Figlio della Cicala e dell'Olivo, nell'orto di quel Fauno tu cogliesti la canna pel tuo flauto, pel tuo sufolo doppio a sette fóri? In quel che ha il nume agresto entro un'antica villa di Camerata deserta per la morte di Pampínea? O forse lungo l'Affrico che riga la pallida contrada ove i campi il cipresso han per confine? Più presso, nella Mensola che ride sotto il ponte selvaggia? Più lungi, ove l'Ombron segue la traccia d'Ambra e Lorenzo canta i vani ardori? Ma il mio pensier mi finge che tu colta l'abbia tra quelle mura che Arno parte, negli Orti Oricellari, ove dalla barbarie fu sepolta ahi sì trista, la Musa Fiorenza che cantò ne' dì lontani ai lauri insigni, ai chiari fonti, all'eco dell'inclite caverne, quando di Grecia le Sirene eterne venner con Plato alla Città dei Fiori. Te certo vide Luca della Robbia, ti mirò Donatello, operando le belle cantoríe. Tutte le frutta della Cornucopia per forza di scalpello fecero onuste le ghirlande pie. E tu danzavi le tue melodie, nudo fanciul pagano, àlacre nel divin marmo apuano come nell'aria, conducendo i cori. Figlio della Cicala e dell'Olivo, or col tuo sufoletto incanti la lucertola verdognola a cui sopra la selce il fianco vivo palpita pel diletto in misura seguendo il dolce suono. Non tu conosci il sogno forse della silente creatura? Ver lei ti pieghi: in lei non è paura: tu moduli secondo i suoi colori. Tu moduli secondo l'aura e l'ombra e l'acqua e il ramoscello e la spica e la man dell'uom che falcia, secondo il bianco vol della colomba, la grazia del torello che di repente pavido s'inarca, la nuvola che varca il colle qual pensier che seren volto muti, l'amore della vite all'olmo l'arte dell'ape, il flutto degli odori. Ogni voce in tuo suono si ritrova e in ogni voce sei sparso, quando apri e chiudi i fóri alterni. Par quasi che tu sol le cose muova mentre solo ti bei nell'obbedire ai movimenti eterni. Tutto ignori, e discerni tutte le verità che l'ombra asconde. Se interroghi la terra, il ciel risponde; se favelli con l'acque, odono i fiori. O fiore innumerevole di tutta la vita bella, umano fiore della divina arte innocente, preghiamo che la nostra anima nuda si miri in te, preghiamo che assempri te maravigliosamente! L'immensa plenitudine vivente trema nel lieve suono creato dal virgineo tuo soffio, e l'uom cò suoi fervori e i suoi dolori. II. Or la tua melodia tutta la valle come un bel pensiere di pace crea, le due canne leggiere versando una la luce ed una l'ombra. La spiga che s'inclina per offerirsi all'uomo e il monte che gli dà pietre del grembo, se ben l'una vicina e l'altro sia rimoto e l'una esigua e l'altro ingente, sembra si giungano per l'aere sereno come i tuoi labbri e le tue dolci canne, come su letto d'erbe amato e amante, come i tuoi diti snelli e i sette fóri, come il mare e le foci, come nell'ala chiare e negre penne, come il fior del leandro e le tue tempie, come il pampino e l'uva, come la fonte e l'urna, come la gronda e il nido della rondine, come l'argilla e il pollice, come ne' fiari tuoi la cera e il miele, come il fuoco e la stipula stridente, come il sentier e l'orma, come la luce ovunque tocca l'ombra. III. Sopor mi colse presso la fontana. Lo sciame era discorde: avea due re; pendea come due poppe fulve. E il rame s'udia come campana. Ti vidi nel mio sogno, o lene aulente. Lottato avevi ignudo contro il torrente folle di rapina. Raccolto avevi piuma di sparviere che a sommo del ciel muto in sue rote feria l'aer di strida. Ahi, lungi dalle tue musiche dita gittato avevi i calami forati. Chino con sopraccigli corrugati eri, fanciul pugnace, intento a farti archi da saettare col legno della flèssile avellana. IV. Eleggere sapesti il re splendente nello sciame diviso, ridere d'un tuo bel selvaggio riso spegnendo il fuco sterile e sonoro. Con la man tinta in mele di sosillo traesti fuor la troppa signoria. Cauto e fermo le calcavi. Sporgeva a modo d'uvero di poppa il buon sire tranquillo che fu re delle artefici soavi. Poi franco te n'andavi sonando per le prata di trifoglio, incoronato d'ellera e d'orgoglio, entro la nube delle pecchie d'oro. V. L'acqua sorgiva fra i tuoi neri cigli fecesi occhio che vede e che sorride; fecesi chioma su la tua cervice il crespo capelvenere. Fatto sei di segreto e di freschezza. Fatte son di làtice fluido e d'umide fibre le tue membra. Il tuo spirto, dal fonte come il salice ma senza l'amarezza nato, le amiche naiadi rimembra; tutte le polle sembra trarre per le invisibili sue stirpi. E se gli occhi tuoi cesii han neri cigli, ha neri gambi il verde capelvenere. Converse le tue canne sono in chiari vetri, onde lenti i suoni stillano come gocce da clessidre. S'appressano i colúbri maculosi, gli aspidi i cencri e gli angui e le ceraste e le verdissime idre. Taciti, senza spire, eretti i serpi bevono l'incanto. Sol le bífide lingue a quando a quando tremano come trema il capelvenere. Sino ai ginocchi immerso nella cupa linfa, alla venenata greggia tu moduli il tuo lento carme. Par che da' piedi tuoi torta sia nata radice e di natura erbida par ti sien fatte le gambe. Ma il fior della tua carne suso come il nénufaro s'ingiglia. E se gli occhi tuoi cesii han nere ciglia, neri ha gli steli il verde capelvenere. VI. Se t'è l'acqua visibile negli occhi e se il làtice nudre le tue carni, viver puoi anco ne' perfetti marmi e la colonna dorica abitare. Natura ed Arte sono un dio bifronte che conduce il tuo passo armonioso per tutti i campi della Terra pura. Tu non distingui l'un dall'altro volto ma pulsare odi il cuor che si nasconde unico nella duplice figura. O ignuda creatura, teco salir la rupe veneranda voglio, teco offerire una ghirlanda del nostro ulivo a quell'eterno altare. Torna con me nell'Ellade scolpita ove la pietra è figlia della luce e sostanza dell'aere è il pensiere. Navigando nell'alta notte illune, noi vedremo rilucere la riva del diurno fulgor ch'ella ritiene. Stamperai nelle arene del Fàlero orme ardenti. Ospiti soli presso Colòno udremo gli usignuoli di Sofocle ad Antigone cantare. Vedremo nei Propílei le porte del Giorno aperte, nell'intercolumnio tutto il cielo dell'Attica gioire; nel tempio d'Erettèo, coro notturno dai negricanti pepli le sopposte vergini stare come urne votive; la potenza sublime della Citta, transfusa in ogni vena del vital marmo ov'è presente Atena, regnar col ritmo il ciel la terra il mare. Alcun arbore mai non t'avrà dato gioia sì come la colonna intatta che serba i raggi ne' suoi solchi eguali. All'ora quando l'ombra sua trapassa i gradi, tu t'assiderai sul grado più alto, cò tuoi calami toscani. La Vittoria senz'ali forse t'udrà, spoglia d'avorio e d'oro; e quella alata che raffrèna il toro; e quella che dislaccia il suo calzare. Taci! La cima della gioia è attinta. Guarda il Parnete al ciel, come leggiero! Guarda l'Imetto roscido di miele! Flessibile m'appar come l'efebo, vestito della clamide succinta, che cavalcò nelle Panatenee. Sorse dall'acque egee il bel monte dell'api e fu vivente. Or tuttavia nella sua forma ei sente la vita delle belle acque ondeggiare. Seno d'Egina! Oh isola nutrice di colombe e d'eroi! Pallida via d'Eleusi coi vestigi di Demetra! Splendore della duplice ferita nel fianco del Pentelico! Armonie del glauco olivo e della bianca pietra! Ogni golfo è una cetra. Tu taci, aulete, e ascolti. Per l'Imetto l'ombra si spande. Il monte violetto mormora e odora come un alveare. VII. L'odo fuggir tra gli arcipressi foschi, e l'ansia il cor mi punge. Ei mi chiama di lunge solo negli alti boschi, e s'allontana. Mutato è il suon delle sue dolci canne. Trèmane il cor che l'ode, balza se sotto il pièstrida l'arbusto; pavido è fatto al rombo del suo sangue, ed altro più non ode il cor presàgo di remoto lutto. Prego: "O fanciul venusto, non esser sì veloce ch'io non ti giunga!" E' vana la mia voce. Melodiosamente ei s'allontana. Elci nereggian dopo gli arcipressi, antiqui arbori cavi. Pascono suso in ciel nuvole bianche. A quando a quando tra gli intrichi spessi le nuvole soavi son come prede tra selvagge branche. E sempre odo le canne gemere d'ombra in ombra roche quasi richiamo di colomba che va di ramo in ramo e s'allontana. "O fanciullo fuggevole, t'arresta! Tu non sai com'io t'ami, intimo fiore dell'anima mia. Una sol volta almen volgi la testa, se te la inghirlandai, bel figlio della mia melancolia! Con la tua melodia fugge quel che divino era venuto in me, quasi improvviso ritorno dell'infanzia più lontana. Fa che l'ultima volta io t'incoroni, pur di negro cipresso, e teco io sia nella dolente sera!" Ei nell'onda volubile dei suoni con un gentil suo gesto, simile a un spirto della primavera, volgesi; alla preghiera sorride, e non l'esaude. L'ansia mia vana odo sol tra le pause, mentre che d'ombra in ombra ei s'alontana. Ad un fonte m'abbatto che s'accoglie entro conca profonda per aver pace, e un elce gli fa notte. "O figlio, sosta! Imiterai le foglie e l'acque anche una volta e i silenzii del dì con le tue note. Sediamo in su le prode. Fa ch'io veda l'imagine puerile di te presso l'imagine di me nel cupo speglio!" Ei s'allontana. S'allontana melodiosamente nè più mi volge il viso, emulo di Favonio ei nel suo volo. Sol calando, la plaga d'occidente s'infiamma; e d'improvviso tutta la selva è fatta un vasto rogo. Le nuvole di foco ardono gli elci forti, aerie vergini al disio dei mostri. Giunge clangor di buccina lontana. E un tempio ecco apparire, alte ruine cui scindon le radici errabonde. Gli antichi iddii son vinti. Giaccion tronche le statue divine cadute dai fastigi; dormono in bruni pepli di corimbi. Lentischi e terebinti l'odor dei timiami fan loro intorno. "O figlio, se tu m'ami, sosta nel luogo santo!" Ei s'allontana. "Rialzerò le candide colonne, rialzerò l'altare e tu l'abiterai unico dio. M'odi: te l'ornerò con arti nuove. E non avrà l'eguale. Maraviglioso artefice son io. T'adorerò nel mio petto e nel tempio. M'odi, figlio! Che immortalmente io t'incoroni!" Nel gran fuoco del vespro ei s'allontana. Si dilegua ne' fiammei orizzonti Forse è fratel degli astri. O forse nel mio sogno s'è converso? "Ti cercherò, ti cercherò ne' monti, ti cercherò per gli aspri torrenti dove ti sarai deterso. E ti vedrò diverso! Gittato avrai le canne, intento a farti archi da saettare col legno della flèssile avellana".