’onda ineffabile attraversarla dal capo a’ piedi, vibrare diminuendo, e infine morire. Questa « spiritualizzazione » del gaudio carnale, causata dalla perfetta affinità dei due corpi, era forse il più saliente tra i fenomeni della loro passione. Elena, talvolta, aveva lacrime più dolci dei baci.
    E nei baci, che dolcezza profonda! Ci sono bocche di donne le quali paiono accendere d’amore il respiro che le apre. Le invermigli un sangue ricco più d’una porpora o le geli un pallor d’agonia, le illumini la bontà d’un consenso o le oscuri un’ombra di disdegno, le dischiuda il piacere o le torca la sofferenza, portano sempre in loro un enigma che turba gli uomini intellettuali e li attira e li captiva. Un’assidua discordia tra l’espression delle labbra e quella degli occhi genera il mistero; per che un’anima duplice vi si riveli con diversa bellezza, lieta e triste, gelida e passionata, crudele e misericorde, umile e orgogliosa, ridente e irridente; e l’ambiguità suscita l’inquietudine nello spirito che si compiace delle cose oscure. Due quattrocentisti meditativi, perseguitori infaticabili d’un Ideale raro e superno, psicologi acutissimi a cui si debbon forse le più sottili analisi della fisionomia umana, immersi di continuo nello studio e nella ricerca delle difficoltà più ardue e de’ segreti più occulti, il Botticelli e il Vinci, compresero e resero per vario modo nell’arte loro tutta l’indefinibile seduzione di tali bocche.
    Ne’ baci d’Elena era, in verità, per l’amato, l’elisir sublimissimo. Di tutte le mescolanze carnali quella pareva loro la più completa, la più appagante. Credevano, talvolta, che il vivo fiore delle loro anime si disfacesse premuto dalle labbra, spargendo un succo di delizie per ogni vena insino al cuore; e, talvolta, avevano al cuore la sensazione illusoria come d’un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Tanto era la congiunzion perfetta, che l’una forma sembrava il natural complemento dell’altra. Per prolungare il sorso, contenevano il respiro finché non si sentivan morire d’ambascia, mentre le mani dell’una tremavan su le tempie dell’altro smarritamente. Un bacio li prostrava più d’un amplesso. Distaccati, si guardavano, con gli occhi fluttuanti in una nebbia torbida. Ed ella diceva, con voce un po’ roca, senza sorridere:- Moriremo.
    Talvolta, riverso, egli chiudeva le palpebre aspettando. Ella, che conosceva quell’artifizio, chinavasi sopra di lui con meditata lentezza, a baciarlo. Non sapeva l’amato dove avrebbe ricevuto quel bacio ch’egli, nella sua volontaria cecità, vagamente presentiva. In quel minuto d’aspettazione e d’incertezza, un’ansia indescrivibile gli agitava tutte le membra, simile nell’intensità al raccapriccio d’un uomo bendato che sia sotto la minaccia d’un suggello di fuoco. Quando infine le labbra lo toccavano, frenava a stento un grido. E la tortura di quel minuto gli piaceva; poiché non di rado la sofferenza fisica nell’amore attrae più della blandizia. Elena anche, per quel singolare spirito imitativo che spinge gli amanti a rendere esattamente una carezza, voleva provare.
  • Mi sembra – diceva ad occhi chiusi – che tutti i pori della mia pelle sieno come un milione di piccole bocche anelanti alla tua, spasimanti per essere elette, invidiose l’una dell’altra…
    Egli allora, per equità, si metteva a coprirla di baci rapidi e fitti, trascorrendo tutto il bel corpo, non lasciando intatto alcun minimo spazio, non allentando la sua opera mai. Ella rideva, felice, sentendosi cingere come d’una veste invisibile; rideva e gemeva, folle, sentendo la furia di lui imperversare; rideva e piangeva, perduta, non potendo più reggere al divorante ardore. Poi, con uno sforzo repentino, faceva prigione il collo di lui fra le sue braccia, l’allacciava con i suoi capelli, lo teneva, tutto palpitante, simile a una preda. Egli, stanco, era contento di cedere e di rimaner così presto in quei vincoli. Guardandolo, ella esclamava:
  • Come sei giovine! Come sei giovine!
    La giovinezza in lui, contro tutte le corruzioni, contro tutte le dispersioni, resisteva, persisteva, a somiglianza d’un metallo inalterabile, d’un aroma indistruttibile. Lo splendor sincero della giovinezza era, appunto, la qualità sua più preziosa. Alla gran fiamma della passione, quanto in lui era più falso, più tristo, più arteficiato, più vano, si consumava come un rogo. Dopo la resoluzion delle forze, prodotta dall’abuso dell’analisi a dall’azion separata di tutte le sfere interiori, egli tornava ora all’unità delle forze, dell’azione, della vita; riconquistava la confidenza e la spontaneità; amava e godeva giovenilmente. Certi suoi abbandoni parevano d’un fanciullo inconsapevole; certe sue fantasie erano piene di grazia, di freschezza e di ardire.
  • Qualche volta – gli diceva Elena – la mia tenerezza per te si fa più delicata di quella d’un amante. Io non so… Diventa quasi materna.
    Andrea rideva, perché ella era maggiore appena di tre anni.
  • Qualche volta – egli diceva a lei – la comunione del mio spirito col tuo mi par così casta ch’io ti chiamerei sorella, baciandoti le mani.
    Queste fallaci purificazioni ed elevazioni del sentimento avvenivano sempre nei languidi intervalli del piacere, quando sul riposo della carne l’anima provava un bisogno vago d’idealità. Allora, anche, risorgevano nel giovine le idealità dell’arte ch’egli amava; e gli tumultuavano nell’intelletto tutte le forme un tempo create e contemplate, chiedendo di uscire; e le parole del monologo goethiano l’incitavano. « Che può sotto i tuoi occhi l’accesa natura? Che può la forma dell’arte intorno a te, se la passionata forza creatrice non t’empie l’anima e non affluisce alla punta delle tue dita, incessantemente, per riprodurre? » Il pensiero di dar gioia all’amante, con un verso numeroso o con una linea nobile, lo spinse all’opera. Egli scrisse La Simona; e fece le due acqueforti, dello Zodiaco e della Tazza d’Alessandro.
    Eleggeva, nell’esercizio dell’arte, gli strumenti difficili, esatti, perfetti, incorruttibili: la metrica e l’incisione; e intendeva proseguire e rinnovare le forme tradizionali italiane, con severità, riallacciandosi ai poeti dello stil novo e ai pittori che precorrono il Rinascimento. Il suo spirito era essenzialmente formale. Più che il pensiero, amava l’espressione. I suoi saggi letterarii erano esercizii, giuochi, studii, ricerche, esperimenti tecnici, curiosità. Egli pensava, con Enrico Taine, fosse più difficile compor sei versi belli che vincere una battaglia in campo. La sua Favola d’Ermafrodito imitava nella struttura la Favola di Orfeo del Poliziano; ed aveva strofe di straordinaria squisitezza, potenza e musicalità specialmente nei cori cantati da mostri di duplice natura: dai Centauri, dalle Sirene e dalle Sfingi. Questa sua nuova tragedia, La Simona, di breve misura, aveva un sapor singolarissimo. Sebbene rimata negli antichi modi toscani, pareva immaginata da un poeta inglese del secolo scorso d’Elisabetta, sopra una novella del Decamerone; chiudeva in sé qualche parte del dolce e strano incanto che c’è in certi drammi minori di Guglielmo Shakespeare.
    Il poeta segnò così la sua opera, nel frontespizio dell’Esemplare Unico: A. S. CALCOGRAPHUS AQUA FORTI SIBI TIBI FECIT.
    Il rame l’attraeva più della carta; l’acido nitrico, più dell’inchiostro; il bulino, più della penna. Già uno de’ suoi maggiori, Giusto Sperelli, aveva esperimentata l’incisione. Alcune stampe di lui, eseguite intorno l’anno 1520, rivelavano manifestamente l’influenza di Antonio Pollajuolo, per la profondità e quasi direi acerbità del segno. Andrea praticava la maniera rembrandtesca a tratti liberi e la maniera nera prediletta dagli acquafortisti inglesi della scuola del Green, del Dixon, dell’Earlom. Egli aveva formata la sua educazione su tutti gli esemplari, aveva studiata partitamente la ricerca di ciascuno intagliatore, aveva imparato da Alberto Durero e dal Parmigiano, da Marc’Antonio e dall’Holbein, da Annibale Caracci e dal Marc-Ardell, da Guido e dal Callotta, dal Toschi e da Gerardo Audran; ma l’intendimento suo, d’innanzi al rame, era questo: rischiarare con gli effetti di luce del Rembrandt le eleganze di disegno de’ Quattrocentisti fiorentini appartenenti alla seconda generazione come Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandajo e Filippino Lippi.
    I due rami recenti rappresentavano, in due episodii d’amore, due attitudini della bellezza d’Elena Muti; e prendevano il titolo dagli accessorii.
    Tra le cose più preziose possedute da Andrea Sperelli era una coperta di seta fina, d’un colore azzurro disfatto, intorno a cui giravano i dodici segni dello Zodiaco in ricamo, con le denominazioni Aries, Taurus, Gemini, Cancer, Leo, Virgo, Libra, Scorpius, Arcitenens, Caper, Amphora, Pisces a caratteri gotici. Il Sole trapunto d’oro occupava il centro del cerchio; le figure degli animali, disegnate con uno stile un po’ arcaico che ricordava quello de’ musaici, aveva uno splendore straordinario; tutta quanta la stoffa pareva degna d’ammantare un talamo imperiale. Essa, infatti, proveniva dal corredo di Bianca Maria Sforza, nipote di Ludovico il Moro; la quale andò in sposa all’imperator Massimiliano.
    La nudità di Elena non poteva, in verità, avere una più ricca ammantatura. Talvolta, mentre Andrea stava nell’altra stanza, ella si svestiva in furia, si distendeva nel letto, sotto la coperta mirabile; e chiamava forte l’amante. Ed a lui che accorreva ella dava imagine d’una divinità avvolta in una zona di firmamento. Anche, talvolta, volendo andare innanzi al camino, ella levavasi dal letto traendo seco la coperta. Freddolosa, si stringeva addosso la seta, con ambo le braccia; e camminava a piedi nudi, con passi brevi, per non implicarsi nelle pieghe abbondanti. Il Sole splendevale su la schiena, a traverso i capelli disciolti; lo Scorpione le prendeva una mammella; un gran lembo zodiacale strisciava dietro di lei, sul tappeto, trasportando le rose, s’ella le aveva già sparse.
    L’acquaforte rappresentava appunto Elena dormente sotto i segni celesti. La forma muliebre appariva secondata dalle pieghe della stoffa, col capo abbandonato un poco fuor della proda del letto, con i capelli pioventi fino a terra, con un braccio pendulo e l’altro posato lungo il fianco. Le parti non nascoste, ossia la faccia, il sommo del petto e le braccia erano luminosissime; e il bulino aveva reso con molta potenza lo scintillio dei ricami nella mezz’ombra e il mistero dei simboli. Un alto levriere bianco, Famulus, fratel di quello che posa la testa su le ginocchia della contessa d’Arundel nel quadro di Pietro Paolo Rubens, tendeva il collo verso la signora, guatando, fermo su le quattro zampe, disegnato con una felice arditezza di scorcio. Il fondo della stanza era opulento e oscuro.
    L’altra acquaforte riferivasi al gran bacino d’argento che Elena Muti aveva ereditato da sua zia Flaminia.
    Questo bacino era storico: e si chiamava la Tazza d’Alessandro. Fu donato alla principessa di Bisenti da Cesare Borgia prima ch’ei partisse per la terra di Francia a portare la bolla di divorzio e le dispense di matrimonio a Luigi XII; e doveva esser compreso fra le salmerie favolose che il Valentino portò seco nel suo ingresso a Chinon descritto dal signor di Brantôme. Il disegno delle figure che giravano a torno e di quelle che sorgevano dal margine delle due estremità era attribuito al Sanzio.
    La tazza si chiamava di Alessandro perché fu composta in memoria di quella prodigiosa a cui nei vasti conviti soleva prodigiosamente bere il Macedone. Stuoli di Sagittarii giravano intorno ai fianchi del vaso, con tesi gli archi, tumultuando, nelle attitudini mirabili di quelli i quali Raffaello dipinse ignudi saettanti contro l’Erma nel fresco che sta nella sala borghesiana ornata da Giovan Francesco Bolognesi. Inseguivano una gran Chimera che sorgeva su dall’orlo, come un’ansa, alla estremità del vaso, mentre dalla parte opposta balzava il giovine sagittario Bellerofonte con l’arco teso contro il mostro nato di Tifone. Gli ornamenti della base e dell’orlo erano d’una rara leggiadria. L’interno era dorato, come quel d’un ciborio. Il metallo era sonoro come uno strumento. Il peso era di trecento libbre. La forma tutta quanta era armoniosa.
    Spesso, per capriccio, Elena Muti prendeva in quella tazza il suo bagno mattutino. Ella vi si poteva bene immergere, se non distendere, con tutta la persona; e nulla, in verità, eguagliava la suprema grazia di quel corpo raccolto nell’acqua che la doratura tingeva d’un indescrivibile tenuità di riflessi, poiché il metallo non era argento ancóra e l’oro moriva.
    Invaghito di tre forme diversamente eleganti, cioè della donna, della tazza, e del veltro, l’acquafortista trovò una composizione di linee bellissima. La donna, ignuda, in piedi, entro il bacino, appoggiandosi con una mano su la sporgenza della Chimera e con l’altra su quella di Bellerofonte, protendevasi innanzi ad irridere il cane che, piegato in arco su le zampe anteriori abbassate e su le posteriori diritte, a simiglianza di un felino quando spicca il salto, ergeva verso di lei il muso lungo e sottile come quel d’un luccio, argutamente.
    Non mai Andrea Sperelli aveva con più ardore goduta e sofferta l’intenta ansietà dell’artefice in vigilare l’azion dell’acido cieca e irreparabile; non mai aveva con più ardore acuita la pazienza nella sottilissima opera della punta secca su le asprezze dei passaggi. Egli era nato, in verità, calcografo, come Luca d’Olanda. Possedeva una scienza mirabile (ch’era forse un raro senso) di tutte le minime particolarità di tempo e di grado le quali concorrono a infinitamente variare sul rame l’efficacia dell’acqua forte. Non la pratica, non la diligenza, non la intelligenza soltanto, ma specie quel natio senso quasi infallibile l’avvertiva del momento giusto, dell’attimo puntuale, in cui la corrosione giungeva a dare tal preciso valor d’ombra che nell’intenzion dell’artefice doveva avere la stampa. E nel padroneggiar così spiritualmente quell’energia bruta e quasi direi nell’infonderle uno spirito d’arte e nel sentir non so che occulta rispondenza di misura tra il battere del polso e il progressivo mordere dell’acido, era il suo inebriante orgoglio, la sua tormentosa gioia.
    Pareva ad Elena esser deificata dall’amante, come l’Isotta riminese nelle indistruttibili medaglie che Sigismondo Malatesta fece coniare in gloria di lei.
    Ma ella, ne’ giorni appunto in cui Andrea attendeva all’opera, diveniva triste e taciturna e sospirosa, quasi l’occupasse un’interna angoscia. Aveva, d’improvviso, effusioni di tenerezza così struggenti, miste di lacrime e di singhiozzi mal frenati, che il giovine rimaneva attonito, in sospetto, senza comprendere.
    Una sera, tornavano a cavallo, dall’Abentino, giù per la via di Santa Sabina, avendo ancóra negli occhi la gran visione dei palazzi imperiali incendiati dal tramonto, rossi di fiamma tra i cipressi nerastri che penetrava una polvere d’oro. Cavalcavano in silenzio, poiché la tristezza di Elena erasi comunicata all’amante. D’innanzi a Santa Sabina, questi fermò il baio, dicendo:
  • Ti ricordi?
    Alcune galline, che beccavano in pace tra i ciuffi d’erba, si dispersero ai latrati di Famulus. Lo spiazzo, invaso dalle gramigne, era tranquillo e modesto come il sagrato d’un villaggio; ma i muri avevano quella luminosità singolare che riflettesi dagli edifizi di Roma « nell’ora di Tiziano »,
    Elena anche sostò.
  • Come pare lontano, quel giorno! – disse, con un po’ di tremito nella voce.
    Infatti, quella memoria si perdeva nel tempo indefinitamente, quasi che il loro amore durasse da molti mesi, da molti anni. Le parole di Elena avevano suscitato nell’animo di Andrea la strana illusione e, insieme, una inquietudine. Elena si mise a ricordare tutte le particolarità di quella visita, fatta in un pomeriggio di gennaio, sotto un sole primaverile. Si diffondeva nelle minuzie, insistendo; e di tratto in tratto interrompevasi come chi segua, oltre le sue parole, un pensiero non espresso. Andrea credé sentire nella voce di lei il rimpianto. – Che rimpiangeva ella mai? Il loro amore non vedeva d’innanzi a sé giorni anche più dolci? La primavera non teneva già Roma? – Egli, perplesso, quasi non l’ascoltava più. I cavalli scendevano, al passo, l’uno a fianco dell’altro, talvolta respirando forte dalle froge o accostando i musi come per confidarsi un secreto. Famulus andava su e giù, in perpetua corsa.
  • Ti ricordi – seguitava Elena – ti ricordi di quel frate che ci venne ad aprire, quando sonammo la campanella?
  • Sì, sì…
  • Come ci guardò stupefatto! Era piccolo piccolo, senza barba, tutto rugoso. Ci lasciò soli nell’atrio, per andare a prendere le chiavi della chiesa; e tu mi baciasti. Ti ricordi?
  • Sì.
  • E tutti quei barili, nell’atrio! E quell’odore di vino, mentre il frate ci spiegava le storie intagliate nella porta di cipresso! E poi, la Madonna del Rosario! Ti ricordi? La spiegazione ti fece ridere; e io sentendoti ridere, non potei frenarmi; e ridemmo tanto innanzi a quel poveretto che si confuse e non aprì più bocca neanche all’ultimo per dirti grazie…
    Dopo un intervallo, ella riprese:
  • E a Sant’Alessio, quando tu non volevi lasciarmi vedere la cupola pel buco della serratura! Come ridemmo, anche là!
    Tacque, di nuovo. Veniva su per la strada una compagnia d’uomini con una bara, seguitata da una carrozza pubblica, piena di parenti che piangevano. Il morto andava al cimitero degli Israeliti. Era un funerale muto e freddo. Tutti quegli uomini, dal naso adunco e dagli occhi rapaci, si somigliavano tra loro come consanguinei.
    Affinché la compagnia passasse, i due cavalli si divisero, prendendo ciascuno un lato, rasente il muro; e gli amanti si guardarono, al di sopra del morto, sentendosi crescere la tristezza.
    Quando si riaccostarono, Andrea domandò:
  • Ma tu che hai? A che pensi?
    Ella esitò, prima di rispondere. Teneva gli occhi abbassati sul collo dell’animale, accarezzandolo col pomo del frustino, irresoluta e pallida.
  • A che pensi? – ripeté il giovine.
  • Ebbene, te lo dirò. Io parto mercoledì, non so per quanto tempo; forse per molto, per sempre; non so… Quest’amore si rompe, per colpa mia; ma non mi chiedere come, non mi chiedere perché, non mi chiedere nulla: ti prego! Non potrei risponderti.
    Andrea la guardò, quasi incredulo. La cosa gli pareva così impossibile che non gli fece dolore.
  • Tu dici per gioco; è vero Elena?
    Ella scosse la testa, negando, poiché le si era chiusa la gola; e subitamente spinse al trotto il cavallo. Dietro di loro, le campane di Santa Sabina e di Santa Prisca cominciarono a suonare, nel crepuscolo. Essi trottavano in silenzio, suscitando gli echi sotto gli archi, sotto i templi, nelle ruine solitarie e vacue. Lasciarono a sinistra San Giorgio in Velabro che aveva ancóra un bagliore vermiglio su i mattoni del campanile, come nel giorno della felicità. Costeggiarono il Fòro romano, il Fòro di Nerva, già occupati da un’ombra azzurrognola, simile a quella de’ ghiacciai nella notte. Si fermarono all’Arco dei Pantani, dove li attendevano gli staffieri e le carrozze.
    Appena fuor di sella, Elena tese la mano ad Andrea, evitando di guardarlo negli occhi. Pareva ch’ella avesse gran fretta di allontanarsi.
  • Ebbene? – le chiese Andrea, aiutandola a montar nel legno.
  • A domani. Stasera, no.