mercoledì 5 agosto 2020

Quando il Vate voleva liberarsi dei Savoia

La biografia politica di Gabriele D’Annunzio ci viene riproposta nell’interessante saggio di Vito Salierno, D’Annunzio e i Savoia (Salerno Editrice, pagg. 236, euro 14), che ne mette in luce il carattere eversivo nei confronti del sistema politico liberale e dello stesso istituto monarchico. Fervido proselita dell’entrata in guerra dell’Italia, a fianco di Francia e Inghilterra, nel 1915, D’Annunzio aveva mescolato la sua azione a quella dell’interventismo più radicale che, nelle sue componenti di sinistra e di destra,

minacciava addirittura un’azione rivoluzionaria per spingere Vittorio Emanuele III a fornire il suo consenso alla presa d’armi. Nel marzo di quell’anno, il letterato era coinvolto nel progetto di Peppino Garibaldi, nipote del duce dei Mille, che intendeva utilizzare la legione di volontari garibaldini, pronti a congiungersi con l’esercito francese nelle Argonne, in un colpo di mano in Liguria, dove duemila camicie rosse avrebbero dovuto affluire per forzare la mano al governo.
Pochi mesi più tardi,

la guerra si sarebbe sostituita alla rivoluzione, fornendo l’occasione a D’Annunzio di offrire alte testimonianze di valore, che ne ingigantirono a dismisura la statura politica e la sua presa sulle masse. Il vate embedded si prodigava in una serie di imprese mirabolanti, sempre accompagnate da un accorto battage pubblicitario: il forzamento del porto di Buccari al comando di una flottiglia di agili barchini d’assalto, gli arditi voli su Trento, Trieste, e quello su Vienna a pochi mesi dalla vittoria finale delle armi italiane.

Né D’Annunzio dimenticava di usare, insieme alla spada, anche la penna, intonando un inno in gloria del sovrano che, «dimesso l’ermellino e la porpora», aveva indossato gli umili «panni bigi» dei suoi soldati. Omaggio poetico che pare non avesse intenerito la dura scorza sabauda di Vittorio, il quale faceva osservare che le azioni di D’Annunzio sui campi di battaglia equivalevano semplicemente al suo dovere di soldato e non avevano bisogno di «essere strombazzate ai quattro venti». Più cordiali invece i rapporti con il Duca D’Aosta che lo lodava per aver sostituito l’anglico «hurrà!

» con il fatidico «eja, ejà, alalà!», come grido di guerra atto ad animare le truppe inviate all’assalto delle trincee avversarie.
Poi il tradimento degli alleati al tavolo di pace di Versailles, l’oltraggio della «vittoria mutilata» che il poeta intese vendicare con l’occupazione di Fiume, nel 1919, alla testa di una sua armata personale. Un gesto di ribellione aperta verso i poteri costituiti, per il quale il poeta ebbe la sfrontatezza di chiedere un preventivo consenso al sovrano, il quale avrebbe obiettato che la concessione di quell’autorizzazione oltrepassava la sfera delle competenze di un re costituzionale.

La stessa laconica risposta che Vittorio avrebbe opposto alla firma dello stato d’assedio nel 1922, per bloccare la marcia su Roma. Incassato il regale rifiuto, D’Annunzio si poneva decisamente al di fuori di ogni rispetto della legalità e della legittimità, con i fatti, sicuramente, ma anche con le parole. I suoi proclami adriatici parlavano una lingua ormai dichiaratamente eversiva, inneggiavano alla guerra totale delle «nazioni povere e impoverite» contro i nuovi padroni del mondo, paragonando l’impresa di Fiume alle gesta del repubblicanissimo Sinn Fein irlandese e persino alla rivoluzione bolscevica.

Intanto, dietro la silhouette del poeta cominciava a stagliarsi l’ombra inquietante di Mussolini. Tra i due uomini, che mai si sarebbero amati e che sempre avrebbero diffidato l’uno dell’altro, prendeva corpo una sorta di patto d’azione, scarso di risultati sul piano pratico ma denso di oscuri presagi per l’immediato futuro. Fantasmi di congiure, complotti, pronunciamenti militari, magari capeggiati dal Duca d’Aosta, già in avanzata linea di sintonia con il movimento fascista, si agitavano a ripetizione,

come fuochi fatui privi di consistenza fino alla primavera del 1920, ma prendevano corpo improvvisamente nel programma rivoluzionario redatto da Mussolini, nell’autunno successivo, dove si leggeva che «il colpo di stato dannunziano non deve essere né deve apparire reazionario e perciò è necessario che sin dall’inizio batta bandiera repubblicana».
Dopo i Romanoff, in Russia, anche i Savoia dovevano essere sbalzati dal loro trono, ma, se possibile, senza spargimento di sangue, e anzi a condizione di «guardarsi da brutalità contro le persone della famiglia reale».

Come in un controcanto bene intonato, D’Annunzio rispondeva all’incendiario proclama, l’anno successivo, sostenendo che la monarchia non era ormai che una semplice «facciata» istituzionale impersonificata da un «imbecille», la quale attendeva soltanto di essere abbattuta da un atto di forza che avrebbe dovuto «restituire al popolo italiano la pienezza della sua iniziativa».