La convalescenza e’ una purificazione e un rinascimento. Non mai il senso della vita è soave come dopo l’angoscia del male; e non mai l’anima umana più inclina alla bontà e alla fede come dopo aver guardato negli abissi della morte. Comprende l’uomo, nel guarire, che il pensiero, il desiderio, la volontà, la conscienza della vita non sono la vita. Qualche cosa è in lui più vigile del pensiero, più continua del desiderio, più potente della volontà, più profonda anche della conscienza; ed è la sostanza, la natura dell’essere suo. Comprende egli che la sua vita reale è quella, dirò così, non vissuta da lui; è il complesso delle sensazioni involontarie, spontanee, incoscienti, istintive; è l’attività armoniosa e misteriosa della vegetazione animale; è l’impercettibile sviluppo di tutte le metamorfosi e di tutte le rinnovellazioni. Quella vita appunto in lui compie i miracoli della convalescenza: richiude le piaghe, ripara le perdite, riallaccia le trame infrante, rammenda i tessuti lacerati, ristaura i congegni degli organi, rinfonde nelle vene la ricchezza del sangue, riannoda su gli occhi la benda dell’amore, rintreccia d’intorno al capo la corona de’ sogni, riaccende nel cuore la fiamma della speranza, riapre le ali alle chimere della fantasia.
Dopo la mortale ferita, dopo una specie di lunga e lenta agonia, Andrea Sperelli ora a poco a poco rinasceva, quasi con un altro corpo e con un altro spirito, come un uomo nuovo, come una creatura uscita da un fresco bagno letèo, immemore e vacua. Parevagli d’essere entrato in una forma più elementare. Il passato per la sua memoria aveva una sola lontananza, come per la vista il cielo stellato è un campo eguale e diffuso sebbene gli astri sian diversamente distanti. I tumulti si pacificavano, il fango scendeva dall’imo, l’anima facevasi monda; ed egli rientrava nel grembo della natura madre, sentivasi da lei maternamente infondere la bontà e la forza.
Ospitato da sua cugina nella villa di Schifanoja, Andrea Sperelli si riaffacciava all’esistenza in cospetto del mare. Poiché ancóra in noi la natura simpatica persiste e poiché la nostra vecchia anima abbracciata dalla grande anima naturale palpita ancóra a tal contatto, il convalescente misurava il suo respiro sul largo e tranquillo respiro del mare, ergeva il suo corpo a similitudine de’ validi alberi, serenava il suo pensiero alla serenità degli orizzonti. A poco a poco, in quegli ozii intenti e raccolti, il suo spirito si stendeva, si svolgeva, si dispiegava, si sollevava dolcemente come l’erba premuta in su’ sentieri; diveniva infine verace, ingenuo, originale, libero, aperto alla pura conoscenza, disposto alla pura contemplazione; attirava in sé la cose, le concepiva come modalità del suo proprio essere, come forme della sua propria esistenza; si sentiva infine penetrato dalla verità che proclamava l’Oupanischad dei Veda: «Hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeter me aliud ens non est. » Il gran soffio d’idealità che esalano i libri sacri indiani, studiati e amati un tempo, pareva lo sollevasse. E tornava a risplendergli singolarmente la formula sanscrita, chiamata Mahavakya cioè la Gran Parola: «TAT TWAM ASI »; che significa: « Questa cosa vivente, sei tu. »
Erano i giorni ultimi di agosto. Una quiete estatica teneva il mare; le acque avean tal transparenza che ripetevan con perfetta esattezza qualunque imagine; l’estrema linea delle acque perdevasi nel cielo così che i due elementi parevano un elemento unico, impalpabile, innaturale. Il vasto anfiteatro dei colli, popolato d’olivi, d’aranci, di pini, di tutte le più nobili forme della vegetazione italica, abbracciando quel silenzio, non era più una moltitudine di cose ma una cosa unica, sotto il comune sole.
Il giovine, disteso all’ombra o addossato a un tronco o seduto su una pietra, credeva di sentire in sé medesimo scorrere il fiume del tempo; con una specie di tranquillità catalettica, credeva sentir vivere nel suo petto l’intero mondo; con una specie di religiosa ebrietà, credeva posseder l’infinito. Quel ch’ei provava era ineffabile, non esprimibile neppur con le parole del mistico: « Io sono ammesso dalla natura nel più secreto delle sue divine sedi, alla sorgente della vita universa. Quivi io sorprendo la causa del moto e odo il primo canto degli esseri in tutta la sua freschezza. » La vista a poco a poco mutàvaglisi in visione profonda e continua; i rami degli alberi sul suo capo gli parevan sollevare il cielo, ampliare l’azzurro, risplendere come corone d’immortali poeti; ed egli contemplava ed ascoltava, respirando col mare e con la terra, placido come un dio.
Dov’eran mai tutte le sue vanità e le sue crudeltà e i suoi artifici e le sue menzogne? Dov’erano gli amori e gli inganni e i disinganni e i disgusti e le incurabili ripugnanze dopo il piacere? Dov’erano quegli immondi e rapidi amori che gli lasciavan nella bocca come la strana acidezza di un frutto tagliato con un coltello d’acciaio? Egli non si ricordava più di nulla. Il suo spirito avea fatto una grande renunziazione. Un altro principio di vita entrava in lui; qualcuno entrava in lui, segreto, il quale sentiva la pace profondamente. Egli riposava, poiché non desiderava più.
Il desiderio aveva abbandonato il suo regno; l’intelletto nell’attività seguiva libero le sue proprie leggi e rispecchiava il mondo oggettivo come un puro soggetto della conoscenza; le cose apparivano nella lor forma vera, nel lor vero colore, nella vera ed intera lor significazione e bellezza, precise, chiarissime; spariva ogni sentimento della persona. In questa temporanea morte del desiderio, in questa temporanea assenza della memoria, in questa perfetta oggettività della contemplazione appunto era la causa del non mai provato godimento.
Die Sterne, die begehrt man nicht,
Man freut sich ihrer Pracht.
« Le stelle, uom non le desidera, – ma gioisce del lor fulgore. » Per la prima volta, infatti, il giovine conobbe tutta l’armoniosa poesia notturna de’ cieli estivi.
Erano le ultime notti d’agosto, senza luna. Innumerevoli, nella profonda conca, palpitava la vita ardente delle constellazioni. Le Orse, il Cigno, Ercole, Boote, Cassiopea riscintillavano con un palpito così rapido e così forte che quasi parevano essersi appressati alla terra, essere entrati nell’atmosfera terrena. La Via Lattea svolgevasi come un regal fiume aereo, come un adunamento di riviere paradisiache, come una immensa correntìa silenziosa che traesse nel suo « miro gurge » una polvere di minerali siderei, passando sopra un àlveo di cristallo, tra falangi di fiori. Ad intervalli, meteore lucide rigavano l’aria immobile, con la discesa lievissima e tacita d’una goccia d’acqua su una lastra di diamante. Il respiro del mare, lento e solenne, bastava solo a misurare la tranquillità della notte, senza turbarla; e le pause eran più dolci del suono.
Ma questo periodo di visioni, di astrazioni, di intuizioni, di contemplazioni pure, questa specie di misticismo buddhistico e quasi direi cosmogonico, fu brevissimo. Le cause del raro fenomeno, oltre che nella natura plastica del giovine e nella sua attitudine alla oggettività, eran forse da ricercarsi nella singolar tensione e nella estrema impressionabilità del suo sistema nervoso cerebrale. A poco a poco, egli incominciò a riprender coscienza di sé stesso, a ritrovare il sentimento della sua persona, a rientrare nella sua corporeità primitiva. Un giorno, nell’ora meridiana, mentre la vita delle cose pareva sospesa, il grande e terribile silenzio gli lasciò vedere dentro, d’improvviso, abissi vertiginosi, bisogni inestinguibili, indistruttibili ricordi, cumuli di sofferenza e di rimpianto, tutta la sua miseria d’un tempo, tutti i vestigi del suo vizio, tutti gli avanzi delle sue passioni.
Da quel giorno, una malinconia pacata ed uguale gli occupò l’anima; ed egli vide in ogni aspetto delle cose uno stato dell’anima sua. Invece di transmutarsi in altre forme di esistenza o di mettersi in altre condizioni di conscienza o di perdere l’esser suo particolare nella vita generale, ora egli presentava i fenomeni contrarii, involgendosi d’una natura ch’era una concezion tutta soggettiva del suo intelletto. Il paesaggio divenne per lui un simbolo, un emblema, un segno, una scorta che lo guidava a traverso il labirinto interiore. Segrete affinità egli scopriva tra la vita apparente delle cose e l’intima vita de’ suoi desiderii e de’ suoi ricordi. « To me – High mountains are a feeling. » Come nel verso di Giorgio Byron le montagne, per lui erano un sentimento le marine.
Chiare marine di settembre! – Il mare, calmo e innocente come un fanciullo addormentato, si distendeva sotto un cielo angelico di perla. Talvolta appariva tutto verde, del fino e prezioso verde d’una malachite; e, sopra, le piccole vele rosse somigliavano fiammelle erranti. Talvolta appariva tutto azzurro, d’un azzurro intenso, quasi direi araldico, solcato di vene d’oro, come un lapislazzuli; e, sopra, le vele istoriate somigliavano una processione di stendardi e di gonfaloni e di pavesi cattolici. Anche, talvolta prendeva un diffuso luccicore metallico, un color pallido di argento, misto del color verdiccio d’un limone maturo, qualche cosa d’indefinibilmente strano e delicato; e, sopra, le vele erano pie ed innumerevoli come le ali de’ cherubini ne’ fondi delle ancóne giottesche.
Il convalescente rinveniva sensazioni obliate della puerizia, quell’impression di freschezza che dànno al sangue puerile gli aliti del vento salso, quegli inesprimibili effetti che fanno le luci, le ombre, i colori, gli odori delle acque su l’anima vergine. Il mare non soltanto era per lui una delizia degli occhi, ma era una perenne onda di pace a cui si abbeveravano i suoi pensieri, una magica fonte di giovinezza in cui il suo corpo riprendeva la salute e il suo spirito la nobiltà. Il mare aveva per lui l’attrazion misteriosa d’una patria; ed egli vi si abbandonava con una confidenza filiale, come un figliuol debole nelle braccia d’un padre onnipossente. E ne riceveva conforto; poiché nessuno mai ha confidato il suo dolore, il suo desiderio, il suo sogno al mare invano.
Il mare aveva sempre per lui una parola profonda, piena di rivelazioni subitanee, d’illuminazioni improvvise, di significazioni inaspettate. Gli scopriva nella segreta anima un’ulcera ancor viva sebben nascosta e glie la faceva sanguinare; ma il balsamo poi era più soave. Gli scoteva nel cuore una chimera dormente e glie la incitava così ch’ei ne sentisse di nuovo le unghie e il rostro; ma glie la uccideva poi e glie la seppelliva nel cuore per sempre. Gli svegliava nella memoria una ricordanza e glie l’avvivava così ch’ei sofferisse tutta l’amarezza del rimpianto verso le cose irrimediabilmente fuggite; ma gli prodigava poi la dolcezza d’un oblio senza fine. Nulla entro quell’anima rimaneva celato, al conspetto del gran consolatore. Alla guisa che una forte corrente elettrica rende luminosi i metalli e rivela la loro essenza dal color della loro fiamma, la virtù del mare illuminava e rivelava tutte le potenze e le potenzialità di quell’anima umana.
In certe ore il convalescente, sotto l’assiduo dominio d’una tal virtù, sotto l’assiduo giogo d’un tal fascino, provava una specie di smarrimento e quasi di sbigottimento, come se quel dominio e quel giogo fossero per la sua debolezza insostenibili. In certe ore aveva dal colloquio incessante tra la sua anima e il mare un senso vago di prostrazione, come se quel gran verbo gli facesse troppa violenza all’angustia dell’intelletto avido di comprendere l’incomprendibile. Una tristezza delle acque lo sconvolgeva come una sventura.
Un giorno, egli si vide perduto. Vapori sanguigni e maligni ardevano all’orizzonte, gittando sprazzi di sangue e d’oro sul fosco delle acque; un viluppo di nuvoli paonazzi ergevasi da’ vapori, simile a una zuffa di centauri immani sopra un vulcano in fiamme; e per quella luce tragica un corteo funebre di vele triangolari nereggiava su l’ultimo limite. Erano vele d’una tinta indescrivibile, sinistre come le insegne della morte; segnate di croci e di figure tenebrose; parevano vele di navigli che portassero cadaveri di appestati a una qualche maledetta isola popolata di avvoltoi famelici. Un senso umano di terrore e di dolore incombeva su quel mare, un accasciamento d’agonia gravava su quell’aria. Il fiotto sgorgante dalle ferite de’ mostri azzuffati non restava mai, anzi cresceva in fiumi che arrossavano le acque per tutto lo spazio, sino alla sponda, facendosi qua e là violaceo e verdastro come per corruzione. Di tratto in tratto il viluppo crollava, i corpi si deformavano o si squarciavano, lembi sanguinosi pendevano giù dal cratere o sparivano inghiottiti dall’abisso. Poi, dopo il gran crollo, rigenerati, i giganti balzavan di nuovo alla lotta, più atroci; il cumulo si ricomponeva, più enorme; e ricominciava la strage, più rossa, finché i combattenti rimanevan esangui tra la cenere del crepuscolo, esanimi, disfatti, sul vulcano semispento.
Pareva un episodio d’una qualche titanomachia primitiva, uno spettacolo eroico, visto, a traverso un lungo ordine di età, nel cielo della favola. Andrea, con l’animo sospeso, seguiva tutte le vicende. Abituato alle tranquille discese dell’ombra, in quella declinazion serena dell’estate, ora si sentiva dall’insolito contrasto riscuotere e sollevare e intorbidare con una strana violenza. Da prima, fu come un’angoscia confusa, tumultuaria, piena di palpiti inconsapevoli. Affascinato dal tramonto bellicoso, egli non anche giungeva a veder chiaramente in sé medesimo. Ma, quando la cenere del crepuscolo piovve spegnendo ogni guerra e il mare sembrò un’immensa palude plumbea, egli credé udire nell’ombra il grido dell’anima sua, il grido d’altre anime.
Era dentro di lui, come un cupo naufragio nell’ombra. Tante tante voci chiamavano al soccorso, imploravano aiuto, imprecavano alla morte; voci note, voci ch’egli aveva un tempo ascoltate (voci di creature umane o di fantasmi?); ed ora non distingueva l’una dall’altra! Chiamavano, imploravano, imprecavano inutilmente, sentendosi perire; s’affievolivano soffocate dall’onda vorace; divenivano deboli, lontane, interrotte, irriconoscibili; divenivano un gemito; s’estinguevano; non risorgevano più.
Egli restava solo. Di tutta la sua giovinezza, di tutta la sua vita interiore, di tutte le sue idealità non restava nulla. Dentro di lui non restava che un freddo abisso vacuo; d’intorno a lui, una natura impassibile, fonte perenne di dolore per l’anima solitaria. Ogni speranza era spenta; ogni voce era muta; ogni àncora era rotta. A che vivere?
Subitamente, l’imagine di Elena gli risorse nella memoria. Altre imagini di donne si sovrapposero a quella, si confusero con quella, la dispersero, si dispersero. Egli non riuscì a cambiarne alcuna. Tutte parevano sorridere, d’un sorriso nemico, nel dileguarsi; e tutte, nel dileguarsi, parevano portar seco qualche cosa di lui. Che cosa? Egli non sapeva. Un avvilimento indicibile l’oppresse: lo gelò quasi un senso di vecchiezza; gli occhi gli si empirono di lacrime. Una tragica ammonizione gli sonò nel cuore: « Troppo tardi! »
Le dolcezze recenti della pace e della malinconia gli sembrarono già lontane, gli sembrarono un’illusion già fuggita; quasi gli sembrarono essere state godute da un altro spirito, nuovo, straniero, entrato in lui e poi scomparso. Gli sembrò che il suo vecchio spirito non potesse più omai rinnovellarsi né risollevarsi. Tutte le ferite, ch’egli senza ritegno aveva aperte nella dignità del suo essere interiore, sanguinarono. Tutte le degradazioni, ch’egli senza ripugnanza aveva inflitte alla sua conscienza, vennero fuori come macchie e si dilatarono come una lebbra. Tutte le violazioni, ch’egli senza pudore aveva fatte alle sue idealità, gli suscitarono un rimorso acuto, disperato, terribile, come se dentro di lui piangessero anime di sue figliuole a cui egli padre avesse tolta la verginità mentre dormivano sognando.
Ed egli piangeva con loro; e gli sembrava che le sue lacrime non gli scendessero sul cuore come un balsamo ma gli rimbalzassero come sopra una materia viscida e fredda onde il cuor suo fosse fasciato. L’ambiguità, la simulazione, la falsità, l’ipocrisia, tutte le forme della menzogna e della frode nella vita del sentimento, tutte aderivano al suo cuore come un vischio tenace.
Egli aveva troppo mentito, aveva troppo ingannato, s’era troppo abbassato. Un ribrezzo di sé e del suo vizio l’invase. – Vergogna! Vergogna! – La disonorante bruttura gli pareva indelebile; le piaghe gli parevano immedicabili; gli pareva ch’egli dovesse portarne la nausea per sempre, per sempre, come un supplizio senza termine. – Vergogna! – Piangeva, chino sul davanzale, abbandonato sotto il peso della sua miseria, affranto come un uomo che non veda salvezza; e non vedeva le stelle riscintillare a una a una sul suo povero capo, nella sera profonda.
Al nuovo giorno egli ebbe un grato risveglio, un di que’ freschi e limpidi risvegli che ha soltanto l’Adolescenza nelle sue primavere trionfanti. Il mattino era una meraviglia; respirare il mattino era una beatitudine immensa. Tutte le cose vivevano nella felicità della luce; i colli parevano avvolti in un velario diafano d’argento, scossi da un agile fremito; il mare pareva attraversato da riviere di latte, da fiumi di cristallo, da ruscelli di smeraldi, da mille vene che formavano come il mobile intrico d’un labirinto liquido. Un senso di letizia nuziale e di grazia religiosa emanava dalla concordia del mare, del cielo e della terra.
Egli respirava, guardava, ascoltava, un poco attonito. Nel sonno, la sua febbre era guarita. Egli aveva chiuso gli occhi, nella notte, cullato dal coro delle acque come da una voce amica e fedele. Chi s’addormenta al suono di quella voce ha un riposo pieno di riparatrice tranquillità. Neanche le parole della madre inducono un sonno così puro e così benefico al figliuolo che soffre.
Guardava, ascoltava, muto, raccolto, intenerito, lasciando entrare in sé quell’onda di vita immortale. Non mai la musica sacra d’un altro maestro, un Offertorio di Giuseppe Haydn o un Te Deum di Volfango Mozart, gli aveva data la commozione che ora gli davano le semplici campane delle chiese di lungi, salutanti l’ascension del Giorno ne’ cieli del Signore Uno e Trino. Egli sentiva il suo cuore colmarsi e traboccar di commozione. Qualche cosa come un sogno vago ma grande gli si levava su l’anima, qualche cosa come un velo ondeggiante a traverso il quale splendesse il misterioso tesoro della felicità. Finora egli aveva sempre saputo quel che desiderava e non aveva quasi mai trovato piacere da desiderare invano. Ora, non poteva dire il suo desiderio; non sapeva. Ma, certo, la cosa desiderata doveva essere infinitamente soave, poiché era una soavità anche desiderarla.
I versi della Chimera nel Re di Cipro, antichi versi, quasi obliati, gli ritornarono alla memoria, gli sonarono come una lusinga.
« Vuoi tu pugnare?
Uccidere? Veder fiumi di sangue?
gran mucchi d’oro? greggi di captive
femmine? schiavi? altre, altre prede? Vuoi
Tu far vivere un marmo? Ergere un tempio?
Comporre un immortale inno? Vuoi (m’odi,
giovine, m’odi) vuoi divinamente
amare? »
La chimera gli ripeteva, nel cuor segreto, sommessa, con oscure paure:
« M’odi,
giovine, m’odi: vuoi divinamente
amare? »
Egli un poco sorrise. E pensò: « Amare chi? l’Arte? una donna? quale donna? » Elena gli apparve lontana, perduta, morta, non più sua; le altre gli apparvero anche più lontane, morte per sempre. Egli era libero, dunque. Perché mai avrebbe di nuovo seguita una ricerca inutile e perigliosa? Era in fondo il suo cuore il desiderio di darsi, liberamente e per riconoscenza, a un essere più alto e più puro. Ma dov’era questo essere? L’Ideale avvelena ogni possesso imperfetto; e nell’amore ogni possesso è imperfetto e ingannevole, ogni piacere è misto di tristezza, ogni godimento è dimezzato, ogni gioia porta in sé un germe di sofferenza, ogni abbandono porta in sé un germe di dubbio; e i dubbii guastano, contaminano, corrompono tutti i diletti come le Arpie rendevano immangiabili tutti i cibi a Fineo. Perché mai dunque avrebbe egli di nuovo stesa la mano all’albero della scienza?
« The tree of knowledge has been pluck’d, – all’s known. »
« L’albero della scienza è stato spogliato, – tutto è conosciuto » come canta Giorgio Byron nel Don Juan. In verità, per l’avvenire, la sua salute stava nella « eylabeia», cioè nella prudenza, nella finezza, nella cautela, nella sagacità. Questo suo intendimento gli pareva bene espresso in un sonetto d’un poeta contemporaneo che, per certa affinità di gusti letterarii e comunanza di educazione estetica, egli prediligeva.
Sarò come colui che si distende
sotto l’ombra d’un grande albero carco,
ormai sazio di trar balestra od arco;
e in sul capo il maturo frutto pende.
Non ei scuote quel ramo, né protende
la man, né veglia in su le prede al varco.
Giace; e raccoglie con un gesto parco
i frutti che quel ramo al suol rende.
Di tal soave polpa ei nel profondo
non morde, a ricercar l’intima essenza,
perché teme l’amaro; anzi la fiuta,
poi sugge, con piacer limpido, senza
avidità, né triste né giocondo.
La sua favola breve è già compiuta.
Ma la «eylabeia», se può valere ad escludere in parte dalla vita il dolore, esclude anche ogni alta idealità. La salute dunque stava in una specie di equilibrio goethiano tra un cauto e fine epicureismo pratico e il culto profondo e appassionato dell’Arte.
- L’Arte! L’Arte! – Ecco l’Amante fedele, sempre giovine, immortale; ecco la Fonte della gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa agli eletti; ecco il prezioso Alimento che fa l’uomo simile a un dio. Come aveva egli potuto bevere ad altre coppe dopo avere accostate le labbra a quell’una? Come aveva egli potuto ricercare altri gaudii dopo aver gustato il supremo? Come il suo spirito aveva potuto accogliere altre agitazioni dopo aver sentito in sé l’indimenticabile tumulto della forza creatrice? Come le sue mani avevan potuto oziare e lascivire su i corpi delle femmine dopo aver sentito erompere dalle dita una forma sostanziale? Come, infine, i suoi sensi avean potuto indebolirsi e pervertirsi nella bassa lussuria dopo essere stati illuminati da una sensibilità che coglieva nelle apparenze le linee invisibili, percepiva l’impercettibile, indovinava i pensieri nascosti della Natura?
Un improvviso entusiasmo l’invase. In quel mattin religioso, egli voleva di nuovo inginocchiarsi all’altare e, secondo il verso del Goethe, leggere i suoi atti di divozione nella liturgia d’Omero.
« Ma se la mia intelligenza fosse decaduta? Se la mia mano avesse perduta la prontezza? S’io non fossi più degno? » A questo dubbio, l’assalse uno sbigottimento così forte ch’egli, con una smania puerile, si mise a cercare qual potesse essere una prova immediata per aver la certezza che il suo era un irragionevole timore. Avrebbe voluto sùbito fare un esperimento reale: comporre una strofa difficile, disegnare una figura, incidere un rame, sciogliere un problema di forme. Ebbene? E poi? non sarebbe stato quello un esperimento fallace? La lenta decadenza dell’ingegno può anche essere inconsciente: qui sta il terribile. L’artista che a poco a poco perde le sue facoltà non si accorge della sua debolezza progressiva; poiché insieme con la potenza di produrre e di riprodurre lo abbandona anche il giudizio critico, il criterio. Egli non distingue più i difetti dell’opera sua, non sa che la sua opera è cattiva o mediocre; s’illude; crede che il suo quadro, che la sua statua, che il suo poema sieno nelle leggi dell’Arte mentre son fuori. Qui sta il terribile. L’artista colpito nell’intelletto può non avere conscienza della propria imbecillità, come il pazzo non ha conscienza della propria aberrazione. E allora?
Fu pel convalescente una specie di pànico. Egli si strinse le tempie fra le palme; e rimase alcuni istanti sotto l’urto di quel pensiero spaventevole, sotto l’orrore di quella minaccia, come annientato. – Meglio, meglio morire! – Non mai, come in quel momento, aveva sentito il divino pregio del dono; non mai come in quel momento, la scintilla gli era parsa sacra. Tutto il suo essere tremava con una strana violenza, al solo dubbio che quel dono potesse struggersi, che quella scintilla potesse spegnersi. – Meglio morire!
Levò il capo; scosse da sé ogni inerzia; discese nel parco; camminò lentamente sotto gli alberi, non avendo un pensiero determinato. Un soffio leggero correva su le cime; a intervalli, le foglie si scompigliavano con un fruscìo forte, come se per mezzo vi passasse una torma di scoiattoli; piccoli frammenti di cielo apparivano tra i rami, come occhi cerulei sotto palpebre verdi. In un luogo favorito, ch’era una specie di lucus minimo in signoria di una Erma quadrifronte intenta a una quadruplice meditazione, egli sostò; e si mise a sedere sull’erba, con le spalle appoggiate alla base del simulacro, con la faccia rivolta al mare. D’innanzi a lui, certi fusti, diritti e digradanti come le canne della fistola di Pane, secavano l’oltramarino; intorno, gli acanti aprivano con sovrana eleganza i cesti delle loro foglie, intagliate simetricamente come nel capitello di Callimaco.
I versi di Salmace nella Favola d’Ermafrodito gli vennero alla memoria.
« Nobili acanti, o voi ne le terrestri
selve indizi di pace, alte corone,
di pura forma; o voi, snelli canestri
che il Silenzio con lieve man compone
a raccogliere il fiore de’ silvestri
Sogni, qual mai virtù sul bel garzone
versaste da le foglie oscura e dolce?
Ei dorme, nudo; e il braccio il capo folce. »
Altri versi gli vennero alla memoria, altri ancóra, altri ancóra, tumultuariamente. La sua anima si empì tutta d’una musica di rime e di sillabe ritmiche. Egli gioiva; quella spontanea improvvisa agitazion poetica gli dava un inesprimibile diletto. Egli ascoltava in sé medesimo que’ suoni, compiacendosi delle ricche imagini, degli epiteti esatti, delle metafore lucide, delle armonie ricercate, delle squisite combinazioni di iati e di dieresi, di tutte le più sottili raffinatezze che variavano il suo stile e la sua metrica, di tutti i misteriosi artifizii dell’endecasillabo appresi dagli ammirabili poeti del XIV secolo e in ispecie dal Petrarca. La magia del verso gli soggiogò di nuovo lo spirito; e l’emistichio sentenziale d’un poeta contemporaneo gli sorrideva singolarmente. – « Il Verso è tutto. »
Il verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessun istrumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario, multiforme, plastico, obediente, sensibile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più sottile d’un fluido, più vibrante d’una corda, più luminoso d’una gemma, più fragrante d’un fiore, più tagliente d’una spada, più flessibile d’un virgulto, più carezzevole d’un murmure, più terribile d’un tuono, il verso è tutto e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può rappresentare il sopraumano, il soprannaturale, l’oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo posseder il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere l’Assoluto. Un verso perfetto e assoluto, immutabile, immortale; tiene in sé le parole con la coerenza d’un diamante; chiude il pensiero come in un cerchio preciso che nessuna forza mai riuscirà a rompere; diviene indipendente da ogni legame da ogni dominio; non appartiene più all’artefice, ma è di tutti e di nessuno, come lo spazio, come la luce, come le cose immanenti e perpetue. Un pensiero esattamente espresso in un verso perfetto è un pensiero che già esisteva preformato nella oscura profondità della lingua. Estratto dal poeta, séguita ad esistere nella conscienza degli uomini. Maggior poeta è dunque colui che sa discoprire, disviluppare, estrarre un maggior numero di codeste preformazioni ideali. Quando il poeta è prossimo alla scoperta d’uno di tali versi eterni, è avvertito da un divino torrente di gioia che gli invade d’improvviso tutto l’essere.
Quale gioia è più forte? – Andrea socchiuse un poco gli occhi, quasi per prolungare quel particolar brivido ch’era in lui foriero della inspirazione quando il suo spirito si disponeva all’opera d’arte, specialmente al poetare. Poi, pieno d’un diletto non mai provato, si mise a trovar rime con la èsile matita su le brevi pagine bianche del taccuino. Gli vennero alla memoria i primi versi d’una canzone del Magnifico:
Parton leggieri e pronti
dal petto i miei pensieri…
Quasi sempre, per incominciare a comporre, egli aveva bisogno d’una intonazione musicale datagli da un altro poeta; ed egli usava prenderla quasi sempre dai verseggiatori antichi di Toscana. Un emistichio di Lapo Gianni, del Cavalcanti, di Cino, del Petrarca, di Lorenzo de’ Medici, il ricordo d’un gruppo di rime, la congiunzione di due epiteti, una qualunque concordanza di parole belle e bene sonanti, una qualunque frase numerosa bastava ad aprirgli la vena, a dargli, per così dire, il la, una nota che gli servisse di fondamento all’armonia della prima strofa. Era una specie di topica applicata non alla ricerca degli argomenti ma alla ricerca dei preludii. Il primo settenario medìceo gli offerse infatti la rima; ed egli vide distintamente tutto ciò ch’egli voleva mostrare al suo imaginario uditore in persona dell’Erma; e, insieme con la visione, nel tempo medesimo, si presentò spontaneamente al suo spirito la forma metrica in cui egli doveva versare, come un vino in una coppa, la poesia. Poiché quel suo sentimento poetico era duplice, o meglio, nasceva da un contrasto, cioè dal contrasto fra l’abiezion passata e la presente risurrezione, e poiché nel suo movimento lirico procedeva per elevazione, egli elesse il sonetto; la cui architettura consta di due ordini: del superiore rappresentato dalle due quartine e dell’inferiore rappresentato dalle due terzine. Il pensiero e la passione dunque, dilatandosi nel primo ordine, si sarebber raccolti, rinforzati, elevati nel secondo. La forma del sonetto, pur essendo meravigliosamente bella e magnifica, è in qualche parte manchevole; perché somiglia una figura con il busto troppo lungo e le gambe troppo corte. Infatti le due terzine non soltanto sono in realtà più corte delle quartine, per numero di versi; ma anche sembrano più corte delle quartine, per quel che la terzina ha di rapido e di fluido nell’andatura sua in confronto alla lentezza e alla maestà della quartina. Quegli è migliore artefice, il quale sa coprire la mancanza; il quale, cioè, serbando alle terzine la imagine più precisa e più visibile e le parole più forti e più sonore, ottiene che le terzine grandeggino e armonizzino con le superiori strofe senza però nulla perdere della lor leggerezza e rapidità essenziali. I dipintori del Rinascimento sapevano equilibrare una intiera figura con il semplice svolazzo d’un nastro o d’un lembo o d’una piega.
Andrea, nel comporre, studiava se medesimo curiosamente. Non aveva fatto versi da gran tempo. Quell’intervallo d’ozio aveva nociuto alla sua abilità tecnica? Gli pareva che le rime, uscenti a mano a mano dal suo cervello, avessero un sapor nuovo. La consonanza gli veniva spontanea, senza ch’ei la cercasse; e i pensieri gli nascevano rimati. Poi, d’un tratto, un intoppo arrestava il fluire; un verso gli si ribellava; tutto il resto gli si scomponeva come un musaico sconnesso; le sillabe lottavano contro la constrizion della misura; una parola musicale e luminosa, che gli piaceva, era esclusa dalla severità del ritmo ad onta d’ogni sforzo; da una rima nasceva un’idea nuova, inaspettata, a sedurlo, a distrarlo dall’idea primitiva; un epiteto, pur essendo giusto ed esatto, aveva un suono debole; la tanto cercata qualità, la coerenza, mancava completamente; e la strofa era come una medaglia riuscita imperfetta per colpa d’un fonditore inesperto il qual non avesse saputo calcolare la quantità di metallo fuso necessaria a riempirne il cavo. Egli, con acuta pazienza, rimetteva di nuovo nel crogiuolo il metallo, e ricominciava l’opera da capo. La strofa alla fine gli usciva intera e precisa; qualche verso, qua e là, aveva una certa asprezza piacente; a traverso le ondulazioni del ritmo appariva evidentissima la simetria; la ripetizion delle rime faceva una musica chiara, richiamando allo spirito con l’accordo de’ suoni l’accordo de’ pensieri e rafforzando con un legame fisico il legame morale; tutto il sonetto viveva e respirava come un organismo indipendente, nell’unità. Per passare da un sonetto all’altro egli teneva una nota, come in musica la modulazione da un tono all’altro è preparata dall’accordo di settima, nel qual si tiene la nota fondamentale per farne la dominante del nuovo tono.
Così componeva, or rapido or lento, con un diletto non mai provato; e il luogo raccolto, in verità, pareva escito dalla fantasia d’un solitario egipane dedito ai carmi. Il mare, mentre più cresceva il giorno, balenava fra i tronchi come negli intercolunnii d’un portico di diaspro; gli acanti corintii eran come le coronazioni abbattute di quelle colonne arboree; nell’aria, glauca come l’ombra d’un antro lacustre, il sole gittava a quando a quando strali e anelli e dischi d’oro. Certo, Alma Tadema avrebbe ivi imaginata una Saffo dal crin di viola, seduta sotto l’Erma di marmo, poetante su la lira di sette corde, in mezzo a un coro di fanciulle dal crin di fiamma pallide e intente a bevere dall’adonio la compiuta armonia di ciascuna strofe.
Quando egli ebbe condotti a termine i quattro sonetti, trasse un respiro e li recitò senza voce, con una enfasi interiore. L’apparente rottura del ritmo nel quinto verso dell’ultimo, causata dalla mancanza di un accento tonico e quindi d’una posa grave della ottava sillaba, gli parve efficace e la mantenne. Quindi scrisse i quattro sonetti su la base quadrangolare dell’Erma: ogni faccia uno, in quest’ordine.
I
Erma quadrata, le tue quattro fronti
sanno mie novità meravigliose?
Spirti, cantando, da le sedi ascose
partono del mio cor leggieri e pronti
Il cor mio prode tutte impure fonti
serrò, cacciò da se tutt’altre cose
impure, tutte fiamme obbrobriose
domò, ruppe all’assedio tutti i ponti.
Spirti, cantando, salgono. Ben odo
io l’inno; e inestinguibile, possente,
del periglio di me mi prende un riso.
Pallido sì ma come un re, io godo
sentir nel core l’anima ridente,
mentre il già vinto Mal rimiro fiso.
II
L’anima ride li amor suoi lontani
mentre fiso rimiro il Mal già vinto
che in quei di foco intrichi aveami spinto
come in boschi nudriti da vulcani.
Or nel gran cerchio de’ dolori umani
entra, novizia in veste di jacinto,
dietro lasciando il falso laberinto
ove i belli ruggìan mostri pagani.
Non più sfinge con unghie auree l’abbranca,
non górgone la fa pietra restare,
non sirena per lunga ode l’incanta.
Alta, in sommo del cerchio, un’assai bianca
donna, con atto di comunicare,
tien fra le pure dita l’Ostia santa.
III
Ella fuor de l’insidie e fuor de l’ire
e fuor de’ danni, sta pacata e forte
come colei che può fino a la morte
sapere il Male, senza quel soffrire.
- O voi che fate tutti i venti aulire,
che d’avete in signorìa tutte le porte,
io metto a’ vostri piedi la mia sorte:
Madonna me ‘l vogliate consentire!
Folgora ne la pura mano vostra
quell’Ostia desiata, come un sole.
Non vedrò dunque il gesto che consente? –
Ed ella, ch’è benigna a chi si prostra,
comunicando dice le parole:
- Offerto t’è il tuo Ben, anzi è presente.
IV
Io – dice – son l’innaturale Rosa
generata dal sen de la Bellezza.
Io son che infondo la suprema ebrezza.
Io son colei che esalta e che riposa.
Ara con pianti, anima dolorosa,
per mietere con canti d’allegrezza.
Dopo un lungo dolor, la mia dolcezza
passerà di dolcezza ogni altra cosa. –
- Tal sia, Madonna; e dal mio cor disgorghi
gran sangue, e i fiumi scorrano sul mondo,
e il dolore immortal pur gli rinnovi,
e me stesso travolgano que’gorghi,
me coprano; ma veda io dal profondo
la luce che a la invitta anima piovi. –
DIE XII SEPTEMBRIS MDCCCLXXXVI.